
“Il mio ’69” di David Trueba (Voland, 2025), in tre scritti, racconta la formazione affettiva e professionale dell’autore. Oltre a questo, ripercorre le principali vicende storiche e culturali del passaggio tra gli anni ’60 e gli anni ’70, e si interroga sulla società attuale, caratterizzata da una sempre più marcata (e pericolosa) pulsione all’individualismo.
“La nostra unica pretesa era fallire, perché il fallimento in un mondo di persone tristi e pacate era un segnale di allegria e insubordinazione”. Con queste parole David Trueba, nel suo nuovo libro Il mio ’69, racconta perfettamente l’epoca in cui è nato.
Il libro, edito Voland, oltre a racchiudere lo scritto che dà il titolo al volume, contiene altri due testi dell’autore già usciti per Editorial Anagrama: Guadagnarsi da vivere (2020) e La tirannia senza tiranni (2018).
Tra narrativa e saggismo: l’eclettismo di David Trueba
Il viaggio di Il mio ’69 parte da un passato speciale – ma mai per questo eccessivamente idealizzato – per arrivare al presente. Nel farlo, lo scrittore coinvolge chi legge in una prosa narrativa biografica (in Il mio ’69) che poi sfocia nella saggistica (in La tirannia senza tiranni).
La tendenza a quest’ultima dimensione, comunque, si nota anche nel primo testo. Trueba alterna i racconti della sua famiglia a quelli della Storia, a testimonianza di come le due prospettive si intreccino indissolubilmente.
Oltre agli eventi che segnarono un’epoca, ecco dunque minuziose disquisizioni della musica, del cinema e della letteratura che lo hanno reso l’uomo e l’artista che è diventato.

Tra film e letture – ma anche una serie di incontri propizi – non è un caso che Davide Trueba sia diventato, oltre che a un rilevante scrittore (vincitore del Premio Nacional de la Critica nel 2008), sceneggiatore, regista di successo e giornalista di spicco. In quest’ultimo ambito, in particolare, si è distinto come columnista (ovvero “editorialista”) de El País, con articoli su svariate tematiche d’attualità.
Il mio ’69: “una storia impossibile da raccontare”
Raccontare una storia dal punto di vista di un feto “è impossibile”. Comincia così Il mio ’69 di David Trueba, salvo poi smentirsi nei capitoli successivi. La sua opera, infatti, riesce perfettamente nell’intento di raccontare con una simile – originalissima – prospettiva i nove mesi che precedono la nascita dell’autore. È così che le vicende storico-culturali del pianeta e quelle della sua famiglia si intrecciano alla perfezione, grazie a solidi nessi tematici.
Estro e spregiudicatezza non mancano, e sono molti i passi in cui l’autore interviene direttamente, prendendo posizione. Il punto di vista, infatti, è un evidente filtro alle vicende narrate – storiche o biografiche che siano – e ciò conferisce anche un carattere di uniformità al testo. Anche per questo viene scelto uno strumento (molto letterario) come il discorso diretto per la maggior parte dei dialoghi.
L’autore, come anticipato in alcune interviste, riesce nell’intento di tradire alcuni confini che gli avevano impedito, fino a quel momento, di attingere dal serbatoio delle memorie familiari: è così che il lettore ha a disposizione una mappa per orientarsi nella sua poetica.

David è l’ottavo (e più piccolo) dei suoi fratelli. Suo padre – un ex combattente franchista – ha 16 anni più di sua madre, figlia (molto fedele ai genitori) di proprietari di un negozio di alimentari. La differenza tra David e i suoi genitori sta proprio qui: nel non avere fin dalla nascita un percorso predefinito.
Se c’è qualcosa che è cambiato tra il dopoguerra e l’epoca in cui sono nato io, è proprio questo: l’essere padroni del proprio destino.
David Trueba, Il mio ’69, p. 17.
Eppure, nonostante questo, non sottovaluta il peso delle scelte dei genitori. Il trasferimento nella zona di Cuatro Caminos – dove David è cresciuto e ha avuto le esperienze più importanti della sua vita – è infatti una di queste. “Siamo tutti frutto di migliaia di fattori, molti dei quali già presenti alla nostra nascita” (p. 22): ecco perché l’autore parla di un periodo non vissuto ma comunque così importante per la sua vita.
Senza dimenticare, ovviamente, di aver “combattuto con le unghie e con i denti per essere indipendente” (p. 99), andando oltre ogni recinto identitario costrittivo.
Superare le convinzioni dei padri
I genitori di David sono estremamente diversi: il padre, fantasioso e idealista, è l’opposto della madre, razionale e rigorosa (sebbene si lasci coinvolgere dalle brutte notizie in televisione riguardanti i familiari dei vip). Entrambe queste parti, tuttavia, convivono “incoerentemente” nell’autore, come lui stesso spiega.
Nel periodo raccontato in Il mio ’69 Francisco Franco vive il suo declino, che precede la transición. Il conservatore – visto il suo passato – padre di David sente la sua autorità venire meno, mentre cresce quella del rampante Juanjo, il fratello maggiore che sta facendo carriera come medico. Lo stesso che a tavola demolisce la retorica benpensante del padre, che al contrario imputa ai moti giovanili un carattere di devianza morale.
Anche l’inquieto Franco, suo punto di riferimento, lo pensa: i giovani, dimentichi della spiritualità, si stanno lasciando andare ai piaceri carnali. Lui e il padre di David ignorano però che lo smantellamento delle convinzioni dei genitori è parte integrante dei cambiamenti storici e familiari in quell’epoca.
L’emancipazione dallo status quo imposto dai padri, dunque, diventa quasi doverosa conseguenza storica, più che individuale pulsione. David, avendo visto già tre volte Bella di giorno dell’irriverente Buñuel, sfugge al padre che vorrebbe negargli tale visione.
E questo perché, più in generale, “a quell’epoca si cresceva liberi” (p. 131).

Un viaggio culturale tra progresso…
La cultura è una delle fonti di maggiore influenza sull’esistenza di Trueba. I libri, tema di diverse pagine di Il mio ’69, sono entrati in casa dell’autore “come una pioggia sottile” e nel farlo sono diventati testimonianza delle passioni di ciascuno dei fratelli maggiori di David. La letteratura, inoltre, in quegli anni racconta del disgelo del clima franchista, viste le uscite di molti scrittori esiliati o di volumi a tema guerra civile.
Ma lo stesso vale anche per il cinema, che tra trame più crepuscolari e malcontento generazionale diventa anche, sempre di più, regno di trasgressione e voyerismo: i primi corpi nudi, dopo anni di duro confessionalismo fanno capolino sul grande schermo. Il cinema, forse anche per questo, è regno dell’indipendenza, per la prima volta esperita da David proprio frequentando una sala cinematografica di quartiere.
La musica è l’altro medium artistico che esprime l’esplosiva trasgressione giovanile. Se è vero che i Beatles si sciolgono proprio nell’anno in cui nasce lo scrittore, è anche vero che nello stesso periodo i Rolling Stones ed Elvis Presley stanno accompagnando la stagione dei giovani liberi e ribelli.
Inoltre, negli anni degli hippies e in una società sempre più votata all’uguaglianza, persino il sesso diventa simbolo di democratizzazione generale: la posizione “69” (omonima dell’anno di nascita dell’autore) è testimone di come l’uomo e la donna siano paritariamente meritevoli di piacere, senza che uno debba sottomettere necessariamente l’altro.



… e inquietudini
Il 1969 è anche l’anno in cui l’uomo raggiunge la Luna – “si aveva la sensazione che stesse nascendo un nuovo mondo” –. Eppure, era anche l’epoca di un “maleficio“, politico innanzitutto, visti gli episodi di radicalizzazione (qui in Italia ne è esempio il caso di Piazza Fontana: sul tema puoi guardare la presentazione del romanzo C’era la luna di Serena Dandini), le guerre nel mondo e il numero crescente di delitti efferati (spesso strumentalmente associati agli hippies).
Insomma, era evidente il contrasto tra il progresso (e una fiducia incondizionata verso il futuro) e i primi segnali della perdita dell’innocenza. Il 1969 è insomma un crocevia, tra un’epoca di prosperità e un quadro internazionale di conflitti irrisolti, violenza politica e una guerra fredda entrata più che mai nel vivo.
Guadagnarsi da vivere… diventando scrittori
David Trueba, nel secondo testo, racconta che alle elementari lasciava i fogli dei temi in bianco. Imparare a scrivere (e leggere) tardi, addirittura, stava per costargli l’espulsione dall’istituto. Anche per questo motivo, secondo lui, il più grande traguardo della sua carriera è stato il diploma del primo anno delle elementari. Il resto, paradossalmente, è stato un percorso in discesa.
Quell’abilità guadagnata con così tanta fatica era diventata un tesoro prezioso e presto sarebbe diventato un modo per preservare le storie raccontate dal cinema o dalla televisione (che, come spiega a p. 128, al tempo erano frequentemente di grande qualità).
Nonostante le critiche, gli scetticismi e le maledizioni per i rumori della macchina da scrivere usata la domenica di prima mattina, potersi sfogare sulla carta era il modo migliore per poter dare priorità alla passione, al di là di ogni giudizio esterno.
La lettura, fondamentale per ispirarsi, per il giovane David è una risposta alla precoce perdita della fede. I libri, infatti, gli permettono di continuare – anche senza religione – quella ricerca di senso e giudizio in un un mondo “contradditorio e agonizzante”.
Persa l’immaginazione evocatrice della religione, non mi restava altro che puntare tutto sulla robusta fabbricazione della finzione.
David Trueba, Il mio ’69, p. 122.
La menzogna, inoltre, è altrettanto importante, così come l’umorismo e la magia. Tutto ciò, infatti, permea di trasformare il reale, rendendolo più piacevole. Scrivere è una forma di in-disciplina e quindi, ancor prima, di indipendenza. Il piccolo David, per questo, inizia a scrivere di viaggi spaziali e lunari.
La realtà, tuttavia, si è presa ben presto un ruolo di coprotagonista nell’esperienza creativa; la morte di Juanjo ha chiuso i contatti con un mondo alternativo visto da sempre come avvenire possibile: gli Stati Uniti, luogo di carriera di Juanjo.
Fondamentale è infine il dissidio tra professionalizzazione e vocazione personale. La scrittura è intesa dall’autore come “mezzo di rifugio“, un luogo “aperto tutta la notte” (titolo, peraltro, del suo primo romanzo) che il successo, in alcun modo, dovrà mai essere in grado di corrompere.

Quattro generazioni, quasi un secolo di storia
Come osservato da Marco Ottaiano nello scritto editoriale conclusivo, Trueba in Guadagnarsi da vivere opera una “regressione prospettica”. A differenza di quanto accade in Il mio ’69, infatti, le vicende sono raccontate dall’interno della scena. Con uno sguardo, tuttavia, particolare: quello candido e puro del bambino che fu lo scrittore quando visse le vicende raccontate.
Ecco allora il resoconto di interazioni familiari, piccole gioie intime con i fratelli e i genitori, ma anche la terribile tragedia della morte di Juanjo.
Proprio il piccolo cosmo familiare, inoltre, è cartina al tornasole di ciò che sta affrontando la Spagna nel periodo della transición: la cultura e la società cambiano in tutto il mondo; la Spagna, invece, assorbe tutto ciò con fatica e lentezza.
La famiglia manifesta anche le tracce della storia contemporanea del Paese. Lo dice bene l’autore in uno dei passi più emblematici del libro:
“Nel corridoio di casa mia, in un giorno qualunque della settimana, si incrociavano quattro generazioni di spagnoli. Da mio padre, nato nel 1916, fino al figlio più piccolo, nato alla fine del 1969” (p. 105).

Proprio da questa constatazione deriva il suo sogno utopico – coltivato da ragazzino – di realizzare un museo direttamente in casa sua.
La tirannia senza tiranni: la “tenerezza” diventa crudeltà
Come si può essere crudeli se si è infinitamente teneri? Su questa domanda sottintesa David Trueba sviluppa – nel terzo scritto – un’amara (ma non per questo arrendevole) riflessione. Il (triste) fil rouge che lega due concetti così apparentemente antitetici, infatti, è l’individualismo.
Lo scritto è politicamente schierato e rivela la concezione trasformatrice che per Trueba ha la scrittura. L’abile e pungente editorialista del País, infatti, tra satira e analisi lucide, descrive una realtà individualista e sempre più votata all’autoassoluzione, più che all’empatia sostanziale.
Il buonismo via social e il risentimento facile online caratterizzano il XXI secolo ben più della violenza. È scalfendo questa dimensione immacolata che, paradossalmente, sorgono le reazioni più dure. Quando viene rotta la serenità artificiale costruita attorno a noi nasce infatti la paura.
Un tema già presente in Il mio ’69 a p. 90: la paura è diventata business. Il timore per il crimine ha dato linfa vitale all’industria delle armi e a mentalità reazionarie votate alla preservazione della sicurezza piuttosto che ai diritti e alle libertà civili. È così che diventa più che mai attuale la previsione dello scrittore di fantascienza John Wyndham: “siamo noi la catastrofe“, l’unica pronosticabile per il futuro.
Caduti il politicamente corretto e la finta solidarietà internazionale, tornano l’odio e le guerre, prosegue Trueba. E nell’incertezza i cittadini richiedono un rapporto interpersonale con i leader politici, che diventano padri accudenti e… teneri, appunto. La politica, insomma, diventa una nostra estensione.
E così non emergono solo le logiche familiste e i culti della personalità dei dittatori orientali, ma anche i nuovi leader individuali in Occidente a scapito di (presunti?) “burocrati” distanti. La famiglia e il “sono figlio di”, quindi, prevalgono; e ai parenti si può perdonare tutto: persino le più efferate crudeltà.
L’estetica della tenerezza
La tenerezza di cui parla Trueba nasconde l’ossessione di difendere la propria identità contro il mondo. Lo dimostrano molti casi d’attualità: è così, infatti, che crescono i partiti di estrema destra in Europa (per approfondire, leggi l’intervista di Giovani Reporter a Piero Ignazi) – per cancellare il diverso che viene dal mare – ed è su questi presupposti che Israele cerca di annullare l’Altro, impersonificato dai palestinesi.



Per gli stessi motivi si cerca di riscrivere il passato per renderlo più conveniente, ad esempio coprendo – in certi Paesi – la responsabilità dei crimini nazisti e fascisti. Ed è in questo modo che prevale l’estetica della tenerezza piuttosto che la tenerezza stessa, che giustifica la logica tribale della taifa, per cui tutto ciò che proviene dall’interno dei microcosmi va bene, mentre ciò che è esterno equivale al Male.
Punire la crudeltà esteriormente sembra quindi più importante della prevenzione dei problemi. È la socializzazione permanente, che ci impone, ad esempio, di punire i criminali in modo esemplare piuttosto che lavorare sulle cause retrostanti. L’importante, d’altronde, è rispondere alle esigenze di un pubblico astratto sempre pronto a giudicarci.
Dover sottostare al giudizio altrui genera inoltre superficiali logiche “sportive” – spiega Trueba – per cui esistono solo sconfitta e vittoria. In questo modo, contano solo i numeri e le classifiche. Il merito politico viene ridotto ai sondaggi, mentre la qualità dell’istruzione è espressa solo dalle classifiche delle scuole. E non importa se queste propugnino agli studenti mentalità egoistiche e competitive, legate al mero raggiungimento di voti alti.
L’importante è insomma il proprio benessere, non quello degli altri. Di conseguenza, nelle relazioni prevarrà sempre la necessità di rimanere soddisfatti, come se gli altri fossero commodities. Semmai, si passerà alla persona successiva, senza preoccuparsi del processo di conoscenza reale. Altro che tenerezza, insomma.
Da “Il mio ’69”… al “nostro 2025”
La polemica, tuttavia, lascia spazio a uno spiraglio di speranza, rappresentato da una classe sociale specifica: i giovani.
I discorsi apocalittici riempiono le nostre orecchie quotidianamente, raccontandoci di un futuro fosco di precarietà e catastrofi. Iperstimolati e atrofizzati dalla negatività, non riconosciamo più, però i rischi del pericolo reale (Trueba cita la questione climatica) e, soprattutto, ci autoconvinciamo di fallire. Senza che però ci vengano suggeriti gli strumenti per prevenire tali eventualità.
La fantasia, la creatività e l’iniziativa personale sarebbero gli antidoti, eppure gli adulti – spiega l’autore – pensano solo a tarpare le ali dei loro figli. Questo perché pensano di essere arrivati al futuro, che in realtà è tutto da costruire, come è sempre stato per qualsiasi nuova generazione. Il desiderio di cambiamento e la forza di ribellarsi devono ancora essere la guida delle nostre azioni.

Solo così si potrà abbandonare ogni ipertrofico desiderio individualista – votato solo al successo personale e alla ricchezza economica – e disegnare un domani di empatia (reale) verso l’altro. Uno scenario in cui la felicità autentica diventa fondamentale, anche a costo di fare un lavoro più umile ma corrispondente alle nostre reali vocazioni.
Perché gli scenari di ricchezza e benessere sfrenato non raccontano degli effetti collaterali, delle paure dimenticate dietro a scintillanti quinte di effimera “grandezza”; gli stessi contrordini portati da un fumoso concetto di “patria” capace di rispondere ai nostri desideri più viscerali.
I progetti collettivi, intanto, resteranno l’unica necessità reale, tutta da perseguire, senza alcuna forma di controllo esteriore o modelli di vita pre-imposti, comodi solo per chi ci vuole meno liberi. Insomma, bisogna reagire: altrimenti, saremo noi i primi tiranni di noi stessi.
Martino Giannone
(In copertina, immagine di Stuttgarter Nachrichten)
La recensione di Il Mio ’69 di David Trueba è realizzata in collaborazione con la casa editrice Voland: