
Come insegna la storia, l’implosione di un impero non avviene per un singolo colpo, ma per una lunga serie di crepe ignorate o sottovalutate. Quali sono le spaccature che, al giorno d’oggi, attraversano ‘l’impero USA’, e che potrebbero determinarne, un giorno, il collasso?
Anatomia di una superpotenza
Qualche giorno fa, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti Scott Bessent ha annunciato che “se il Congresso non innalzerà il tetto del debito entro metà luglio, potremmo restare senza fondi già in agosto”. Questa notizia, presa di per sé, potrebbe raccontare solo l’ultimo capitolo della recessione economica con cui l’impero americano deve fare i conti ormai da tempo. Ma c’è dell’altro.
La storia ci insegna che ogni superpotenza attraversa cicliche fasi di crescita e di declino.
Nel caso degli Stati Uniti, però, sembra che questo sia l’ennesimo campanello di allarme nei confronti di un intero modello economico che non funziona più come prima.

Oggi Washington si trova ad affrontare molte crepe di lunga data: l’enorme debito pubblico, le alleanze che reclamano costi sempre maggiori, la polarizzazione interna e la sfida di un primato tecnologico sempre più in discussione. Senza contare che la risalita al Campidoglio del Tycoon finora ha accelerato questi processi piuttosto che “rendere di nuovo grande l’America”.
Nei paragrafi che seguono, scaveremo dentro le fratture dell’impero americano – dal nodo finanziario alle tensioni sociali, dalle pressioni geoeconomiche alle rivalità digitali – per capire perché il gigante apparentemente invincibile appare oggi più in difficoltà che mai.
Gli imperi sono antieconomici
Un impero diventa antieconomico quando l’ambizione di restare al vertice consuma più di quanto il vertice stesso restituisca. Come detto in apertura, le difficoltà degli Stati Uniti sono anzitutto economiche: il Paese si è ritrovato a spendere molto più di quanto guadagni.Periodicamente, il Senato americano alza il tetto del debito pubblico per evitare il default finanziario.
Dal 1960 ad oggi, il Congresso americano lo ha dovuto alzare ben 78 volte. L’ultima è avvenuta il 19 gennaio 2023, quando il debito degli Stati Uniti ha superato i 31.400 miliardi di dollari, pari al 120% del PIL. E le parole del Segretario al Tesoro degli Stati Uniti citate all’inizio dell’articolo lasciano presagire che un nuovo rialzo sia vicino.

Fra le voci di spesa più ingombranti figura senza dubbio la difesa. Gli USA spendono moltissimo per l’esercito: 916 miliardi di dollari, che da soli rappresentano il 37% della spesa militare mondiale. Gli Stati Uniti mantengono oltre 220.000 militari attivi in più di 170 Paesi e controllano 544 basi in 43 Stati esteri: una presenza imponente, resa ancora più sorprendente dal fatto che si tratta di una nazione con confini geograficamente tra i più sicuri al mondo.
Questo impegno militare globale serve a proiettare potere e deterrenza là dove ritengono che si giochi l’equilibrio strategico internazionale — dall’Indo-Pacifico al Medio Oriente, dall’Europa orientale all’Africa. Ma la fetta maggiore della loro spesa è volta a renderli compratori di ultima istanza nel mondo. Ora vedremo cosa significa.
Compratori di ultima istanza, un’arma a doppio taglio
Dopo la Seconda guerra mondiale, e soprattutto con la globalizzazione post-anni Settanta, gli USA si sono strutturati come consumatori globali, importando più di quanto esportano. Questo è stato possibile anche perché il dollaro è la valuta di riserva mondiale: stampano moneta e comprano beni, mantenendo stabile la domanda globale.
Gli Stati Uniti sono dunque compratori di ultima istanza, cioè intervengono sul mercato quando la domanda privata crolla o si fa troppo timida, acquistando beni o titoli che altrimenti resterebbero invenduti.
Essere compratori di ultima istanza significa mantenere la propria posizione dominante anche in campo geopolitico e non solo economico, creando una rete di dipendenza economica intorno a sé. Molti Paesi asiatici – Cina e Giappone ne sono un esempio concreto – hanno costruito la propria crescita economica sulle esportazioni verso gli Stati Uniti.
Dagli anni Settanta, gli USA si sono affermati come l’acquirente finale di beni prodotti altrove, usando questo potere economico come leva geopolitica. A lungo andare, tuttavia, questo modello danneggia l’industria nazionale della superpotenza stessa, che è costretta a relegare la propria manifattura a un ruolo sempre più marginale.
Possiamo quindi rintracciare proprio nella globalizzazione, voluta dagli USA nel dopoguerra, una delle grandi cause che hanno minato la stessa egemonia industriale statunitense. Oggi l’America ‘deve’ continuare a comprare sia perché la sua economia si è modellata per essere un mercato di consumo, sia perché impiegherebbe anni a riportare le proprie industrie manifatturiere ‘a casa’ e a livelli di produzione tali da soddisfare la domanda interna.
La strada che ha condotto alla Rust Belt
Dalla fine degli anni Settanta, gli USA hanno iniziato un processo di smantellamento e sistematico ridimensionamento delle industrie nazionali, che fino a quel momento erano state il volto più noto della potenza americana nel mondo.
La Rust Belt (la cintura di ruggine) ne è l’esempio più concreto: un tempo cuore industriale del Paese, oggi simbolo del declino economico statunitense dovuto alla deindustrializzazione. Fabbriche, catene di montaggio e stabilimenti abbandonati offrono uno scenario desolato.
Al pari di enormi reperti fossili, queste strutture corrose dalla ruggine (appunto, rust in inglese) rendono difficile immaginare il tempo in cui non solo erano operative, ma producevano automobili, acciaio e beni di consumo per tutto il mondo. Nel 1928, la produzione industriale americana rappresentava il 44,8% di quella mondiale; nel 2019 è scesa al 16,8%.
L’America profonda, i lavoratori colpiti dalla deindustrializzazione, impoveriti e frustrati, sono stati poi ignorati dalle élites politico-mediatiche tanto da erodere la credibilità della stessa politica americana. E l’ascesa dell’astro antipolitico di Trump, in effetti, ne è la conseguenza diretta.
Il Tycoon, che sa bene che i propri voti arrivano dall’America profonda e dalla sofferenza della classe medio-bassa, ha scommesso tutto sull’economia americana, e ora intima alle aziende USA e non-USA di spostare nuovamente i loro impianti industriali negli States. Il senso dei dazi economici, che alla maggior parte dei partner commerciali degli Stati Uniti sembra assurdo, è appunto questo: stimolare la produzione industriale sul suolo americano.
Ma le contromisure economiche varate dalla nuova amministrazione americana portano con sé ripercussioni geopolitiche difficili da prevedere, capaci di innescare reazioni a catena dalle conseguenze potenzialmente devastanti. E tutti quanti dovrebbero tenerne conto.

La ‘super’ Dutch disease dell’impero americano
Abbiamo detto che gli Stati Uniti spendono più di quanto guadagnino. Ma l’economia USA si trova alle prese con un altro grave problema: si consuma ben più di quanto non si produca. Nel 2024, gli Stati Uniti hanno registrato un disavanzo commerciale totale di 918 miliardi di dollari, il secondo più alto nella loro storia dopo il record del 2022.
Per spiegare questa situazione, bisogna sapere che l’impero americano vive su flussi di importazioni non coperti da esportazioni, bensì da emissioni di dollari. Gli Stati Uniti finanziano il proprio deficit commerciale emettendo buoni del Tesoro, e possono farlo proprio perché il dollaro è la moneta di riserva mondiale.
A questa dipendenza dal dollaro si lega un fenomeno ancora più insidioso per l’economia americana: la Dutch disease, detta anche ‘maledizione delle risorse naturali’.
L’espressione si riferisce alle conseguenze economiche negative che possono derivare da un improvviso ed ingente aumento del reddito di un Paese, spesso dovuto alla scoperta di una risorsa naturale, come il petrolio o il gas.

L’abbondanza di una risorsa naturale in un Paese e il suo sfruttamento fanno aumentare il valore della moneta, la cui forza danneggia però lo sviluppo degli altri settori dell’economia. Ora, l’enorme squilibrio della bilancia commerciale statunitense è dovuto al fatto che l’America soffre di una ‘super’ Dutch disease.
E la ‘risorsa naturale’ che minaccia la sua economia è appunto il dollaro. Produrre la moneta del mondo a un costo minimo rende poco redditizie, e quindi poco attraenti, tutte le attività diverse dalla funzione monetaria. È dunque la capacità degli USA di produrre il dollaro, e quindi di estrarre ricchezza monetaria dal nulla, a paralizzare la manifattura interna.
I foederati possono risultare antipatici
Per risanare i conti pubblici, il Governo americano sta cercando di muoversi in più direzioni. E l’agenda di Trump non poteva sorvolare sull’enorme spesa militare di cui abbiamo parlato all’inizio. Per questo motivo, al World Economic Forum di gennaio Trump ha lanciato un duro monito agli alleati europei: “Chiederò anche a tutte le nazioni della NATO di aumentare la spesa per la difesa al 5% del Pil, che è quello che avrebbe dovuto essere fatto anni fa”.
Quello richiesto dal presidente americano è un aumento significativo rispetto all’attuale spesa, pari al 2%. Trump sta chiedendo all’UE di caricare sulle proprie spalle una parte maggiore del ‘fardello’ NATO.
Le richieste di un impegno economico maggiore sul versante militare sono state accompagnate da un sentimento di insofferenza e ostilità verso gli alleati NATO quali i Paesi europei e il Canada, visti come parassiti degli USA.
Il recente caso delle leaked chat di un gruppo di alti funzionari USA su Signal ne è l’esempio perfetto: “Non sopporto salvare di nuovo l’Europa” ha scritto il vicepresidente Vance.

A questo messaggio, il segretario alla difesa Pete Hegseth ha risposto: “Condivido pienamente il tuo odio per il parassita europeo, è patetico”.
La tigre e l’aquila
Se anche gli alleati storici di Washington in questo periodo della storia sono bersaglio di attacchi e di dazi, i veri nemici dell’America si trovano sotto un muro di fuoco. L’amministrazione Trump ha applicato dazi per il 145% su tutto l’import di beni cinesi, innescando una pericolosa guerra commerciale con il Dragone. Eppure, l’attuale punto di rottura è il paradossale risultato di un recente avvicinamento economico.
Dagli anni Ottanta all’inizio del millennio, è stato proprio l’establishment americano – da Bush a Clinton – a scommettere sulla Cina. La classe dirigente Usa ha deciso di integrare la Repubblica Popolare nella globalizzazione, prevedendo grandi benefici: una forza lavoro ad un costo bassissimo con grandi capacità produttive; un vasto mercato interno da assorbire; la nazione più popolosa del mondo da avvicinare nella propria sfera geopolitica, e nei più rosei scenari anche un processo di democratizzazione.
Il processo simbiotico per cui, soprattutto a partire dagli anni Duemila, gli Stati Uniti consumano e importano beni cinesi a basso costo, mentre la Cina esporta in massa verso gli USA accumulando riserve in dollari (soprattutto titoli del Tesoro USA) è stato definito dall’economista britannico Niall Ferguson come «Chimerica».
Questa complementarità tra le due economie, però, ora si è guastata fino a sgretolarsi. Infatti, le delocalizzazioni industriali dall’America alla Cina hanno aumentato esponenzialmente i profitti di industriali e dirigenti, ma impoverito il tessuto industriale Usa, spesso alimentando rivolte no-global.

Nel frattempo, l’ascesa al potere di Xi Jinping ha definitivamente deluso ogni speranza di liberalizzazione politica. Il partito comunista cinese non nasconde più le proprie ambizioni imperiali. Un esempio concreto è rappresentato dal progetto “Made in China 2025”. Si tratta di un piano strategico che punta alla supremazia planetaria cinese in tutti i campi delle tecnologie avanzate grazie al possesso di gran parte delle cosiddette terre rare.
Chiudersi a porcospino: una ritirata che accelera la fine
Abbiamo visto che è stata la crisi economica statunitense a mandare al potere Trump, e che le prime mosse del presidente, dai dazi economici ai ricatti sulla spesa militare, hanno cercato di dare ossigeno ai conti pubblici da una parte, e all’economia interna dall’altro.
Ma l’atteggiamento di chiusura che gli Stati Uniti stanno mostrando all’esterno non farà altro che acuire i problemi economici di cui abbiamo parlato. Chiudere l’America su se stessa (economicamente e militarmente) per “renderla di nuovo grande” non può funzionare.
La storia degli Stati Uniti d’America è legata a doppio filo alla globalizzazione, anzi: si potrebbe dire che la globalizzazione è stata una creazione americana. Alcuni analisti geopolitici definiscono la globalizzazione come il dominio degli oceani da parte della Marina USA, che di fatto si traduce nel controllo delle rotte marittime mondiali da dove passa oltre il 90% del commercio globale.
Non esiste globalizzazione senza America. L’America senza globalizzazione, invece, è già esistita e potrebbe esistere, ma sarebbe profondamente diversa da ciò che è oggi. La definizione più calzante per gli USA infatti è di potenza talassocratica. Washington è, a oggi, l’unica nazione capace di proiettare la sua potenza in ogni quadrante del globo. Ognuna delle sette flotte americane ha una sua area di competenza negli oceani e nei mari del mondo.
Il predominio navale USA ha garantito la sicurezza delle rotte marittime internazionali, generando una crescita esponenziale del commercio economico e rivoluzionando completamente l’economia globale. Il dietrofront del presidente Trump sulla globalizzazione significa, tra le altre cose, tentare di fermare quel processo di dislocamento delle industrie nazionali americane in Paesi dove il costo della produzione è assai minore. Ma si tratta di un processo ormai irreversibile.

La fine di un impero?
La parabola dell’impero americano sembra ripercorrere dinamiche già viste nella storia delle grandi potenze del passato: espansione, apice, sovraesposizione e infine logoramento interno. La storia insegna che ogni impero, prima o poi, inciampa sotto il peso delle proprie contraddizioni. La combinazione di una base industriale indebolita, un debito crescente, tensioni sociali ignorate e un ruolo globale sempre più costoso e contestato segna una fase di profonda trasformazione per gli Stati Uniti.
Che questo significhi la fine dell’egemonia americana o solo una sua radicale riconfigurazione è ancora da vedere. L’America farà in tempo a correggere la sua traiettoria? O stiamo semplicemente assistendo, in diretta, all’inizio della fine di un impero?
Alessandro Donati
(In copertina, immagine della bandiera statunitense a pezzi)
Anatomia dell’impero americano, tra sfide del passato e problemi del presente è un articolo di Alessandro Donati. Clicca qui per altri articoli dell’autore!