
L’attrice Cristiana Vaccaro ha portato al LabOratorio San Filippo Neri (Bologna) il monologo teatrale “Brutta”, basato sull’omonimo libro di Giulia Blasi. Alla fine, Vaccaro e Blasi hanno dialogato con il pubblico sui temi trattati nel libro e sul palco. A margine dell’evento, Chiara Celeste Nardoianni e Vittoria Ronchi di Giovani Reporter hanno avuto l’occasione di intervistarle.
Cristiana Vaccaro, diplomatasi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, si è formata come attrice con personalità del calibro di Luca Ronconi, Marisa Fabbri e Perla Peragallo. Ha preso parte anche a Un mondo d’amore di Aurelio Grimaldi (2002), Noi siamo Francesco di Guendalina Zampagni (2014), Tale of Tales di Matteo Garrone (2015), Ovunque tu sarai di Roberto Capucci (2017).
Giulia Blasi è una scrittrice, formatrice, conduttrice radiofonica e public speaker. Il suo lavoro è volto alla sensibilizzazione al femminismo e alle questioni di genere. Nel saggio Brutta (Rizzoli, 2021) Blasi dà voce, con il tono ironico che la contraddistingue, al disagio per il proprio aspetto estetico con cui ogni donna deve convivere fin dalla nascita.


La società, che si esprime in prima istanza nel nucleo familiare, ha da sempre contribuito ad alimentare il suo senso di inadeguatezza femminile. “Brutta” è un aggettivo utilizzato per silenziare le donne e per rimetterle al proprio posto quando cercano di svincolarvisi.
Chiara Celeste Nardoianni: Perché hai scelto di rappresentare proprio Brutta di Giulia Blasi (Rizzoli, 2021) e in cosa ti sei riconosciuta?
Cristiana Vaccaro: Ho conosciuto Giulia Blasi durante un reading che abbiamo fatto per UGO, un collettivo di tutte donne autrici, attrici, che adesso non c’è più perché durante il Covid si è perso. In questo reading si susseguivano sul palco pezzi comici da otto minuti ciascuno, interpretati da donne, tra cui Giulia Blasi. Mi ha colpita perché lei ha questa cifra molto ironica, che traspone anche nella sua scrittura.
Mi sono riconosciuta in questo testo perché mi sono sempre sentita scomoda, inadeguata, sbagliata. Ho sempre pensato che dipendesse dal mio carattere, ma leggendo questo libro mi sono accorta che è vero che la nostra personalità si forma anche in base alla famiglia, alla scuola, alle persone con cui ci rapportiamo.

Invece, la percezione che abbiamo di noi stessi, del nostro corpo, dipende soprattutto da quello che ci raccontano gli altri fin da piccoli.
All’inizio dello spettacolo dico “Sono appena nata e sono brutta, come faccio a saperlo? Forse per quello che mi hanno raccontato gli altri o forse me lo ricordo io così”. Questo significa che i ricordi e i racconti si mescolano e hanno un effetto sulla percezione di noi stessi, anche se inizialmente non te ne accorgi.
Così un genitore, una mamma, una zia, un’amica, anche persone che ti vogliono bene possono influire negativamente sulla percezione del tuo corpo. Nello spettacolo ironizzo sul fatto che mia mamma mi facesse body shaming: è una battuta, ma è vero, me lo faceva a tutti gli effetti. Non ci rendiamo conto, non ci facciamo caso, entriamo in una sorta di meccanismo che ormai diamo per scontato.
Quando cresci e ti accorgi di sentirti a disagio, inizi a domandarti il perché, inizialmente non ne comprendi il motivo e quindi cominci a indagare. Il libro di Giulia mi ha fatto capire che questo disagio riguarda la percezione della donna e del suo corpo nella nostra società, e che dobbiamo scardinarla a livello collettivo.
Dopo aver scelto il libro, ho chiesto a Giulia di farne un adattamento teatrale, ho fatto alcune modifiche senza tradire il testo originario e facendogliele poi vedere in una replica che ho messo in scena solo per lei. Una sola spettatrice che mi guardava, però importantissima. Io ho inserito dei pezzi nuovi sulla mia vita, spostando l’ambientazione dal Friuli alla Calabria e parlando di mia madre.
La frase “tutta questa fatica per una femmina” mia mamma l’ha detta davvero e anche il personaggio della sarta è reale; insomma, tanti personaggi e situazioni sono autobiografici. Ho seguito il fil rouge del libro di Giulia, poi gliel’ho mostrato. Ero agitatissima quel giorno perché temevo che mi dicesse che non le andava bene niente e invece mi ha riferito di essersi commossa e di aver anche riso molto. Quindi, abbiamo cominciato a portare lo spettacolo in giro per l’Italia insieme.
C. C. N.: Per quanto riguarda l’aggettivo ‘brutta’, nel libro Blasi scrive che si tratta dell’offesa peggiore che una donna può sentirsi rivolgere, a cui non riesce a replicare, anche peggiore di ‘puttana’.
C. V.: Non è peggiore, perché è chiaro che è più offensivo ‘troia’; è però un insulto. Come ironizzo nello spettacolo, se uno ti dice “troia”, puoi sempre rispondere “Beh, sì, allora? Mi piace, che vuoi, sono figa”. Invece, se ti dicono che sei brutta, lo fanno per rimetterti a posto: potrai realizzare qualsiasi obiettivo ma rimarrai sempre brutta, non puoi farci niente. È un modo per ridurti a un oggetto.
Una signora dal pubblico, durante il dibattito con Giulia successivo allo spettacolo, ha fatto l’esempio di quello che Berlusconi disse a proposito di Rosy Bindi o di Giovanna Botteri, oppure lo ‘scandalo’ dell’armocromia di Elly Schlein. In ognuno di questi casi si è trattato di un appunto su un aspetto che esula dal loro lavoro, ma ha invece solo lo scopo di oggettificarle.
C. C. N.: Secondo te è possibile riappropriarsi dei termini comunemente usati in senso dispregiativo come ‘brutta’ o ‘puttana’ in chiave positiva, quindi risignificandoli?
C. V.: Ho scelto alcuni pezzi, alcuni capitoli per raccontare degli aspetti, ma Giulia finisce il libro in un altro modo. Nel mio finale dico che vorrei non occuparmi di questa questione, nessuno dovrebbe occuparsene, non dovrebbe essere così importante.
Oggi sono brutta, domani sono bella, dare o non dare importanza ai giudizi non è il punto. La questione è che io sono qui, esisto e non ho nessuna voglia di sparire. Quindi a quel “troia”, “brutta”, potrei rispondere “sticazzi”, vorrei arrivare a dire “chi se ne frega”.
Inoltre, esiste un dibattito filosofico sul concetto di bello, di brutto, ma non so se riusciamo ad appropriarcene; invece, secondo me dovremmo riuscire proprio a fregarcene. Magari ci si può arrivare se si ha una consapevolezza, ma devi essere anche forte.
La riflessione parte dai giovani, soprattutto dalle ragazze: a 17 anni sei ancora fragile e un “sei bella/o” o “sei brutta/o” cambia tanto. Quindi, invece di entrare in un’altra ottica, in un’altra percezione, io spero che ci porti a rispondere “sticazzi” alla parola ‘brutta’. Dirlo in maniera convinta, non per fare scena. Non dovremmo fare in modo che sia un aggettivo a definirci, in questo senso potremmo liberarcene. In questo modo l’insulto può essere riletto in chiave positiva.
Infatti, io sono andata oltre, ho superato il concetto di bello, brutto non è più una cosa che mi riguarda, mi riguardano altre cose. Non è facile però, è un obiettivo da porsi.
C. C. N.: Per quanto riguarda il tema del corpo, esso è molto centrale nello spettacolo, anche per la narrazione che ne viene fatta nella nostra società a proposito di quello femminile. Il tema del corpo si ricollega anche molto bene al teatro.
C. V.: Sì, io lo uso tantissimo, e insegno ad usarlo anche ai miei allievi e alle mie allieve.
C. C. N.: Quindi anche in teatro è molto importante il rapporto con il proprio corpo, secondo te il teatro può essere uno strumento di lotta transfemminista e in che modo?
C. V.: Il teatro è sempre un manifesto di qualcosa, un atto politico, come qualsiasi forma di arte. Il teatro è rivoluzionario perché ogni corpo è significante, teatralmente parlando, oltre che nella vita. Con i miei allievi e le mie allieve lavoriamo proprio su questo.
Un corpo non è mai neutro: come attraversiamo uno spazio, come camminiamo, come ci muoviamo, è sempre significante, esprimiamo sempre qualcosa di forte, anche involontariamente. Inoltre, anche decidere di portare certi argomenti sul palco può essere rivoluzionario.
C. C. N.: Nel libro e poi nello spettacolo emerge il fatto che una donna finisce per percepirsi anche attraverso lo sguardo maschile, che introietta così tanto da farlo diventare anche il proprio. Secondo te è possibile ricostruire la propria percezione di se stessi?
C. V.: Il nostro corpo è percepito dallo sguardo maschile, dal meccanismo patriarcale che ci fa percepire il nostro corpo in un certo modo. Per cui mi ricollego alla risposta di prima rispondendoti che dobbiamo tentare di cambiare, di invertire questo meccanismo.

Vittoria Ronchi: Quando una ragazza molto giovane cresce nella nostra società si ritrova a doversi categorizzare; quindi, o sei bella o punti sull’essere intelligente, o sull’essere simpatica. L’importante è essere qualcosa, rientrare in una casella. Voi come avete vissuto la vostra esperienza personale crescendo, avete sentito il bisogno di categorizzarvi e come vi siete categorizzate per adattarvi alla nostra società?
Giulia Blasi: Ho scritto un intero libro su questo. Ho deciso di essere una ragazza brutta e quindi ho dovuto essere intelligente. È stata una scelta vincente perché oggi a cinquanta anni il mio corpo, anche se non è completamente irrilevante, mi fa soffrire molto meno la perdita della giovinezza rispetto a una donna che magari ha investito nel suo corpo.
C. V.: Io invece ho fatto di tutto per essere bella, avendo una mamma come la mia. Lei è una donna bellissima anche adesso che ha ’un’età; quindi, ha sempre visto la bellezza come un valore, ma senza cattiveria. Quindi stare a posto, dovermi pettinare, mettermi il cerchietto e il maglioncino: mi vestiva come una bamboletta.
Io odiavo tutto questo perché volevo stare sporca e rotolarmi per terra. Come dico nello spettacolo, dicevo di chiamarmi Federico perché pensavo, probabilmente in modo inconscio, “forse i maschi sono più liberi, se inizio a chiamarmi Federico mi posso levare questi cappelli, queste cose di pelliccia” che mi metteva mia mamma.
Quindi, crescendo con questo imprinting ho sempre cercato di essere bella il più possibile. Mi sono sempre creata il problema “oddio, questo mi sta male”. Non dico che adesso me ne sia liberata, nonostante la riflessione sull’argomento, anche grazie a questo spettacolo. Non sono pensieri di cui ti liberi facilmente, ci lotto ancora.
Adesso, da adulta, avendo attraversato anche tutte queste esperienze, cerco di non soffermarmici troppo, di non pormi il problema, di non farmi venire l’angoscia per questi pensieri, anche relativamente alla vecchiaia che avanza, alle rughe. Sicuramente hanno un peso, non posso dire il contrario o di averle totalmente superate.
Se avessi affrontato prima questi argomenti, sarebbe stato diverso, ora sarei un passo avanti, oggi le avrei trattate in maniera diversa. Invece per tanti anni mi sono trovata a combattere con questa sensazione di inadeguatezza. Per questo voglio parlarne con mia nipote e con tutte le ragazze giovani.
G. B.: Non te ne liberi mai completamente, anche decidendo di prendere altre strade, comunque siamo assediati, inseguiti da un canone a cui aspirare. Inoltre, vogliamo anche stare nel mondo, nelle relazioni, piacere alle persone; quindi, finisci anche per giocarci un po’, infatti io spendo capitali in cosmetici. Cerchi di bilanciare la necessità di vivere in questo mondo, divertendoti anche un po’, per esempio avendo nove milioni di palette.
C. V.: Nello spettacolo il fatto di continuare a pedalare rappresenta il procedere del pensiero, ma anche la ruota del criceto. Sei sempre lì che giri sulle stesse cose: anche se sì mi fermo, realizzo, penso, vado avanti, lotto – vaffanculo –, dico anche “vabbè, brutta”. Però alla fine rimango lì a girarci intorno, riprendo, perché è difficile uscire da certe dinamiche, per quanto si possano fare dei passi avanti.
V. R.: Per la questione dei cosmetici, siamo costantemente bombardate da frasi di body positivity come “amati così come sei”, però vi è sempre sottointeso un messaggio indotto dal consumismo del tipo “comprati comunque il correttore per sistemarti quel difetto.” Spesso i bisogni vengono indotti, come quello di comprarsi il correttore o il fondotinta per sistemarsi un difetto.
G. B.: Non si riesce mai davvero ad uscire da queste dinamiche che caratterizzano la nostra società. È anche una questione di accettare le regole del gioco, si può fare in maniera critica ovvero sviluppare la consapevolezza che una parte di te agirà in un modo perché deve, e non perché è ciò che davvero vuole. È un obbligo sociale che una donna può accettare o meno, ma se una donna decide di non svolgerlo, le altre non devono deplorarla perché non si cura di se stessa, e viceversa.
Io ho conosciuto donne che si definiscono femministe e che investono nella cura di se stesse molta più attenzione rispetto a quella che gli uomini rivolgono al proprio aspetto estetico. Non dico che una donna non dovrebbe truccarsi, andare in palestra, essere magra o sottoporsi a interventi di chirurgia plastica, ma dovrebbe domandarsi se il suo collega, seduto nella scrivania affianco alla sua, fa lo stesso.
Noi donne dovremmo domandarci se quello che facciamo è una costante degli esseri umani, oppure se lo facciamo perché specificamente femminile. Una volta ammesso, con un minimo di onestà intellettuale, che truccarsi ad esempio è specificamente femminile, possiamo continuare a farlo con spirito critico. Non si possono biasimare le donne che vogliono continuare a farlo.
C. C. N.: Io questo doppio standard lo sento molto per quanto riguarda la depilazione. Il trucco è un’imposizione da cui sento meno di essere condizionata, perché non mi importa così tanto e riesco a sentirmi a mio agio anche senza trucco. Della depilazione, invece, vorrei che non mi importasse, però lo sguardo degli altri, la paura di ritrovarmi nello sguardo altrui mi induce a depilarmi, anche se magari a me non importerebbe nulla di avere i peli.
G. B.: Da quando molte donne dichiarano esplicitamente di non depilarsi più, io sono molto più serena, perché riesco a minimizzare il problema, mi aggiungo ad una tendenza che non è nata oggi, ma esiste fin dagli anni Novanta. Il fatto di vedere donne che esibiscono i propri peli ha dato anche a me il coraggio di non depilarmi.
È molto liberatorio stare in pubblico, o vedere qualcuno che sta in pubblico senza essere conforme. La vecchiaia si porta con sé anche l’invisibilità, come se avessimo la data di scadenza sopra, a un certo punto non solo ti devi nascondere, anche gli altri ti nascondono, sparisci.
La sfida è rimanere nel mondo, ognuna con le proprie modalità, però non sparire soltanto perché si è troppo invecchiate per essere viste.
Chiara Celeste Nardoianni e Vittoria Ronchi
(In copertina e nell’articolo Cristiana Vaccaro sul set di Brutta, adattamento teatrale dell’omonimo saggio di Giulia Blasi)
L’intervista a Cristiana Vaccaro e a Giulia Blasi è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio San Filippo Neri e Mismaonda. Un ringraziamento particolare ad Alice Rosellino. Leggi tutte le interviste di Giovani Reporter al LabOratorio di San Filippo Neri.