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Shi Yang Shi: una storia italiana ‘made in China’

Shi Yang Shi copertina

Attore, performer e autore di origine cinese, Shi Yang Shi racconta in questa intervista il lungo processo di ricucitura – o accettazione – dello “strappo” che ha segnato la sua vita fin da bambino, quando ha lasciato la Cina per l’Italia. Al centro del dialogo con Davide Lamandini e Vittoria Ronchi, a margine dell’evento organizzato da ScriptaBO a Lectura Mundi–Festival della Lettura 2025 c’è il libro “Cuore di seta” (Mondadori, 2017).


Davide Lamandini: Nel libro utilizzi più volte l’immagine di uno “strappo” nella seta che ha segnato il tuo cuore fin da bambino, quando hai lasciato la Cina a circa 11 anni. Quanto tempo ci è voluto per ricucirlo, se mai è stato possibile? O come si può convivere con lo strappo se non è possibile ricucirlo?

Shi Yang Shi: Penso che la parola “strappo” sia meno dolorosa, meno veritiera di parole come “taglio”, “strazio”, senza entrare nel melodramma anche “lacerazione”.

Però quella ferita non credo che si possa sanare del tutto. Almeno, io non punto a farlo in modo definitivo, in questa vita.

Shi Yang Shi.
Shi Yang Shi (fonte: IMDb).

Poi c’è da dire che essere diverso, doppiamente in quanto parte di una minoranza etnica qua in Italia e in quanto persona gay, ha avuto un ruolo importante nel caratterizzare questa ferita. Nel libro racconto la mia diversità: come non sono stato accettato dalla famiglia d’origine; e, a partire da lì, mi sono prestato a un’operazione di racconto, in tre opere.

Cuore di seta, uscita come libro per Mondadori, è la centrale; la prima è invece uno spettacolo teatrale che in origine si intitolava Tom Meng ma poi è stato portato in scena come Arle-Chino, perché è più facile da capire; il terzo è Love Me Tender. Tutti e tre hanno qualcosa di autobiografico.

Davide Lamandini: Da dove nasce l’idea di scrivere Cuore di seta? Cosa rappresenta per te?

Shi Yang Shi: Guarda, devo dire – e lo dico qui per la prima volta pubblicamente – che non l’ho scritto io, ma un ghostwriter di nome Paolo Valentino.

Ho deciso di dirlo perché ho capito come quello “strappo” nasce dalle bugie che ci raccontiamo di generazione in generazione.

Più in generale, tutti viviamo nelle bugie; solo che, se mi racconto le bugie continuamente, compreso il fatto di aver scritto io questo libro, a un certo punto finisco per crederci pure io. E lo strappo continua ad alimentarsi, imputridisce, diventa parte di te.

Sono degno di essere seduto a questo tavolo e di andare stasera su quel palco. E il libro è frutto di un lavoro durato dodici anni, a partire dalla mia prima maestra di teatro, Cristina Pezzoli, con cui ho fatto un importante periodo di studio a Prato.

Shi Yang Shi Cuore di seta.
La copertina di Cuore di seta. La mia storia italiana made in China di Shi Yang Shi (Mondadori, 2017).

Quello strappo è emerso dal “crash aereo” che lei vedeva in me, da fuori, come insegnante. Mi diceva “ci sono tanti pezzi di identità che tu non vedi e che non sono integrati: vogliamo raccontarlo?”. Da lì è cominciato tutto il processo di studio, di racconto, per finire con lo strappo e con tutto il resto che uscirà.

Davide Lamandini: Quindi… possiamo dire che tu abbia imparato a convivere con lo strappo?

Shi Yang Shi: Ho imparato a gestirlo, a non farne un dramma, perché ce l’hanno tutti. Quando cerchi di emanciparti e di dire cose che sono veramente tue, ti trovi di fronte dei muri, soprattutto nella famiglia. E a quel punto ti rendi conto che devi per forza tradire qualcuno.

È da qui che nasce lo strappo.

Davide Lamandini: Dove senti, adesso, le tue radici?

Shi Yang Shi: Adesso è il periodo in cui sento che piano piano, ma proprio molto piano, nel mio cuore sto mettendo le radici. È il mio cuore, non di seta, quello reale: in cinese c’è una parola – xin – che significa “cuore” ma anche “mente”.

È la mente di tutte le persone, quella cosa invisibile che per noi buddhisti passa di vita in vita e quindi questa me la porterò avanti.

Davide Lamandini: Nel libro utilizzi diverse volte parole cinesi per riferirti a cose, oggetti, ricordi, esperienze, e le inserisci in un discorso più ampio, che è scritto in italiano. Come si integrano – nel libro e quindi nella tua vita – questi due elementi linguistici, e di conseguenza i due elementi culturali?

Shi Yang Shi: In modo disorganico. E adesso c’è anche l’inglese.

Mi piace anche scrivere poesie, e gli amici che ne sanno di più rispetto a me dicono che le mie poesie assomigliano a quelle dei futuristi; l’ultimo flusso di coscienza, comunque, era a tre lingue.

Però la cosa bella è che quando esce fuori la voce, non importa quale sia il veicolo, quale sia la lingua, quale sia il significante: esce, ed è quello che conta, perché corrisponde alla verità di quell’istante.

Vittoria Ronchi: Nei casi di multilinguismo, è normale che alcune lingue si utilizzino per certi momenti, per certe funzioni. Quale lingua senti più tua, quel è quella dell’intimità, quale quella in cui pensi?

Shi Yang Shi: Le parolacce – e in generale quando sono violento – mi escono in cinese. Quando faccio l’amore, invece, italiano. Quando poi voglio avere un lavoro, a livello internazionale, inglese, perché è la lingua del futuro. Ogni tanto, quando sono in gruppo con amici sino-discendenti, parliamo in cinese se si avvicina qualche italiano: giusto per sentirci privilegiati (ride, ndr.).

Vittoria Ronchi: In quale lingua sogni?

Shi Yang Shi: Cinese.

Intervista a cura di Davide Lamandini e Vittoria Ronchi.


L’intervista a Shi Yang Shi è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri, Mismaonda e ScriptaBO. Un ringraziamento particolare ad Alice Rosellino e Francesca Rossini. Leggi tutte le interviste di Giovani Reporter al LabOratorio di San Filippo Neri.

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