
“Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” (TerraRossa, 2024) è il romanzo d’esordio di Michele Ruol, candidato al Premio Strega 2025. Attraverso una scrittura simbolica, carica di silenzi e oggetti testimoni del tempo, l’autore mette al centro due genitori, Madre e Padre, alle prese con il dolore della perdita dei figli, Maggiore e Minore.
Esordio suggestivo
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia segna l’esordio narrativo di Michele Ruol, medico anestesista di professione, con alle spalle già degli scritti teatrali e qualche racconto. Un debutto che sorprende per intensità, capace di sondare l’animo del lettore e renderlo vulnerabile.
Inserito nella collana Sperimentali, rivolta a “quegli autori che non hanno rinunciato a una scrittura originale […], che non si preoccupano di compiacere il lettore medio ma preferiscono sfidarlo”, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia mette alla prova la sensibilità del lettore con una narrazione lunga diciotto anni che restituisce, attraverso l’intreccio dei piani temporali, la complessità del reale.

A sostenere questa struttura è la prosa frammentaria e densa di emozioni, ma anche uno stile non convenzionale, caratterizzato da un lessico evocativo, che accompagna chi legge in un percorso doloroso dove lo scorrere della vita è lento e il destino spietato.
Ruol stila un inventario di novantanove oggetti, la sola traccia attraverso la quale il lettore può destreggiarsi nell’intimità dei personaggi. I luoghi in cui vengono collocati sono simbolici e definiscono l’architettura del romanzo: mentre la prima parte è ambientata in una casa ormai abbandonata, spazio di memoria e di perdita, la seconda ha come scenario un’automobile, mezzo di fuga da un passato di sofferenza.
Un romanzo destinato a chi ha il coraggio di calarsi in una storia che, pur dichiaratamente frutto di fantasia, riflette le ferite dell’esperienza umana. Un sintomo di ciò si rintraccia nella scelta di attribuire ai personaggi appellativi emblematici piuttosto che nomi di battesimo: Madre e Padre, i protagonisti, Maggiore e Minore, i figli.
Non a caso, la premessa dell’autore è chiara:
Per quanto ci sforziamo di inventare, tutto è già successo, e tutto succederà in modo imprevedibile: possiamo solo immaginare nuovi modi di raccontare la realtà.
La foresta brucia, e con lei la vita
Quando pensava alla sua vita immaginava la foresta distrutta dal fuoco nella stessa notte dell’incidente […]. Un bosco identico a quello che c’era prima non sarebbe mai più cresciuto.
(p. 116)
Otto anni dopo la perdita dei figli, Madre rievoca la notte in cui un incendio devasta la collina: è la stessa in cui Maggiore e Minore perdono la vita in un incidente d’auto. Le fiamme consumano gli alberi e diventano la metafora per l’esistenza di Madre e Padre, ridotta in cenere. La coppia si ritrova senza appigli né strumenti per affrontare un evento che segna in modo irreversibile la frattura con la vita a loro familiare.
Già dalla quarta di copertina – dove si legge “nella storia di Madre e Padre ci sono degli avvenimenti che determinano un prima e un dopo” – emerge con chiarezza il ruolo centrale del lutto come evento spartiacque attorno al quale ruota l’intera narrazione.
La vicenda si muove tra passato e presente e l’ampiezza temporale autorizza un secondo piano di lettura: a essere esplorati non sono soltanto l’incapacità di affrancarsi dal dolore e lo smarrimento che ne deriva, ma anche la relazione – caratterizzata dalla mancanza di dialogo – di Madre e Padre, narrata senza filtri, alle prese con due figli adolescenti, rimasti vittime della trasgressione tipica di quell’età.
Ne deriva una narrazione con molteplici sfumature, fatta di silenzi e incomprensioni ma anche di gesti carichi di significato, emblema di un senso di famigliarità: proprio nei legami imperfetti il romanzo trova la sua verità più profonda.
Frammenti di memoria
In un istante la vita cambia senso e direzione, e lo spazio viene occupato dal silenzio e dal vuoto: è quello che succede a Madre e Padre, immobilizzati dal dolore dopo la morte dei figli. Tutto in Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia ruota attorno alla parola ‘dolore’, e lo scopo è indagare se esista una via per sopravvivergli:
Ecco come funziona il dolore, aveva pensato. Macchia quello che sfiori; rimane anche quando non ci sei. Ora ne vedeva le tracce.
(p. 166)
In un romanzo in cui regna il simbolismo, tale indagine attraversa luoghi e oggetti. Michele Ruol mette in scena Madre e Padre come se fossero due fantasmi, disorientati tra le stanze di una casa colma di elementi tangibili, custodi delle tracce di un passato perduto: la cornice in argento che ritrae i due fratelli, la borraccia in camera di Minore a ricordare un viaggio di famiglia, il rasoio elettrico a testine rotanti a significare un momento di intimità per Padre e Maggiore e così via.
Correlativo oggettivo del ricordo, gli oggetti sono parola muta: diventano appiglio e insieme tormento, rifugio e insieme prigione.
Tentativo dei genitori per sfuggire da tutto questo è assentarsi non solo l’uno dall’altra ma persino da sé stessi. Se da una parte c’è Madre che non ha più modo di esercitare il ruolo in cui è confinata e per questo si sente svuotata, dall’altra parte Padre è emotivamente immaturo e, come da abitudine, cerca nel lavoro un antidoto.
Entrambi sono in bilico tra la ricerca di un senso e la frustrazione di non trovarlo, pervasi da un dolore che esce fuori con tempistiche diverse, accomunati dalla difficoltà di verbalizzare richieste d’aiuto: tra i due si crea un abisso difficile da colmare.
Insieme al dolore, l’altro pilastro su cui poggia il romanzo è il silenzio che si fa presenza concreta – ce ne rendiamo conto, ad esempio, dagli ampi spazi bianchi nelle pagine – e isola i protagonisti ognuno nella propria sofferenza.

La copertina di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, di Michele Ruol (TerraRossa, 2024).
Il percorso intrapreso, lento e discontinuo, consiste nell’abbattere questa barriera per ritrovarsi attraverso le parole, e ancor di più i gesti.
Tempo spietato
L’orologio Swatch Chrono, la clessidra, i fogli di giornale accartocciati: sono solo alcuni degli oggetti che esplicitano la centralità del tempo nel romanzo. Per Madre e Padre il tempo è un acerrimo nemico e, se solo potessero, riavvolgerebbero il nastro per rivivere in un loop infinito gli anni condivisi con i figli, ma non resta loro che fare i conti con ciò che hanno perso.
Per quanto siamo consapevoli che vivere implichi anche morire, nulla ci prepara davvero alla perdita di una persona amata. E, quando a morire è un figlio, l’ordine naturale sembra incrinarsi in modo irreversibile. Proprio in questa lacerazione si muove il filo che percorre tutto il romanzo: due genitori impreparati e incapaci di proiettarsi in un futuro prossimo.
Spettatori passivi della loro stessa vita, privi di qualunque possibilità di governare gli eventi, si lasciano travolgere da essi. Madre e Padre restano ancorati in una dimensione passata, e nel presente si limitano a sopravvivere:
Vivere non è una questione di forza, ma di inerzia.
(p. 180)
La quiete è possibile?
Con la lettura di questo romanzo, una domanda sorge spontanea: esiste una chiave per dare una nuova forma al dolore della perdita?
Con ogni probabilità, la risposta sta nel trovare la chiave nel tempo; quel che tempo che, se da una parte è un nemico spietato, dall’altra si rivela un alleato clemente: solo attraverso il suo lento fluire possiamo reimparare a declinarci al futuro.
In questo, la natura è maestra: in senso ciclico, là dove il fuoco lascia terra bruciata, qualche forma di vita trova il modo di rinascere. Le forze della natura si mettono in moto per germogliare insieme e proprio da questo movimento si può trarre una lezione: con lo scorrere del tempo e con la condivisione del dolore, anche la ferita più profonda può trovare spazio per rigenerarsi.
Forse non sarà guarigione, ma almeno possibile quiete:
C’è chi dice che il tempo cura ogni cosa.
Madre non era per niente d’accordo.
[…]
Tutto quello che fa il tempo è concedere di assistere a nuove fioriture a chi ha la pazienza di aspettare.
(p. 122)
Domenica Laurenzano
Questa recensione di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, di Michele Ruol, fa parte della rassegna Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2025.