CronacaPolitica

C’è ancora spazio per la pace? I possibili scenari futuri dello scontro tra Israele e Iran

Israele Iran copertina articolo

L’aggressione israeliana ai siti militari e nucleari iraniani e la risposta di Teheran hanno portato ai massimi livelli l’allarme per un conflitto aperto in Medio Oriente, che probabilmente si tradurrebbe in una guerra su larga scala. C’è ancora spazio per la pace? Molto dipende – e non c’è da stupirsene – dalle prossime mosse di Washington.


Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, Israele ha lanciato una serie di attacchi aerei contro le infrastrutture militari iraniane, prendendo di mira soprattutto rappresentanti politici e militari, siti nucleari e scienziati (civili) che lavoravano al programma atomico di Teheran. Si tratta di Rising Lion, l’operazione con cui Netanyahu ha dichiarato di voler impedire un attacco che l’Iran stava preparando per distruggere Israele.

Mettiamo da parte l’attribuzione di colpa: il loop infantile del ma hanno iniziato loro non porta mai da nessuna parte, men che meno alla pace – anche perché basta guardare ai fondamenti del diritto internazionale per capire che la legittima difesa preventiva che ha invocato Israele non ha alcun fondamento giuridico.

Invece di litigare riguardo al passato, guardiamo al futuro: quali sono gli scenari possibili?

Il vero protagonista: il nucleare

Non è certo un segreto che il programma nucleare iraniano sia il vero protagonista di questa escalation. Israele stesso ha dichiarato di aver attaccato il nemico giurato per paura che, una volta ottenuta l’arma atomica, il regime di Khamenei la usasse per distruggere lo Stato Ebraico. Tuttavia è fondamentale allargare lo sguardo oltre la rivalità Israele-Iran, e inserirla nel contesto più ampio dei colloqui sul nucleare tra Iran e Stati Uniti.

La tempistica dell’operazione Rising Lion non sembra per nulla casuale: l’attacco è avvenuto esattamente allo scadere del termine dell’ultima fase dei negoziati sul nucleare tra Washington e Teheran, due giorni prima della ripresa dei colloqui, prevista in Oman per il 15 giugno. Ovviamente, l’incontro è ora rimandato a data da destinarsi – e Trump ha cercato di dipingere questa evoluzione come qualcosa di vantaggioso per Washington.

La situazione americana

Appena dopo la prima serie di attacchi da parte israeliana, la Casa Bianca ha dichiarato che si è trattata di un’azione unilaterale a cui Washington non ha preso parte in alcun modo. Eppure, proprio quando sembrava che gli Stati Uniti si stessero davvero distanziando dal loro prezioso alleato, Trump ha minacciato di colpire in modo ancora più brutale se l’Iran non avesse ceduto a un accordo sul nucleare.

È vero, sembra che non ci sia stato alcun coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nell’operazione del 13 giugno. Se fossero state usate tecnologie militari americane, infatti, i siti nucleari iraniani avrebbero probabilmente riportato danni molto più ingenti. La mancanza di un intervento diretto, però, non esclude che Washington abbia acconsentito tacitamente al piano israeliano – perché un Iran sotto attacco può essere utile anche agli obiettivi americani.

Probabilmente Trump spera che Rising Lion si riveli una leva negoziale utile per avanzare i colloqui sul nucleare – una dimostrazione che la minaccia militare contro Teheran non è solo uno stratagemma per cercare di ammorbidire la posizione del regime iraniano, ma una realtà che si concretizzerà nel caso in cui Teheran non ceda a un accordo. Washington sta puntando tutto sulla deterrenza, sperando che l’Iran ceda alle condizioni americane e eviti il conflitto. Un tale risultato sembra però altamente improbabile per tre principali ragioni.

1. L’Iran non si tirerà indietro

Sulla base della portata degli attacchi e la natura dei bersagli, Teheran potrebbe interpretare Rising Lion non solo come un modo per ostacolare il proprio programma nucleare, ma anche per destabilizzare il regime di Khamenei – un affronto che non lascerà impunito.

Nonostante i suoi proxy siano stati fortemente indeboliti durante i recenti scontri con lo Stato Ebraico, l’Iran potrebbe decidere di colpire altre aree della regione, per scongiurare attacchi futuri. Tra i potenziali bersagli figurano le rotte commerciali, le infrastrutture energetiche, e in particolare le basi petrolifere americane e dei Paesi del Golfo.

2. Il programma nucleare iraniano vive

L’eliminazione degli scienziati e i danni minori alle infrastrutture inflitti da Rising Lion hanno solo ostacolato temporaneamente il programma nucleare iraniano, ma non ne hanno certo scongiurato lo sviluppo. L’Iran ormai possiede il know-how per costruire, se vuole, un’arma atomica – e questa volontà oggi è più forte che mai.

A seguito dell’aggressione israeliana, Teheran potrebbe ritenere che l’unico modo per proteggersi da attacchi futuri sia ottenere il deterrente di livello più alto: l’arma atomica. Israele, con il pretesto di difendersi, non ha fatto altro che radicalizzare ulteriormente l’Iran, spingendolo a blindare ancora di più il suo programma nucleare.

3. Le intenzioni di Israele

Teheran è sempre stata percepita come una minaccia incombente sullo Stato Ebraico, e le narrative adottate dai vari governi hanno amplificato la paura diffusa tra la popolazione israeliana. Disarcionare definitivamente l’Iran rimane l’unica carta in mano a Netanyahu per presentarsi come vittorioso protettore di Israele nonostante il fallimento del 7 ottobre 2023.

Se da una parte l’Iran non lascerà alcun affronto impuntito, quindi, dall’altra è Israele stesso a cercare la guerra totale – consapevole che avrà gli Stati Uniti al suo fianco. Si tratta dell’ultima possibilità di Netanyahu per tornare a dichiarare vittoria e riproporsi come futuro leader di Israele.

Un azzardo senza garanzie di ritorno

Gli Stati Uniti, quindi, potrebbero aver sbagliato i calcoli, trovandosi trascinati in un conflitto che di sicuro non porterebbe loro alcun vantaggio. In tutti e tre i casi sopra descritti, infatti, Trump sarebbe costretto a intervenire direttamente contro l’Iran

  1. Se l’Iran dovesse prendere di mira  Israele o infrastrutture statunitensi in Medio Oriente, Washington sarebbe costretto a intervenire;
  2. Se l’Iran intraprendesse un esplicito (o segreto ma comunque ovvio) percorso verso l’arma atomica, Washington non potrebbe lasciarlo agire indisturbato;
  3. Se Israele spingesse per l’escalation, la pressione su Washington per sostenere il suo alleato sarebbe impossibile da ignorare.

Un diretto intervento americano nella questione sarebbe distruttivo per Trump per due ragioni. Da una parte, Trump si è presentato come l’unico in grado di risolvere i conflitti in corso. Tra i tanti fronti aperti, quello con l’Iran è l’unico con concrete prospettive di risoluzione, perché è il solo in cui la controparte (Teheran) condivide la volontà di evitare lo scontro. Lo stesso non si può dire di altre situazioni, come quella a Gaza e in Ucraina.

Dall’altra, gran parte dell’amministrazione Trump è contraria all’interventismo militare americano, men che meno in Medio Oriente, e non solo per i costi militari annessi. Le ripercussioni di un’escalation sul mercato energetico, infatti, aumenterebbero la pressione economica sui cittadini americani, già gravati dalle politiche nazionali di Trump, con ovvie conseguenze sul consenso interno.

La prospettiva di pace

Lasciare che la violenza impervi sperando che l’Iran si tiri indietro non sembra un rischio che gli Stati Uniti possono permettersi di correre. Al contrario, Trump dovrebbe perseguire una doppia strategia: fare pressione su Israele affinché smetta di intensificare la sua campagna, e offrire all’Iran incentivi per ritirarsi.

Costringere Netanyahu a fermare l’escalation non è difficile, almeno in teoria: basta interrompere il costante flusso di rifornimenti americani a Tel Aviv, continuando a contribuire alla difesa dello Stato Ebraico contro eventuali contrattacchi iraniani. Più difficile sarebbe convincere Teheran delle proprie intenzioni di pace. Un metodo efficace sarebbe offrire una serie di termini ragionevoli per raggiungere un accordo sul nucleare.

Non si tratta di un percorso facile – le parti in causa sono troppo coinvolte e la situazione troppo radicalizzata affinché emerga la soluzione più razionale e ragionevole. Tuttavia, muoversi nella direzione opposta non sembra lasciare alcuno spiraglio per la pace.

Clarice Agostini

(In copertina Majid Asgaripour/WANA, West Asia News Agency, via REUTERS)

Ti potrebbero interessare
CulturaPolitica

Michela Murgia sarà – Elogio alla persona e vituperatio dei costumi

CronacaPersonale

(Im)maturità 2025 – Una scuola imperfetta, ma perfettibile

Politica

Neoliberismo e privatizzazioni – 1992, l’anno che cambiò l’Italia

Cronaca

L’arte in affitto: dal matrimonio di Jeff Bezos ai post degli influencer