Cultura

“Quello che so di te” di Nadia Terranova ci insegna il coraggio di raccontare le nostre fragilità

Nadia Terranova

Finalista al Premio Strega 2025, “Quello che so di te” (Guanda, 2025) è il tentativo di Nadia Terranova di ricucire gli strappi della memoria familiare, ridando voce a una bisnonna dimenticata e al non detto che attraversa generazioni di donne. Un viaggio intimo e stratificato nel silenzio delle genealogie femminili per interrogare ciò che resta spesso taciuto: la verità come costruzione, la memoria come materia instabile, la maternità come ruolo sociale carico di aspettative.


Quello che so di te” : la verità come oggetto conteso

Nella mia famiglia materna esiste una regola: non si va mai nei cimiteri a mezzogiorno. Non serve spiegare il perché: qualcosa è successo, e quel qualcosa basta a imporsi come verità. È il tipo di verità che non ha bisogno di prove, solo di trasmissione. Se ti viene affidata, tocca a te portarla avanti: onorarla, proteggerla, forse raccontarla.

Uno dei fratelli di mia nonna – morto da tempo – era stato visto nel cimitero del paese proprio a mezzogiorno, da una signora ignara che lui fosse già dall’altra parte. Una svista, un’allucinazione, un gioco di luce? Forse. Ma nessuno di noi ha mai voluto concedere troppo spazio alla razionalità. A mezzogiorno i morti vanno a trovare i loro defunti. Ed è meglio non disturbarli.

Succede così nelle famiglie di paese: ognuna ha una o più verità indiscutibili da tramandare di decenni in decenni. E sono proprio le verità familiari il cuore pulsante – e dolente – di Quello che so di te di Nadia Terranova (Guanda, 2025), romanzo entrato nella Cinquina finalista del Premio Strega 2025.

La verità è un pomo della discordia, un nemico duro con cui fare i conti. Il più acerrimo, perché il tempo è dalla sua parte: lo protegge come si fa con un totem; gli conferisce un’aura di intoccabilità. E chi decide di sporcarsi le mani con la verità raramente uscirà illeso.

Ma c’è chi sceglie di farlo lo stesso, come la narratrice-autrice Nadia, che decide di inseguirla, di scavarla come si fa con i reperti archeologici.

Le verità della sua famiglia siciliana sono fondamentalmente tre: nella vita di una persona, a trentotto anni, succede qualcosa di importante; succede quasi sempre a marzo; ed esiste una “linea di pazzia” che si tramanda lungo le generazioni femminili.

Venera e Nadia: la maternità come specchio

La pazzia ha il nome di Venera, la bisnonna della voce narrante. Un’antenata pressocché sconosciuta, se non fosse per ciò che la Mitologia familiare – così Nadia chiama il tessuto di storie, pettegolezzi e omissioni che si tramanda nelle famiglie – ha cucito intorno al suo nome.

Si dice che nel 1928, a quasi trentotto anni, Venera sia stata internata nel Mandalari, il manicomio di Messina, per una forma acuta di depressione.

Una strana e misteriosa depressione post-partum dovuta a una fatale caduta durante la sua terza gravidanza, quando portava in grembo quella che doveva essere Giovanna. Una depressione post-partum ma senza partum.

Venera è una madre mancata, per disattenzione e malanova – così si chiama in dialetto siciliano la malasorte che si accanisce, nella forma di una maledizione troppo potente per essere dirottata. Venera si è sottratta al dolore del parto, ma, ancor peggio, al sacrificio della morte.

Che madre è quella che non muore per salvare il proprio figlio? E cosa diventa una donna quando non è madre in un’epoca in cui la maternità è un obbligo sacro che scivola addosso alle mogli spesso come una condanna senza possibilità di appello (leggi anche la recensione di Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi)?

Eppure, Venera ha altre due figlie, Maria e Rinuccia: il suo nome è già legato al miracolo-dovere della generazione. Ma è proprio ciò che non ha più a riscrivere il suo valore e la sua identità:

Per far nascere Giovanna, pensa Venera, era necessario morire, come tante muoiono di parto, ma lei è sopravvissuta e Giovanna è morta. Non sono stata una buona madre, non sono morta abbastanza. Non sono morta abbastanza, non sono morta in vece sua.

Nadia Terranova, Quello che so di te, p. 102.

La maternità non è necessariamente un istinto, una predisposizione, un’attitudine. È un ruolo che piomba addosso con ferocia materiale: ne risente la giovinezza del corpo, il senso personale del tempo, la facoltà di decidere come riempire i momenti di libertà. La maternità è un dono generoso, ma è anche un ruolo scomodo; l’evento miracoloso della procreazione si accoglie e si onora, certo, ma la sua pervasività richiede un confronto onesto.

E Nadia si confronta costantemente con Venera attorno al dilemma della maternità: come si deve essere madri? Perché non riesco ad essere la madre che dovrei essere? – si chiede l’una. E l’altra, quasi un secolo dopo, sembra rispondere: è possibile esserlo senza perdere completamente se stesse?

Allora la mia amica si era alzata e aveva preso in braccio mia figlia. La bambina aveva smesso di piangere e mi ero sentita abbracciata anch’io, quell’abbraccio interrompeva la stanchezza, guardavo la bambina e la incoraggiavo: fidati, puoi fidarti […].
Ho una passione per i neonati, poi però quando arrivano alla loro età diventano dei rompicoglioni – aveva chiosato ridendo la mia amica mentre i suoi figli facevano i teppisti in giro per i tavoli altrui.
Avevo riso anch’io, sorpresa di aver trovato la mia prima co-madre.

Nadia Terranova, Quello che so di te, pp. 209-210.

Quale voce per raccontare chi non c’è più?

Nadia sogna Venera da anni: è come se fosse chiamata a raccoglierne e ricostruirne la storia, per interrompere la “linea di pazzia” che si tramanda lungo le generazioni femminili della sua famiglia.

Per farlo serve scrivere, che è sia sottrarre “fatti cruciali” all’eclissi in cui sono stati costretti (p. 106), ma è anche tentare di mettere un confine alle cose. Non solo perché scripta manent, ma per creare un perimetro in cui una nuova verità possa essere nominata e validata, anche se imperfetta.

Ma esiste un’altra lingua oltre alla Mitologia familiare per parlare di chi non c’è più? Può la mancanza di un legame fisico e diretto permettere di restituire alla vita una storia finalmente priva di menzogne? Certamente: in fin dei conti il lavoro dello storico non è altro che uno scavo puntuale e attento tra documenti, oggetti e tracce polverose.

La copertina di Quello che so di te, di Nadia Terranova.

Nel caso aperto di Venera, il documento è il faldone del Mandalari: un insieme di reperti lontani che dovrebbero permettere a Nadia di impegnarsi in un lavoro di scavo storico attraverso la scienza della psichiatria, lì, in quelle carte in cui le dichiarazioni della paziente si sovrappongono al giudizio tecnico degli esperti.

La medicina sceglie le parole con cinica freddezza; il reperto clinico impone agli affetti di tracciare una distanza, di assumere uno sguardo neutro.

Ma quanto reale affetto può esserci nel rapporto tra Nadia e Venera, così dilungato nel tempo?

Eppure, qualcosa pulsa nel loro legame, qualcosa che ha generato nella narratrice-autrice un senso di appartenenza, di “femminile dilungato”.

È una forma di affetto che non nasce dall’esperienza condivisa ma da una connessione viscerale, difficile da definire. È il sangue a tenere insieme le due donne, ma è anche una tensione continua verso la verità, una spinta che può somigliare all’ossessione.

L’amore familiare, in questo caso, si manifesta come ostinazione, come urgenza di restituire giustizia a chi è stato dimenticato. E in questo gesto di ricerca, la distanza si colma almeno in parte, trasformando l’assenza in presenza narrativa.

Legittimare il fallimento e la disobbedienza

Il romanzo è un’indagine a più livelli: da un lato, la ricerca storica attraverso i faldoni clinici del Mandalari; dall’altro, un percorso introspettivo, un’indagine sulla propria identità, in cui si chiede al passato di legittimare il diritto al fallimento che inquieta la narratrice, Nadia.

Fallire, in Quello che so di te, non è cedere. È scegliere di non aderire, proprio come ha fatto Venera, che non solo non è stata una madre perfetta e invulnerabile, ma non è stata neppure la donna che la Mitologia familiare ha sempre raccontato.

Perché anche se la voce femminile ha in sé una forza imperativa – è infatti quella che risuona nella testa nel momento del rimprovero e del consiglio – la sua autorità può incrinarsi di fronte a una verità più profonda: siamo tutti fragili, e noi donne lo siamo anche di più perché non ci hanno concesso di ammetterlo:

Per quale ragione dovremmo tenere insieme la nostra vita e la nostra definizione? Finiamo schiacciate da domande create apposta per paralizzarci […].
Lasciateci sperimentare il fallimento, lasciate che ci concentriamo sull’unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo.
Lasciateci ovunque fallire in pace.

Nadia Terranova, Quello che so di te, p. 173.

Quello che so di te è un libro che non offre risposte rassicuranti, né un finale consolatorio: al contrario, si muove sul crinale sdrucciolevole tra verità e finzione, tra documentazione e sogno, tra genealogia e immaginazione.

È un atto di restituzione affettiva e politica, che tenta di salvare dall’oblio non solo una donna, ma il diritto stesso a raccontarsi senza dover necessariamente risultare esemplari.

Non importa se Venera sia davvero esistita così come Nadia la immagina: ciò che conta è che questa figura abbia trovato voce e spazio, che la sua storia – vera o verosimile – abbia oltrepassato la soglia dell’indicibile per essere finalmente raccontata senza paure. Così come quel “reticolo di strade dove gli incidenti urtano tutte, anche te” (p. 172). Anche Nadia. Anche noi.

Alexandra Bastari


Questa recensione di Quello che so di te, di Nadia Terranova, fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2025.

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