Cultura

“Chiudo la porta e urlo” di Paolo Nori: verba manent

Paolo Nori Chiudo la porta e urlo copertina

Non tutti i libri sono fatti per un avere un senso. Forse nessuno lo ha davvero. Scrivere è un po’ come vivere, scrivi una nuova parola ogni giorno senza sapere bene né perché lo fai, né come finirà la frase. Ma l’unico modo per scoprirlo è arrivare in fondo, scrivo “per capire quello che penso” dice Nori. Delle volte però ci sono parole che ci svelano qualcosa di più delle altre, qualcosa di nuovo su cosa significa esser(ci). Come quelle di Raffaello Baldini. E come quelle di Paolo Nori su Raffaello Baldini.


Io di Paolo Nori non ho letto niente, tranne questo libro. È un po’ come giudicare il gelato al limone senza aver assaggiato il cremino. È un giudizio relativo a cui manca relatività. Chiudo la porta e urlo (Mondadori, 2024, finalista al Premio Strega 2025) è un libro inutile, che mi è piaciuto tanto. La cosa che mi è piaciuta di più è lo stile della scrittura e la cosa che mi è piaciuta di meno è lo stile della scrittura. Andiamo per gradi.

Raffaello Baldini e la poesia non poesia

Raffaello Baldini è stato un poeta e scrittore italiano, che ha fatto una cosa particolare, rara nella professione: ha iniziato a scrivere tardi. La sua prima pubblicazione arriva a 52 anni, un’età a cui molte persone si arrendono di solito alla routinarietà del quotidiano o a una passione hobbistica estrema per il ciclismo e le maratone. Invece, Baldini inizia a scrivere e a scrivere bene. Ha accumulato in tutti quegli anni tante cose da dire, e le dice in modo semplice, diretto, santarcangelese:

Una serata in Romagna una signora era andata da lui gli aveva detto Ma come mi son divertita, ma son così belle, ma così belle, non sembran neanche delle poesie.

Una poesia anti-poesia, ché pare parlare a tutti.

Ora, Baldini, per quanto riconosciuto nella nicchia letteraria, non è un nome tra i nomi, che si sente nominare spesso, anche grazie alla formazione poetica italiana nelle scuole, che si ferma ancora prima di iniziare.

Baldini è un poeta colto ma popolare, che scrive non una, ma due poesie sui coglioni e lo fa con eleganza, ma senza scadere nella pomposità.

Questa poesia saggia – o saggezza poetica – Nori ha deciso di celebrare, attraversandola in un libro che fin dal titolo si dichiara identitario.

Chiudo la porta e urlo riassume tutti questi livelli, quello individuale, quello culturale, quello regionale: è Baldini a scrivere che lui per sfogarsi chiude la porta e urla, ma è anche Nori e poi è l’Emilia tutta, con la sua faccia allegra messa su non appena supera la soglia di casa.

Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori (Mondadori).

Le parole di Baldini diventano così omaggio e spunto, in un gioco continuo di rimandi letterari e personali, di contesto e auto-biografia. Proprio perché il poeta racconta la semplicità del quotidiano, dell’esperibile quando si osserva il mondo, ogni testo diventa riflesso e incipit di un racconto qualunque, che appartiene alla vita di Nori come a quella di chiunque altro.

Repetita iuvant et scripta manent

Nonostante l’intento simil-celebrativo, questo non è un libro su Baldini. Forse per Baldini o con Baldini, ma sicuramente non su. Anzi, il personaggio-scrittore Nori è onnipresente con le sue considerazioni, intermezzi e narrazioni personali. Leggendolo, il lettore o la lettrice non sa mai cosa verrà dopo, se un tuffo nel passato, una considerazione sulla morte o una nota sulla soddisfazione nel pulire il frigo dopo mesi che non lo pulisci.

Il testo non ha una vero e proprio ordine cronologico né una struttura sistematica, con un continuo fluttuare tra presente, passato e futuro, spesso anche facendo uso (consapevole o realmente inconsapevole che sia) di ripetizioni. Alcuni aneddoti e personaggi – la nonna Carmela in primis – o frasi ad effetto e citazioni, tornano in più punti del libro, quasi come topoi che in questo apparente caos di pensieri danno un ritmo, un canone, che ti ricorda cosa o forse chi stai attraversando.

Una vita su carta, per davvero: tante storie, nomi ricorrenti, poche certezze ma qualche punto di riferimento che ci permette di navigare a vista fino alla fine. Un po’ zibaldone, un po’ critica letteraria ha l’andamento della memoria. Quella singola madeleine che diventa un ricordo, poi un altro, poi un sogno, una paura, un libro. 

Nonostante la spontaneità con cui lo fa, Nori infatti mette tanto di in questo libro. Certo, c’è il Nori scrittore, il Nori curioso e quello critico. Ma c’è anche Paolo, con le sue arroganze e insicurezze, con i suoi incontri e cambiamenti che costruiscono il vero nucleo autobiografico che è decisamente presente. Ci sono passaggi di gentile sincerità, in cui si parla di amore, di morte, di essere giovani e insicuri: “Io, i momenti, nella mia vita che mi svegliavo al mattino e non vedevo l’ora di scendere dal letto, non vedevo l’ora di stare al mondo, non sono stati tantissimi, devo dire”.

Sono però pochi, veramente pochissimi, quelli in cui l’autore sembra davvero lasciarsi andare. La vulnerabilità viene ogni volta riequilibrata da una piccola sufficiente dose di (auto)ironia o viene semplicemente troncata: “[…] e mi viene da chiedermi quante altre volte, dovrò raccogliere il materiale per la dichiarazione dei redditi? Quante altre volte mi accorgerò che l’autunno ha cambiato il giardino? Venti? Venticinque? Ventisette? E poi?”. E poi c’è una poesia di Raffaello Baldini.

Scrivi come mangi

Se dovessi descrivere l’elemento caratteriale più forte di Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori sarebbe sicuramente lo stile di scrittura, il testo che sembra farsi lì per lì mentre lo leggi. D’altronde, la verbosità stilistica non è certo nascosta o dissimulata, anzi già dalle prime pagine ti accorgi che c’è qualcosa di diverso, è quasi così ingombrante da distrarti dal contenuto.

L’autore si annuncia, il lettore e la lettrice si abituano, entrano in un nuovo libro, in un nuovo mondo e una volta che il patto è firmato nel contenitore di quelle pagine il fluire svirgolato di Nori diventa un dialogo, forse con chi legge, forse con sé stesso.

È una lingua questa, che nasce proprio dall’oralità, o comunque da una sua forma:

Ho cominciato a leggere i miei racconti ad alta voce, e è successo che naturalmente io, sapendo che poi li avrei dovuti leggere ad alta voce, avevo cominciato a scriverli un po’ come se fossero parlati, in un certo senso e […] improvvisamente i romanzi avevano cominciato a riempirsi di una lingua […]  che aveva molto a che fare con  l’italiano che si parlava a Parma, che era il posto dove abitavo, se non l’ho già detto, secondo me l’ho già detto.

Autodimostrativo.

È sicuramente un linguaggio originale, che a tratti ha dell’omerico, a tratti forse si attorciglia un po’ su sé stesso. Come se la trasposizione mentale da voce interiore a lettera avvenisse con una traduzione istantanea: in alcuni punti fluisce meravigliosamente, in altri si appesantisce e sulla carta suona un po’ stonata.

Una volta finito il libro la sensazione è quella di aver avuto una piacevole conversazione con un penitente che si è confessato. Non abbiamo avuto molta voce in capitolo, da laici ascoltatori e ascoltatrici, ma è stato catartico un po’ per tutti e tutte.

Mimesi

Molto probabilmente nel giro di un mese non mi ricorderò niente dei fatti raccontati, forse mi ricorderò di Baldini, del suo nome, o forse del fatto che Paolo Nori va sempre a correre e vuole fare una maratona ma ha paura che non ci riuscirà mai. Al posto della concretezza, mi rimarranno addosso altre cose, certe cose che questo libro mi ha fatto sentire quando l’esperienza individuale per dei magnifici istanti diventava la mia, la tua, la nostra, umana, universale.

E va bene che ogni tanto non ci sia uno scopo, la vita di certo non ne ha uno e da bravi esseri umani forse riusciamo a toccare quel “concetto americano” della felicità proprio quando smettiamo di cercarlo. Con le parole di Baldini:

Luglio.
[…] E quando a quella di mano gli è venuta la cricca di coppe e tre tre senza danari, s’è gonfiato un po’ ma zitto, non s’è fatto capire, s’è accomodato sulla sedia, poi è uscito con l’asso, e non diceva ancora niente, ma dalla contentezza ha dato una botta sul legno che nei bicchieri il vino ha tremato tutto, e la cicala sul ciliegio ha taciuto di botto dalla paura. L’aria allora è diventata così leggera che sul crocicchio s’è sentito pigolare il campanello arrugginito di una bicicletta, e laggiù, ma lontano, volare un aeroplano sopra il mare.

Alice Nanni


Questa recensione di Chiudo la porta e urlo, di Paolo Nori, fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2025.

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