
Lo scorso 16 marzo la scrittrice Nadeesha Uyangoda ha presentato il suo nuovo libro “Corpi che contano” (66thand2nd, 2024) con Silvia Albertazzi (UniBo) presso il LabOratorio di San Filippo Neri, a Bologna. A margine dell’evento, Chiara Celeste Nardoianni ha avuto l’occasione di intervistarla.
“Corpi che contano”
Lo scorso 16 marzo la scrittrice Nadeesha Uyangoda ha presentato il suo ultimo libro, Corpi che contano, all’Oratorio di San Filippo Neri di Bologna nell’ambito della rassegna Lectura Mundi 2025: Le parole dell’accoglienza, che ha visto tra le sue protagoniste anche Igiaba Scego (leggi la nostra intervista), Shi Yang Shi (leggi la nostra intervista), Esperance Hakuzwimana, Younis Tawfik e Jamaica Kincaid.
Il nuovo libro indaga appunto il rapporto tra sport e corpi razzializzati: a metà tra il saggio e il memoir, costruisce un’alternanza tra dimensione personale di Uyangoda e dimensione storica, in cui viene sottolineato il ruolo dello sport.
La scrittrice, avendo praticato sport in prima persona, affronta il tema come una questione politica, in particolare di classe. Il risultato è un’analisi lucida e originale, che analizza lo sport da una prospettiva ancora poco esplorata in Italia.

L’invito che l’autrice rivolge al lettore è quello di riflettere su come la pratica sportiva possa rappresentare, da un lato, un’opportunità di riscatto per le persone razzializzate e, dall’altro, un terreno in cui si riproducono le stesse dinamiche razziste e stereotipizzanti.
Sul palco del LabOratorio San Filippo Neri Uyangoda ha dialogato con Silvia Albertazzi, docente di Letteratura inglese presso l’Università di Bologna.
Chiara Celeste Nardoianni: Il titolo del tuo nuovo saggio, Corpi che contano, richiama chiaramente il testo Bodies That Matter di Judith Butler. Che rapporto hai con questo libro e in che modo ha influenzato la scrittura del tuo lavoro?
Nadeesha Uyangoda: Ho letto Judith Butler, anche se più di Bodies That Matter ho approfondito altri suoi saggi, in particolare uno in cui si analizza il corpo in relazione alla guerra e alla sua oggettificazione all’interno della narrazione mediatica. L’approccio di Butler è prevalentemente accademico e focalizzato sulla questione di genere, data la sua formazione come studiosa di gender studies.
Pur citando Butler in alcune parti del libro, il mio intento era diverso: desideravo evitare un linguaggio accademico e complesso. Volevo scrivere un testo accessibile, comprensibile a tutti, che andasse oltre la sola prospettiva di genere, posizionandosi invece in maniera intersezionale, toccando anche altri aspetti come la classe. Butler resta una lettura fondamentale, ma in Corpi che contano ho scelto di concentrarmi in particolare sulla dimensione della classe sociale.
Se nel mio precedente lavoro, L’unica persona nera nella stanza (su cui leggi quest’altra intervista a cura di Chiara Celeste Nardoianni, ndr.), affrontavo principalmente la questione razziale, qui rifletto sul corpo a partire anche dalla dimensione sportiva, per poi analizzare le sue implicazioni di genere e classe.
Chiara Celeste Nardoianni: All’interno del tuo saggio alterni sezioni di analisi più saggistica a passaggi personali legati al tuo vissuto. Perché hai scelto lo sport come chiave d’accesso al tema del corpo? Qual è il tuo rapporto personale con il corpo, che dal testo emerge in modo ambivalente?
Nadeesha Uyangoda: Corpi che contano è nato da una proposta dell’editore. La casa editrice 66thand2nd, che ha due linee principali – la letteratura postcoloniale e quella sportiva – mi ha chiesto se avessi voglia di scrivere un saggio che unisse questi due ambiti. Ho accettato senza avere una chiara idea iniziale di cosa avrei scritto. È vero, ho praticato sport, ma mai a livello agonistico; non ho partecipato a Olimpiadi o campionati nazionali.
All’inizio è stato molto difficile. Lo sport è ancora un campo di analisi relativamente di nicchia e, quando ho cominciato a scrivere, non stavo nemmeno facendo attività fisica, ero completamente assorbita dalla promozione del mio libro precedente.
Solo quando ho preso parte a una residenza per scrittori sono riuscita a ritrovare un equilibrio: ho ricominciato a correre, anche insieme ad altri autori presenti, e proprio questa pratica mi ha dato la chiave per iniziare a scrivere. È stato un modo per unire dimensione fisica e dimensione intellettuale: due ambiti solitamente considerati separati, ma che nel mio caso ho voluto far dialogare.
Raccontare il corpo ha significato per me non solo rievocare ricordi mentali, ma anche far emergere la memoria fisica del corpo stesso – cicatrici, sensazioni, movimenti. Da qui l’intreccio tra esperienza personale e riflessione più ampia sullo sport.
Chiara Celeste Nardoianni: Dal tuo saggio emerge anche una riflessione su come lo sport sia percepito culturalmente. Noti differenze tra la realtà italiana e quella dei paesi asiatici?
Nadeesha Uyangoda: È una questione complessa, perché come la lingua e altre pratiche culturali, anche lo sport varia molto in base al contesto geografico e temporale. In Corpi che contano, parlo della “religione” del calcio in Europa e di quella del cricket nel Sud-est asiatico. Entrambi sono sport che da elitari sono diventati popolari, ma che oggi, nel contesto capitalistico, stanno tornando a essere sempre più esclusivi e costosi.
C’è un filo conduttore tra queste discipline: sono storicamente dominate da corpi maschili, e restano in gran parte inaccessibili a donne, persone transgender, e soggetti economicamente svantaggiati. Lo sport, oggi, è una delle espressioni più visibili del capitalismo, in Europa come negli Emirati Arabi, in Cina o negli Stati Uniti. Gli ultimi Mondiali di calcio lo hanno dimostrato chiaramente.
Chiara Celeste Nardoianni: Secondo te, in che modo lo sport rappresenta la nostra identità culturale?
Nadeesha Uyangoda: Una delle tesi di Corpi che contano è che, quando pratichiamo sport a livello individuale, entriamo in campo con un corpo, e credo non ci sia nulla di più politico di un corpo. Il corpo incarna identità di genere, razza, classe, orientamento sessuale. Pensiamo, per esempio, alla visibilità di alcuni calciatori.
A livello collettivo, lo stadio diventa uno specchio della società: i tifosi rappresentano un campione sociale e si comportano come tale. Le istituzioni sportive tendono a proclamarsi neutrali rispetto alla politica, ma lo sport, esercitato tramite i corpi, non può essere neutrale. È sempre una questione anche identitaria.
Chiara Celeste Nardoianni: Nel tuo libro, e anche in alcune tue riflessioni esterne ad esso, parli di rappresentazione e visibilità. In Italia vi è una scarsa rappresentazione delle persone razzializzate nello sport e anche in altri ambiti, come la politica. Qual è il tuo punto di vista?
Nadeesha Uyangoda: Lo sport, proprio perché si dichiara neutrale, riflette invece con forza le dinamiche di esclusione. Si assiste a una crescente presenza di sportivi e sportive razzializzate, soprattutto nell’atletica leggera. Ma perché proprio in quell’ambito? Perché persiste una visione razzista, legata a una pretesa “superiorità biologica” degli afrodiscendenti nella corsa, che si traduce in un razzismo scientifico.
D’altra parte, le istituzioni sportive, soprattutto in vista delle Olimpiadi, puntano ad avere rappresentanze il più possibile eterogenee, nella speranza di ottenere più medaglie. Ma questa inclusione non è realmente politica: è funzionale a un ritorno d’immagine e di potere per lo Stato. Avere più medaglie significa più prestigio internazionale.
Tuttavia, questo tipo di rappresentanza non si traduce in un cambiamento delle politiche sociali: non si riforma la legge sulla cittadinanza, ad esempio. Si concede la cittadinanza solo agli atleti più talentuosi, creando una forte discrepanza tra la rappresentanza nello sport e la realtà quotidiana del Paese.
Chiara Celeste Nardoianni (con la collaborazione di Davide Lamandini)
L’intervista a Nadeesha Uyangoda per Corpi che contano è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri, Mismaonda e ScriptaBO. Un ringraziamento particolare ad Alice Rosellino e Francesca Rossini. Leggi tutte le interviste di Giovani Reporter al LabOratorio di San Filippo Neri.