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Palla al centro – Intervista a Carlo Calenda

Intervista Calenda

Astensionismo, nuove tecnologie, campo largo e credibilità della politica: di questo e molto altro ha discusso il nostro redattore Matteo Minafra durante l’intervista con Carlo Calenda, senatore italiano e leader del partito politico Azione.


Matteo Minafra: Buon pomeriggio Senatore, La ringrazio per la disponibilità. Vorrei cominciare questa intervista partendo dall’argomento più ovvio: i referendum su lavoro e cittadinanza confermano che l’Italia oggi ha un grande problema di astensionismo, come evidenziato già alle scorse politiche. Quali sono, secondo Lei, le cause di questo fenomeno, e quali possono essere i modi in cui si può riavvicinare l’elettorato alle urne?

Carlo Calenda: Guarda, è una domanda che ci siamo fatti anche noi di Azione. Ed è per questo che, in occasione del nostro ultimo congresso, abbiamo commissionato a SWG (un istituto italiano di ricerche di mercato, sondaggi d’opinione e analisi dei trend sociali, politici ed economici ndr) una ricerca ad hoc sulle cause e i dati dell’astensionismo.

La causa profonda di questa disaffezione è il fatto che si ritiene che la politica non sia più in grado di far accadere nulla. E quindi tutto il resto diventa un esercizio sterile e fine a se stesso, una competizione che non produce risultati.

È come se, in uno stadio, pian piano venissero cancellate le tribune: rimangono solo le curve, cioè quell’elettorato molto schierato che ha una grossa curvatura ideologica (in senso sia positivo che negativo).

Ma tutte le altre fasce di popolazione, quelle che ritenevano che la politica potesse dare una risposta concreta, si sono allontanate. Ed è così che lo stadio si svuota.

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Dati cronologici sull’astensionismo in Italia (Dati: Withub, infografica via Avvenire).

L’ultimo crollo pesante c’è stato dopo le elezioni politiche del 2018 (cioè alle elezioni politiche del 2022 ndr), quando la delusione verso il Movimento 5 Stelle – che era si era presentato come la ‘grande rivoluzione’ della politica, il partito che doveva cambiare tutto – ha portato a un calo di quasi 10 punti percentuali.

Per quanto riguarda il referendum in sé, mi sembra che i quesiti fossero veramente complessi: si è trattato, in realtà, di un referendum ‘sulla Meloni’. E, se vuoi, questo è sintomatico della polarizzazione (e un po’ anche dell’istupidimento) della politica di oggi.

Lo si può vedere nel teatrino social dove Meloni fa la faccetta sorridente e la Schlein replica. Una politica del genere è un gioco che non ha più nulla da dire ai cittadini, e in cui moltissime persone – in particolare al Sud, dove i problemi sono più urgenti – non credono più.

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L’immagine di Meloni che ha scatenato la polemica con Elly Schlein (Screen: Il Foglio).

M. M.: Riguardo al sondaggio che ha citato in precedenza, volevo soffermarmi su un dato che ha ripetuto anche durante il congresso di Azione, secondo cui nel nostro Paese il 52% dei giovani sarebbe a favore della dittatura. Che cosa ci può dire su questo studio, e che conclusioni ne trae?

C. C.: Anzitutto, una piccola precisazione: per ‘giovani’, in relazione a quel preciso dato, si intendono le persone fino ai 34 anni. A loro abbiamo fatto una domanda, secondo me, molto intelligente: non un diretto “volete o non volete la dittatura?”, ma piuttosto: “Sareste d’accordo con la sospensione degli strumenti democratici per un periodo di tempo determinato, per affidare il Paese a un gruppo di persone competenti e cercare di risolvere i problemi?”.

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Immagine del congresso nazionale 2024/2025 di Azione (Grafica: Azione).

Questa risposta fa capire che si va affermando la sensazione che la democrazia non abbia gli strumenti, le capacità o la forza per affrontare veramente le questioni, per entrare nel merito. Questo spossessamento della politica dalla sua funzione di arte di governo ha componenti endogene ed esogene alla politica italiana: in parte deriva dalla storia dell’ultimo trentennio, in cui le decisioni fondamentali sono state prese dalla tecnologia e dal mercato, e pertanto la capacità di manovra della politica è stata più limitata; e in parte, appunto, dalla disaffezione di cui parlavamo prima.

Schlein e Meloni sono felicissime del fatto che si riduca il bacino elettorale ai soli tifosi, perché i tifosi votano per loro.

Il lavoro che noi, come Azione, stiamo cercando di fare è molto complicato: sia perché lo facciamo da un posizionamento centrale che stride con la logica bipolare che, dal 1948 in poi, si è affermata in Italia, sia perché si appella alla razionalità del cittadino, cioè alla sua capacità di discernere chi gli racconta balle.

Vogliamo levare la componente di intrattenimento e di tifo e stimolare il ragionamento del libero cittadino, che può essere d’accordo o in disaccordo, ma che nel complesso cerca una soluzione. Questo è un tentativo molto complicato che Azione porta avanti da quando è stata fondata (nel novembre 2019 ndr). Affascinante, ma molto complicato.

M. M.: Poco fa ha parlato di come la tecnologia e il mercato abbiano limitato l’operato della politica. Proprio sulla tecnologia volevo chiederLe prima un commento su come internet e i social hanno cambiato il modo di fare politica e se, secondo Lei, la politica italiana è ancora indietro nell’approcciarsi a questi nuovi strumenti. Inoltre, Le chiedo qualcosa di più sulla nuova iniziativa che ha lanciato solo poche ore fa.

C. C.: Sì, il podcast. Allora, parto da quest’ultima. Mi è capitato di partecipare a una serie di podcast, realizzati da giovani e da meno giovani, e ho capito che è un formato che aiuta moltissimo a comprendere i problemi in una forma semplice, ma comunque più lunga del normale talk show, dove non si riesce mai a dire una cosa compiuta perché ti vogliono trascinare inevitabilmente nello scontro.

La prima puntata sarà dedicata al rapporto tra disagio giovanile e social. Ospiteremo un influencer, ma anche Matteo Lancini (autore e docente presso il dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca ndr) che è, secondo me, uno dei più bravi autori su queste materie, uno psicologo che ha anche un’associazione che aiuta ragazzi e giovani adulti.

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Carlo Calenda e Alan Cappelli Goetz (Foto: Instagram).

Il problema del settore dei social non è legato ai social in sé, ma alla mancata regolamentazione del settore. Lo stesso Lancini, per esempio, sostiene una cosa interessante: è vero che i social sono problematici per i giovani, ma è anche vero che, molto spesso, sono il modo in cui i giovani entrano in contatto con altri giovani.

E smettere di avere contatti può portare a situazioni altrettanto rischiose. La mia opinione sui social non è affatto negativa. Quello che stiamo facendo noi è un esercizio che, dopotutto, finirà anche su una piattaforma social.

La tecnologia, dicevo, deve essere regolamentata, perché è esposta al rischio di pesantissime influenze esterne, come milioni di bot che influiscono sulla costruzione del consenso, pilotati da potenze esterne. Noi sappiamo precisamente che questo è avvenuto nelle elezioni americane da parte della Cina, dell’Iran e della Russia, per esempio, a favore di Trump nei cinque Stati chiave. Sappiamo che questo fenomeno si è verificato anche in Italia: io l’affrontai già col primo referendum, quello di Renzi (il referendum Costituzionale del 2016 promosso dal governo Renzi ndr), per intenderci.

In quell’occasione, la Russia intervenne pesantemente con i suoi bot per influenzare l’opinione dei cittadini. Per contrastare tutto ciò, per prima cosa bisognerebbe abolire l’anonimato sulla rete, e in secondo luogo serve controllare l’età di accesso.

Si dovrà anche regolamentare l’intelligenza artificiale generativa, perché il rischio è che si replichi quanto successo in Romania, dove un candidato semisconosciuto (Călin Georgescu ndr), grazie ad investimenti giganteschi e all’uso dell’intelligenza artificiale generativa ha vinto le elezioni perché gli è stata costruita attorno una campagna elettorale.

M. M.: Quando parla della necessità di regolamentare sia l’informazione che le nuove tecnologie di intelligenza artificiale, cosa ne pensa di quello che sta provando a fare l’Unione Europea con l’AI Protection Act? Soprattutto, vorrei sapere qualcosa di più sulla proposta che sta portando avanti con Azione per uno ‘scudo democratico’ sull’informazione digitale. Non c’è, secondo Lei, il rischio che, a lungo termine, una misura del genere rischi di essere strumentalizzata a fini di censura politica?

C. C.: Partiamo da un presupposto. Nei Paesi democratici l’anonimato non protegge da rischi democratici, ma deresponsabilizza chi esprima un’idea. Noi abbiamo fatto due proposte: la prima è quella di regolamentazione dei social con un meccanismo di vidimazione da parte di un’agenzia indipendente per quanto riguarda l’età della persona. Questo non varrebbe solo per i social media: penso anche ai siti pornografici, dove oggi un undicenne che ha un accesso ad Internet può accedere serenamente, e non è giusto che la sessualità si formi in quel contesto.

In secondo luogo, vorremmo che le agenzie di intelligence, insieme all’AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ndr), non solo svolgano un’analisi delle influenze indebite, cioè monitorino profili falsi, prodotti dell’intelligenza artificiale generativa e così via, ma lo notifichino al Parlamento.

Logo dell’AGCOM (Logo: AGCOM).

Noi abbiamo bisogno di questo, perché altrimenti le democrazie verranno distrutte dall’interno da meccanismi fuori controllo. E quindi sì, ben vengano anche il Protection Act ed il Digital Service Act (nuove normative dell’Unione Europea ndr), per carità di Dio. Il problema è che, alla fine, le piattaforme non sono responsabili di niente.

Ogni giorno mi segnalano filmati dove chiedo soldi per investire o faccio affermazioni assurde. Anche se pensiamo che questi deepfake non facciano breccia perché noi siamo più sofisticati, la verità è che ingannano un sacco di gente: è imperativo che questo settore venga pesantemente regolamentato.

Ovviamente, ci scontreremo con poteri che sono fortissimi, perché chi ha potere oggi sono le grandi multinazionali che estraggono valore dai dati e dalla generazione di traffico. Se ripulisci il web, beh… questo traffico comincia ad essere nettamente inferiore a quello attuale. E la cosa non piacerebbe a molti.

M. M.: Allo stesso tempo, però, bisognerebbe considerare le opportunità che le nuove tecnologie, se opportunamente regolamentate, possono offrire, dalla digitalizzazione industriale al piano dell’istruzione che anche Lei ha più volte indicato come uno dei settori che necessitano maggiore riforma nel nostro sistema. Come si inseriscono le nuove tecnologie nella riforma dell’istruzione, e che ruolo può giocare questa riforma nel riavvicinare i giovani al voto?

C. C.: È fondamentale. Proprio oggi pomeriggio (mercoledì 11 giugno ndr) pubblicherò la proposta di riforma del sistema del sistema dell’istruzione italiana che ha fatto Azione con un gruppo di lavoro molto nutrito. È un documento piuttosto analitico, quindi non facilissimo, proprio perché il tema è molto complesso.

La democrazia sta in piedi solamente – questo lo considerava già Mill, quindi stiamo parlando ormai di tre secoli fa – solamente se c’è un grado di comprensione della complessità crescente, il che fa sì che tu eserciti il tuo voto veramente in libertà. La nostra Costituzione, in effetti, prevede la libertà come ‘libertà dalla dipendenza’. Una delle dipendenze, oltre a quella economica, è quella dell’ignoranza: la dipendenza dal giudizio altrui quando non sei in grado di formularne uno tuo.

La situazione scolastica italiana è molto discontinua, ma la media è in peggioramento. Possiamo dire di avere due Italie: una al Sud, dove si osserva analfabetismo funzionale in più della metà degli studenti alla fine delle scuole medie, e un’altra al Nord Italia, dove lo sono circa un terzo degli studenti.

Ma purtroppo la statistica è in aumento dappertutto, anzi, soprattutto al Nord, il che dimostra che il sistema sta collassando.

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Alcuni dati italiani sull’istruzione (Fonte: Istat e Ansa via ChatEurope).

Noi immaginiamo un intervento di rinnovamento dedicato all’educazione non tanto ‘civica’, che non vuol dire niente, ma all’educazione istituzionale. Serve, cioè, che le persone capiscano il funzionamento delle istituzioni democratiche, le competenze di una regione, di un comune, di uno Stato nazionale; che si organizzino, per esempio, corsi di dibattito, che si sviluppino le facoltà del cittadino, ma che vi siano anche elementi di supporto.

Per esempio, l’introduzione alla lettura, che è una facoltà che pian piano si sta perdendo. Al giorno d’oggi, un ragazzo su due non ha mai letto un libro.

Sulla scuola, tuttavia, c’è un paradosso interessante. Se tu chiedi a un genitore qual è la cosa più importante che può fare un figlio, ti risponde subito: “studiare”; e tuttavia, della scuola non frega niente a nessuno. Se infatti si osserva il ranking degli interessi dei cittadini, la scuola è stabilmente al penultimo o all’ultimo posto, perché tutto ciò che è di lungo periodo è proprio quello che gli italiani pensano – e non solo gli italiani – che la politica non risolverà mai.

Quindi tanto vale concentrarsi sull’ottenere qualche soldo in più e qualche tassa in meno, e chi se ne frega se poi i nostri figli finiranno per fare i camerieri perché non troveranno nessun’altra occupazione.

M. M.: Nelle ultime settimane Lei ha partecipato a due grandi manifestazioni: la prima sul riarmo europeo, la seconda, qualche giorno fa, sulla situazione in Israele e Palestina. In entrambi i casi, insieme a Lei c’erano esponenti delle altre realtà di centro. Sono stati entrambi eventi molto partecipati, che hanno mostrato una volontà diffusa di ascoltare il dibattito per un grande centro liberale. Qual è, secondo Lei, l’ostacolo alla creazione di questo unico polo per quest’area politica?

C. C.: Mi stai facendo la domanda da un miliardo di dollari! Io ho provato a farlo nella legislatura scorsa con +Europa, ma poi loro hanno deciso di allearsi con il PD. L’ho provato a fare in questa legislatura con Renzi, che poi ha deciso di entrare nel campo largo.

Quindi può essere che io sia un pirla e loro abbiano una visione migliore, però io ritengo che non si possa fare un centro liberale se poi finisci per fare il cespuglio di una coalizione che è fatta da Bonelli, Fratoianni, Schlein e Conte, perché non conterai mai niente.

I partiti di quest’area politica, cioè Italia Viva e +Europa oltre a noi, hanno già deciso di entrare nel campo largo, e lo dicono in modo molto aperto. Noi riteniamo che questo non sia il percorso giusto, e dunque lavoreremo con tutte le iniziative possibili – dalla Fondazione Einaudi a Drin Drin e a Marattin (Luigi Marattin, fondatore del movimento Orizzonti Liberali ndr) – per costruire quest’area e portarla alle elezioni, indipendentemente dai due schieramenti.

Immagine del Movimento Drin Drin (sito ufficiale).

Il problema è che ci vuole tanto coraggio, tanta resistenza. È molto più facile dire: “Mi accordo con la destra o con la sinistra, così sono più garantito e in qualche modo me la cavo”. Noi, invece, vogliamo fare politica sulla base delle nostre convinzioni.

Se il bipolarismo non si rompe si estremizzerà sempre di più, finché a un certo punto arriverà un leader veramente estremo che dirà: “Chiudiamo il Parlamento”. E, per le ragioni che ti ho detto prima, gli elettori italiani finiranno per votarlo.

M. M.: Allo stesso tempo, però, oltre alla difficoltà di canalizzare in un unico partito i voti di persone che in questo momento sono molto divisi, Lei ha il problema di doversi confrontare con un panorama politico in cui la retorica populista funziona benissimo: lo dimostra anche la vittoria di Trump negli Stati Uniti.

C. C.: Io penso che gli Stati Uniti siano malati da moltissimi anni. Mi pare che fosse esattamente 10 anni fa, forse 12, quando Francis Fukuyama scrisse un numero di Foreign Affairs intitolato America in Decay, cioè America in decadenza, in cui spiegava come i meccanismi politici e il conflitto di interessi nato dal fatto che le elezioni dipendono ormai da finanziamenti privati stessero determinando una caduta della democrazia americana.

Questa caduta sta avvenendo. Le cose che dice Trump sono sostanzialmente riconducibili ad un obiettivo: eliminare il contrappeso giudiziario, il contrappeso del Congresso, il contrappeso dei singoli governatori ed assumere su di sé tutti i poteri.

Lui è un dittatore in potenza, non ne fa mistero: gli stanno simpatici Xi Jinping, Erdogan, Putin, non gli piacciono le democrazie, e il solo fatto che una persona così fondamentalmente improponibile come Donald Trump possa essere arrivata alla presidenza americana ti fa capire che le democrazie liberali sono a fine corsa.

Si sta chiudendo una grande fase storica, che si conclude con una forma di implosione delle democrazie liberali.

Il punto è cercare di capire come devono reagire le persone che, invece, pensano che le democrazie liberali vadano ristrutturate, ma che rappresentano, come io ritengo, il massimo grado di sviluppo della libertà umana e le società con il massimo grado di equità potenziale.

trump gennaio 2025
Il ritratto ‘presidenziale’ di Donald Trump (immagine: BBC).

Ci sono molti modi per cominciare a intaccare il populismo. Si potrebbe cominciare, ad esempio, eliminando i conflitti di interesse che oggigiorno sono pervasivi nella politica e nei media, e assumono forme che si traducono in controllo: penso alla sanità privata. Questi conflitti arrivano a determinare il controllo persino di interi Stati esteri, ed io ho fatto un milione di proposte su questo. Io vengo dal business, quindi non ho problemi ad avere relazioni con gli imprenditori.

Ma è chiaro che qui siamo in una dimensione diversa, dove tutti i Presidenti del consiglio in carica ricevono offerte per andare a fare gli advisor di fondi, di Stati, e così via. Tutto questo sta diventando un casino, motivo per cui la gente dice: “Io non mi fido più”. Per questo la rettitudine dei comportamenti individuali è fondamentale.

Bisogna tenere duro e combattere, non c’è altra cosa da fare, e trasformarsi per cercare il consenso politico non è un’alternativa. Io non condivido affatto quello che, in politica, hanno fatto più o meno tutti: fare mirabolanti promesse quando sono all’opposizione, e poi, quando arrivano al governo, fingere di non averle mai fatte.

È la cosa che fa la Meloni tutti i giorni; ma è proprio questo che sta alla base della sfiducia nella politica. Il lavoro che stiamo cercando di fare noi di Azione è non promettere mai niente senza spiegare dove si trovano i soldi e come si fa. Lo standard che io do ai ragazzi che lavorano da noi è questo: “Provvedimenti come se fossimo al governo”.

M. M.: Lei sarebbe disposto ad allearsi con chi non condivide al 100% i vostri stessi valori pur di arrivare in una posizione di potere, e poter fare quello per cui è stato eletto?

C. C.: Assolutamente sì: è del tutto evidente che una perfetta corrispondenza etica non si troverà mai. Tuttavia, una cosa è allearsi per fare un governo su una base di principi di intervento condivisi, un altro discorso è fare un partito unico in cui devi condividere tutti i valori, mentre un’altra cosa ancora è presentarti agli elettori insieme, nella stessa lista.

Se, ad esempio, io facessi un’alleanza con Forza Italia, ma con due liste separate, io manterrei la nostra linea di condotta, e anche la qualità della nostra classe dirigente. In casi del genere un’alleanza è necessario farla, sì, perché la pensiamo uguale su tanti argomenti – ma senza perdersi, perché altrimenti diventi un altro politicante, e non cambia assolutamente niente.

M. M.: Volevo concludere dando uno sguardo allo scenario internazionale: Lei ha più volte detto che Giorgia Meloni non ha una linea chiara di politica estera. Ma in un contesto internazionale in cui i populismi la fanno da padrone, Trump rende instabili Paesi sia dal punto di vista politico che economico, istituzioni come la Corte Penale Internazionale e l’ONU perdono credibilità ogni volta che si esprimono perché i loro giudizi non vengono rispettati, quale bussola seguirebbe se fosse Premier oggi, considerando sì i suoi valori etici, ma allo stesso tempo i limiti strategici del nostro Paese?

C. C.: La prima scelta che va fatta senza alcuna riluttanza è far parte di quella cabina di regia che oggi sono i ‘Paesi volenterosi’ nella costruzione del sostegno all’Ucraina per arrivare alla costituzione di un esercito non dico europeo, perché non si potrà mai fare in 27, ma di una NATO europea fatta dai Paesi che sceglieranno di starvi dentro.

La seconda scelta sta nella decisione di collaborare con le istituzioni europee, non cercando di tenere più potere possibile per l’Italia, ma per far evolvere l’Europa verso un soggetto federale.

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La coalizione dei ‘Paesi volenterosi’ (Immagine: Justin Tallis/Getty Images via Wired).

La terza scelta sta nel rapporto con gli Stati Uniti. Io di Trump penso quello che ho detto, e tuttavia il rapporto tra idealismo e realismo in politica estera è fondamentale.

Il realismo ti impone di avere rapporti con gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, però, questi rapporti devono essere intrattenuti con un esercizio necessario di forza dal punto di vista negoziale, perché Trump rispetta solo quello. Trump non ci sarà per sempre, ma devi anche sapere che, in questo momento, rapportarsi a Trump non significa rapportarsi a un amico, ma a qualcuno che vuole distruggere l’Europa.

M. M.: Prima di chiudere, vorrei sapere cosa pensa del tentativo di Giorgia Meloni di agire da ponte fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea: quali risultati può ottenere anche in ottica di una rilevanza politica dell’Italia?

C. C.: Ma nessuno! Non esiste che Francia e Germania si facciano gestire le proprie relazioni dall’Italia solo perché Trump dà le pacche sulla spalla della Meloni.

Queste sono tutte discussioni di un totale provincialismo, non è rilevante. Trump può darle un bacio sulla fronte, salutarla in modo simpatico, giocarci insieme perché la Meloni viene dalla destra come lui – anzi, sicuramente Trump è più a destra della Meloni. Ma non è questo il lavoro serio che va fatto.

Il lavoro si fa all’interno della coalizione dei Volenterosi, e questo vale anche se ti sta antipatico Macron. L’esempio che faccio io è: cosa farei se avessi la Le Pen come Presidente della Francia? Ci lavorerei, perché l’interesse nazionale supera l’interesse personale, e alla fine Giorgia Meloni l’ha dovuto capire, perché la situazione con la Francia era arrivata talmente tanto ai minimi termini che capiva che l’Italia stava pagando uno scotto.

Il problema della Meloni è questo, che lei vede montare in Europa una marea nera, che è la sua casa politica. E ha una grande riluttanza a lasciarla a Salvini, perché quelli sono ‘roba sua’: lei proviene da quella storia.

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Allineamento politico dei Paesi europei (Infografica: Eunews-Withub).

È come se – è un esempio che faccio spesso – mentre D’Alema era al potere, per una qualche ragione, i partiti comunisti in tutta Europa avessero preso una marea di voti. D’Alema, alla fine, sarebbe stato risucchiato in quella ideologia, perché era parte della sua epica personale. Questo è il problema della Meloni – oltre ad avere un governo di pippe sovrumane (sic ndr) che non riescono a realizzare assolutamente nulla.

E questa è un’altra questione non indifferente: la politica non si può ridurre alla tua posizione di politica internazionale. La politica si manifesta in cosa fai sull’intelligenza artificiale, quale programma hai sul lavoro, come fai investire sulle imprese: basti guardare il nuovo piano spagnolo sulle piccole e medie imprese.

Non puoi non fare niente pensando di cavartela solo perché gli altri hanno idee balzane e perché riduci tutto ad una specie di concorso tra te e la Schlein. Non può funzionare così, perché governare un Paese è una cosa molto diversa.

Matteo Minafra


Palla al centro è l’intervista di Matteo Minafra a Carlo Calenda. Clicca qui per visualizzare gli articoli dell’autore!

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