
Lo scorso 29 aprile, presso l’Oratorio di San Filippo Neri di Bologna, Laura Mariani ha presentato il libro “L’Ottocento delle attrici” (Viella, 2024). Prima dell’inizio dell’evento, Gaia Sacchetti ha avuto l’occasione di farle alcune domande sul libro appena pubblicato.
Se è vero che ogni secolo ha le sue peculiarità, fondamentali nell’Ottocento sono stati il teatro e le attrici. Laura Mariani, nel suo libro, tesse le vite di quattro grandi personaggi del XIX secolo: Carlotta Marchionni, Adelaide Ristori, Giacinta Pezzana ed Eleonora Duse. Queste protagoniste operarono in un tessuto culturale molto ricco, composto da donne che hanno saputo vivere e farsi strada nel mondo teatrale dominato da figure maschili.
Laura Mariani insegna Storia dell’attore all’Università di Bologna e da anni si dedica alla ricerca teatrale, con particolare attenzione alla presenza femminile. Nei suoi studi si intrecciano impegno civile e rigore accademico, riconosciuti nel 2024 con il Premio Ivo Chiesa – Museo Biblioteca dell’Attore.

L’incontro, tenuto il 29 aprile 2025 all’Oratorio San Filippo Neri, è stato introdotto da Elena Di Gioia e ha visto la studiosa dialogare con tre attrici: Francesca Mazza, Ermanna Montanari ed Ermelinda Nasuto.
Gaia Sacchetti: Nel libro L’Ottocento delle attrici si propone di realizzare un censimento delle biografie, per misurare la presenza femminile rispetto a quella maschile e individuare, nelle varie voci, i tratti salienti che permettono di intrecciare un filo rosso nella storia del teatro e delle attrici, mettendone in luce somiglianze e differenze. Si sottolinea anche la necessità di superare un linguaggio uniforme e appiattito. Se il teatro è comunicazione, quanto è importante saper parlare del teatro, dei suoi attori e soprattutto delle sue attrici?
Laura Mariani: Il teatro italiano, con la commedia dell’arte, nella seconda metà del Cinquecento, si differenzia da quello inglese o dai teatri orientali perché cominciano a recitare le donne. Non sono più gli uomini a interpretare le parti femminili, ma le stesse donne, che diventano così centrali nel teatro italiano.
Io, nel mio libro, però, non volevo scrivere una storia delle donne nel teatro, perché sarebbe impossibile: ogni secolo richiederebbe un volume, e non basterebbe. Per questo mi sono concentrata sull’Ottocento. Perché? Perché in questo secolo, soprattutto le attrici, ma anche gli attori in generale, assumono un ruolo centrale.
Lei è partita da un’osservazione che trovo giusto riprendere. A un certo punto, nel libro, mi occupo di quattro grandissime attrici, che hanno vissuto esperienze eccezionali e condizioni particolari, sia economiche che di fama. Sono figure fuori dal comune, ma per comprenderle davvero, bisogna partire dalla realtà a cui appartenevano, considerando anche gli attori uomini e, specialmente, le altre attrici: quelle che non sono diventate famose, ma che hanno fatto parte di quel mondo.
È necessario ricostruire il terreno culturale in cui si muovevano queste quattro grandissime donne che sono state molto studiate – anche questo ha influito sulla mia scelta –, perché su di loro esistono archivi, documenti, fonti. Emergono, insomma, anche per ragioni oggettive.
Invece, è molto importante proseguire nel lavoro di scoperta e studio di altre attrici, non solo le quattro grandi che io ho messo al centro del libro: ce ne sono molte altre significative.
Secondo me – questa è la mia convinzione – per capire davvero il teatro dell’Ottocento (e, in parte, anche quello del Novecento, sebbene molto diverso) è importante entrare nelle storie di vita: questa è la chiave che io prediligo. Anche quando si studiano attrici meno note, è importante considerare il contesto in cui sono vissute. Al di là delle figure più famose, che restano centrali nella storia delle donne e nella storia culturale, bisogna tenere conto dell’intero tessuto sociale e artistico.
Per esempio, abbiamo a disposizione dei fantastici dizionari biografici, come quello di Luigi Rasi del primo Novecento. Se si svolgesse un lavoro con pazienza certosina, studiando attrice per attrice, emergerebbero molti nomi, oltre alle quattro grandi.
Esiste un tessuto enorme, per cui si è parlato di ‘microsocietà’, di ‘popolo degli attori’: una condizione particolare che vive chi fa teatro, molto accentuata nell’Ottocento, in cui attori e attrici erano nomadi, spesso provenienti da famiglie d’arte. Non esistevano scuole di teatro: si imparava in famiglia o entrando in compagnia. C’era tutta una struttura molto importante, nella quale a capo c’era chi era più capace, chi era più bravo, uomo o donna che fosse.
G.S.: Scrive che “il palco è anche salotto, la platea è anche piazza”, a sottolineare la partecipazione del pubblico a teatro, luogo in cui, appunto, “si va a guardare per essere guardati”. I giochi di sguardi a teatro sono stati molto rappresentati anche nel cinema, e nell’immaginario comune il pubblico era spesso visto come disinteressato all’arte e più legato alla mondanità – uno stereotipo specialmente femminile. Nel libro si racconta di attrici che iniziano a parlare alle donne: quale vissuto comune condividevano, e su quali esperienze facevano leva per comunicare?
Laura Mariani: Sì, allora, il pubblico femminile comincia a essere consistente numericamente e visibile soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento. Già prima, però, le donne andavano a teatro.
Se pensiamo al teatro all’italiana – strutturato con la platea e i palchi – all’inizio la platea non aveva poltrone: si stava in piedi, ed era frequentata in particolare da uomini, militari, studenti, o da donne che non si curavano della propria fama, talvolta persino travestite.
I palchi, invece, erano distribuiti secondo l’importanza delle famiglie. Il sistema degli ordini del teatro all’italiana dei palchi – centrali, laterali – rifletteva uno schema della società. Erano spesso di proprietà delle famiglie più ricche e importanti, e molti appartenevano a donne nobili che ne erano padrone.
Questi spazi, quando non venivano occupati, si chiudevano a chiave: erano come stanze private, veri e propri ambienti domestici. Lì si riceveva, si conversava, anche le giovani avevano più libertà di parlare con uomini e giovanotti. Si vede l’abilità della donna padrona di casa, che gestisce il salotto e anche il palco. Il teatro era un luogo importante di socialità, non solo un luogo per assistere allo spettacolo, ma anche per essere guardati e per essere guardate.
Con il tempo, questa struttura cambia. Nella seconda metà dell’Ottocento avvengono trasformazioni profonde: l’unificazione nazionale, il tema della cittadinanza (che le donne conquisteranno molto più tardi, dopo anni di lotte), i cambiamenti economici, sociali e industriali. Le donne, che lavoravano anche prima, accedono ora a nuove professioni: nascono figure come l’impiegata, la maestra, la giornalista, la scrittrice.
Diventano anche lettrici e spettatrici a teatro. Cresce il numero di operaie, soprattutto nelle fabbriche tessili e dell’abbigliamento. Le donne diventano più visibili e, proprio per questo, nella seconda metà dell’Ottocento si pone la questione del lavoro femminile: sì, le donne lavorano, ma andavano pagate meno, perché considerate ‘inferiori’ agli uomini.
Dunque, le donne entrano nella sfera pubblica pur continuando a gestire quella privata, come mogli, madri, figlie. Ma affrontano il problema di occupare la scena pubblica. In questo contesto, le attrici assumono un ruolo importante, perché da sempre sono figure pubbliche.
Nella seconda metà dell’Ottocento, per esempio, le prime femministe devono imparare a comportarsi in pubblico. Non si tratta più solo di nobildonne, ma anche di donne comuni: maestre, impiegate, commesse, giornaliste. Quindi emerge una questione fondamentale: come ci si comporta in pubblico? È il problema della fuoriuscita dalla sfera privata e dell’adattamento dei propri comportamenti in armonia alla nuova visibilità sociale.
G.S.: Nel libro si parla della competitività e della sostituzione di attrici vecchie…
L.M.: Certo che c’è la competitività. È un aspetto curioso, perché spesso si manifesta tra generazioni diverse. Le attrici più giovani si affermano quando quelle della generazione precedente invecchiano e devono cedere il ruolo di primadonna. Ma non è mai un passaggio facile. Per esempio, si racconta che, appena Carlotta Marchionni – la prima attrice di cui mi occupo nella seconda parte del libro – lascia le scene, il suo posto venga preso, a turno, da due attrici: Amalia Bettini e Adelaide Ristori. E si dice addirittura che Amalia nascondesse i copioni alla Ristori.
Esiste anche la solidarietà: quando arriva il momento di fare lo spettacolo, subentra anche un senso di appartenenza a quel mondo, in quanto si condividono le abitudini, le leggi, i comportamenti. C’è l’urgenza che lo spettacolo funzioni, e questo crea una forma di unità e collaborazione. Tuttavia, esistono molti aneddoti legati a queste dinamiche.
Sarah Bernhardt, per esempio, ci racconta di attori gelosi delle attrici. Nell’Ottocento la primadonna domina: si va a teatro anche per ammirare la sua presenza scenica, la bellezza, l’eleganza. Adelaide Ristori, invece, nel momento in cui doveva scegliere una giovane attrice per la compagnia, era molto attenta, perché era gelosa del marito.
Sono aspetti del quotidiano, del lavoro teatrale, che emergono spesso. Non si tratta di insistere sul pettegolezzo, ma di capire le relazioni interne, le dinamiche concrete, gli elementi della vita materiale.
In sostanza, competitività e solidarietà convivono. C’è sempre questo doppio atteggiamento.
G.S.: Sono aspetti molto naturali in quella microsocietà di cui parla anche nel libro.
L.M.: Sì, certo, perché c’è il fatto che stanno tutti sulla stessa barca. Eppure, nello stesso tempo, insomma, non è facile cedere il posto ad un’attrice più giovane.
G.S.: Oggi, nel dibattito femminista, il tema della solidarietà e della sorellanza tra donne è centrale: quanto conta, nel teatro, la capacità di sostenersi a vicenda?
L.M.: Dunque, io, in ogni terreno – e quindi anche nel femminismo – sono un po’ critica verso le ideologie. Nel momento in cui si afferma che i rapporti tra donne possono essere segnati da grande solidarietà – ed è vero, ed è anche molto importante – si parla di sorellanza, nel senso della condivisione di esperienze legate al corpo e al vissuto. Però nello stesso tempo esiste anche la competizione.
Penso sia valida, in questo senso, la lezione molto pratica di Eleonora Duse: rispetto al femminismo, lei affermava di voler essere considerata come persona. Lottava per ottenere gli stessi diritti e opportunità, mettendo al primo posto il lavoro – e quindi l’indipendenza economica – e, poi, l’affermazione di sé come soggetto e come in carriera. Diceva di non voler essere trattata con paternalismo, ma valutata per quello che è, come persona, al di là del fatto di essere donna o uomo.
Credo sia fondamentale affrontare i problemi delle donne, perché ancora oggi esistono ostacoli strutturali, come il cosiddetto ‘tetto di cristallo’ che impedisce l’accesso a ruoli di vertice; le disparità salariali sono una realtà. La direzione dei teatri – ma anche nell’università – è ancora in gran parte affidata agli uomini. Nelle posizioni più alte sono prevalenti, mentre le donne sono più presenti nei livelli intermedi o subordinati.
Sono questioni concrete, per cui le donne, a mio avviso, devono continuare a combattere.
Le attrici, in particolare, dovrebbero essere solidali tra loro, anche perché oggi il teatro vive tempi difficili, non è più al centro della vita culturale come nell’Ottocento.
Allo stesso tempo, però, sono convinta che non si debba ideologizzare. Bisogna partire dalle relazioni, dalle persone, dai fatti materiali, dalle condizioni reali. Questo è lo sforzo che dobbiamo fare: costruire solidarietà, sì, ma radicata nella realtà, anche perché, oggi più che mai, il teatro ha bisogno di lottare per sopravvivere e per affermarsi.
G.S.: Importanti sono le donne comiche, che non dimenticano il ridicolo perché per anni sono state ridicolizzate. Nell’arte, le donne sono state a lungo oggetto passivo dello sguardo maschile, osservate, descritte e spesso ridicolizzate quando non aderivano a certe regole. Oggi, che spazio c’è per una comicità femminile capace di ribaltare questi stereotipi?
L.M.: I passi fatti nel campo della comicità, secondo me, sono stati enormi proprio nel Novecento.
Tra le attrici che ho studiato – che non recitavano solo ruoli drammatici, ma al massimo commedie goldoniane – non troviamo vere e proprie comiche. Spesso i ruoli comici erano affidati alle caratteriste, attrici con una specificità. Si riteneva che la comicità non si addicesse alle donne, perché?
Perché il comico richiede libertà di linguaggio e di comportamento, un mondo che tradizionalmente veniva considerato inadatto al femminile. Alle donne era richiesto di essere tutelate, protette e di esprimere solo sentimenti romantici. Esisteva, insomma, una specie di tabù. Eppure, le comiche c’erano, ma recitavano per lo più nelle farse.
Nel Novecento, a partire da Tina Pica, si sviluppa una comicità diversa. Andrebbe studiato meglio questo passaggio ma, secondo me, la comicità femminile – ancora oggi – è diversa da quella maschile. La grande comicità di base tragica, ancora nel primo Novecento, rimane tutta maschile. Il comico, in questi casi, non è semplicemente farsa: si arriva alla risata passando attraverso la tragedia – Totò è questo. Si ride perché sotto c’è qualcosa di doloroso.
Tuttavia, oggi le comiche sono bravissime e molto numerose: penso a Teresa Mannino, Anna Marchesini, Lella Costa e soprattutto alla grandissima Franca Valeri, una vera eccezione, una maestra per tutte.
In generale, noto una differenza di tono: nella comicità femminile c’è meno cattiveria, più autoironia, una tendenza a partire da se stesse per far ridere.
Gaia Sacchetti
(In copertina, foto di Laura Mariani da Gagarin Magazine)
L’intervista a Laura Mariani è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri, Mismaonda e ScriptaBO. Un ringraziamento particolare ad Alice Rosellino. Leggi tutte le interviste di Giovani Reporter al LabOratorio di San Filippo Neri.