
A distanza di due anni dall’ultima intervista con Giovani Reporter, curata da Francesco Faccioli, e in occasione dell’uscita del suo ultimo album “IKI bellezza ispiratrice”, il jazzista Francesco Cavestri, classe 2003, torna a raccontarci della sua arte. Qui di seguito la nuova intervista, a cura di Federica Marullo.
Federica Marullo: Comincerei chiedendoti innanzitutto un piccolo bilancio; sono passati due anni dalla precedente intervista che ti abbiamo fatto; saranno successe un sacco di cose!
Francesco Cavestri: Sì, era dicembre 2023, avevo fatto l’intervista con voi per l’uscita del singolo Distaccati, che avrebbe anticipato poi il mio secondo album, pubblicato poco dopo. Quante cose son successe!
In quello stesso anno ho fatto il mio primo tour, iniziato ad aprile con un concerto al Blue Note di Milano: un po’ la Mecca, il tempio del jazz italiano ed europeo.

Nonché la più importante etichetta discografica di jazz al mondo; nata nel dopoguerra da tedeschi immigrati negli Stati Uniti, comincia in pochi anni a pubblicare tutti gli artisti più importanti di jazz in circolazione, perché permetteva di registrare di notte. Così i musicisti, quando finivano di suonare tardi nei jazz club, potevano proseguire senza dover interrompere e riprendere la mattina dopo.
In questo contesto venivano pagati ovviamente con fiumi di alcol, e potevano registrare. Per questo avevano un grande appeal verso i jazzisti importanti che suonavano tanto.
Negli anni ‘90 cominciano poi ad aprire i locali, primo tra tutti a New York, mentre nel 2003 aprono il primo Blue Note in Italia: il più grande al mondo con 300 posti. Ed è proprio qui che ho presentato il mio album, un’emozione incredibile! Quando canti su uno di quei palchi, lo senti. Un po’ come calcare quello di Sanremo, è sempre un’emozione, anche per chi ci è già passato prima.
E l’album IKI bellezza ispiratrice, uscito a gennaio 2024, è stato il primo per cui ho poi avviato un tour, iniziato a Bologna e poi proseguito in tutta Italia: sono stato a Roma, in Sicilia, vicino Mantova e in Valtellina.
Si è chiuso il 31 ottobre 2024 di nuovo a Milano, con un concerto per la Triennale di Milano, in occasione del festival Jazz me, con Willie Peyote come special guest. E da lì abbiamo presentato in anteprima Entropia, singolo realizzato in collaborazione proprio con Willie Peyote e che poi è uscito il 21 gennaio 2025.
F. M.: Mi hai dato tantissimi spunti! Per prima cosa, come è stato lavorare con Willie Peyote (guarda la nostra intervista video)?
F. C.: È un grande artista, il brano che ha presentato a Sanremo 2025, Grazie ma no grazie, sta spingendo molto di più rispetto al sedicesimo posto che ha ottenuto, e sta acquisendo ancora più notorietà di quella che già aveva; e di questo sono molto contento.
È una persona splendida, si pone allo stesso modo con tutti proprio come si pone al pubblico, ha una grande genuinità.
Ha firmato il contratto del brano che abbiamo fatto insieme il giorno prima di Sanremo, per farti capire che anche in quel momento pensava ai lavori da concludere. Una persona di grande precisione ed affidabilità.
Ci siamo conosciuti in realtà ad un festival, il Time in jazz, diretto da Paolo Fresu, il più grande trombettista jazz italiano a livello internazionale, che ha anche collaborato con me in IKI – Bellezza Ispiratrice, dalla scelta del titolo all’album in sé.

Ho conosciuto Willie quindi perché ero stato invitato alla trentottesima edizione di questo festival di grande prestigio, che si tiene in un piccolo paese della Sardegna di duemila abitanti, dove Paolo Fresu è nato. E ho conosciuto qui Willie Peyote, a un pranzo.
La sera stessa ci siamo fermati a parlare fino alle sei del mattino a casa di uno dei volontari del festival. Abbiamo mangiato Lardo di Colonnata, patatine e pecorino sardo. C’è stata fin da subito una grande complicità, che ci ha poi portato a collaborare con il progetto in Triennale.
Mi avevano richiesto di far un concerto con il mio gruppo e con un ospite che potesse appartenere anche a mondi diversi rispetto a quello del jazz, e a me venne subito in mente Willie, così glielo proposi. Lui fu felicissimo, comprò un completo apposta!
È un rapper e un cantautore con una grande sensibilità musicale anche verso generi che non gli competono strettamente. Quando gli chiesi che ci facesse al festival, lui mi rispose che in realtà l’hip-hip e il jazz condividono tantissime cose: il primo deve infatti la sua nascita al secondo.
E proprio questo aspetto della musica jazz, che riesce a incontrarsi con altri generi contemporanei, come ad esempio l’elettronica, mi sta molto a cuore. E, infatti, nel mio primo album ci sono delle tracce del mondo hip hop che ho preso e riadattato in chiave jazz.
F. M.: Trovo che il vostro brano Entropia sia una bella commistione di due generi molto complementari l’uno con l’altro, complimenti.
F. C.: Ti ringrazio, è già da un po’ che desideravo legare questi mondi. Io sono un classe 2003, ho 21 anni, quindi annoto e percepisco anche la musica che ascoltano prettamente i miei coetanei. Ho avuto anche io la mia fase da jazzista snob, dai 14 ai 16 anni circa, in cui ascoltavo solo jazz e per me esisteva solo quello! Poi c’è stato un artista, Robert Glasper, uno dei jazzisti più prestigiosi al mondo, che ha collaborato in un album di Kendrick Lamar con Snoop Dogg.
Il fatto che lui collaborasse con dei rapper, che per me erano il male peggiore, mi ha aperto la testa sul fatto che in realtà il jazz non sia quel genere così distaccato dal resto del mondo, ma può incontrarsi e creare qualcosa di ancora più bello e contemporaneo: può insomma rimanere vivo.
È necessario che si continuino a cercare nuovi linguaggi che possano innovarlo, altrimenti rischia di diventare come la musica classica, destinata ad essere ascoltata solo da un determinato pubblico. Soprattutto per un genere come il jazz che nasce dal basso, dal popolo, dall’esigenza di dover comunicare qualcosa al mondo allargato; non ad una cricca di intellettuali o ad una sola élite.
Voglio fare album di questo tipo, che viaggiano tra jazz ed elettronica, e penso siano quelli che rappresentano al meglio la vera essenza della musica jazz.
F. M.: Proprio in relazione a questo, volevo chiederti se ci sono altri artisti provenienti da generi differenti dal tuo con cui ti piacerebbe collaborare, se è una cosa che ci puoi spoilerare!
F. C.: Diamo spazio ai sogni! Da quando ho lavorato con Willie e è poi andato a Sanremo, può succedere di tutto.
Ieri, mentre ero in macchina, ero sintonizzato su “Radio Latte e Miele”, ed è partito il mio pezzo, Entropia. Così, ho pubblicato un reel e navigando su Instagram ho visto che tre giorni prima anche Jovanotti ne aveva pubblicato uno esattamente come il mio, mentre ascoltava un suo brano in onda su “Latte e Miele”. Quindi direi che mi piacerebbe collaborare un giorno con Jovanotti, perché passano le stesse canzoni nelle stesse radio!
E poi andando all’estero, mi piacerebbe tantissimo lavorare un giorno con Tom Misch, grande chitarrista che lavora con un alter ego, che si chiama Supershy e che fa musica elettronica, quella proprio French House, anni 80-90.
È un artista che ammiro tantissimo perché, pur avendo studiato, ha la capacità e l’apertura mentale per spaziare e viaggiare tra più mondi, quindi tra musica elettronica e hip hop. Ha collaborato, ad esempio, con Freddie Gibbs, un rapper di una certa rilevanza in America e non solo.

Amo collaborare con persone che hanno una visione simile alla mia, cioè di una musica che sia aperta, non stagnante o stazionaria.
F. M.: In relazione a questo, ti è capitato di collaborare invece con degli puristi del jazz? Nel caso, ti sei mai trovato in difficoltà proprio sul linguaggio, sulla comunicazione musicale?
F. C.: Allora, per jazz tradizionale si intende il bebop, che è un po’ la corrente fondamentale, perché è stata innovativa; modernizzò la musica jazz, ai tempi usata essenzialmente come accompagnamento allo svago. Un genere soprattutto che con la Seconda guerra mondiale andò in crisi, perché le grandi orchestre non potevano essere pagate.
Si cominciarono così a creare orchestrine più piccole, che però non avevano lo stesso potere di suono per poter far ballare sale molto grandi. Nacque perciò questo nuovo genere, il bebop, che riporta un po’ al centro la dimensione dell’ascolto. A differenza delle grandi orchestre, si formano quindi quartetti e quintetti che definiscono la vera forma del jazz, presenti ancora oggi.
È quindi un genere di rottura che ha riformulato completamente un linguaggio predefinito, sebbene sia comunque rimasto fedele a quello che c’era prima, lo si intende in un modo nuovo. È stata un’innovazione.
Però al di là di questo, non mi è mai capitato di collaborare con musicisti puristi, perché tendenzialmente non capiscono quello che faccio. La mia musica è troppo varia ed ha troppe influenze esterne al jazz, e poi non ho interesse neanch’io a collaborare con puristi in senso stretto.
Ho però lavorato con musicisti molto più grandi di me che suonano essenzialmente jazz tradizionale e che sono aperti ad altri linguaggi. Apprezzano che un giovane di vent’anni non faccia quello che fanno loro, al contrario sarebbe controproducente.
Ho infatti collaborato nello specifico con Fabrizio Bosso nel mio primo album, con Paolo Freso, che ho citato prima, i due più importanti trombettisti in Italia ad oggi. Nello specifico, Bosso è uno che con i suoi progetti suona in modo molto tradizionale. Tuttavia, quando gli proposi la musica del mio primo album Early 17, chiamato così perché avevo diciassette anni, a lui piacque tantissimo, tanto che abbiamo in progetto anche dei concerti insieme.
E ovviamente lui ha visto anche l’evoluzione del mio percorso. Abbiamo fatto un concerto a maggio in cui io ho portato anche alcuni brani da IKI, quindi molto elettronico, e lui l’ha accolto benissimo.
F. M.: In relazione all’esperienza al Blue Note di Milano, volevo chiederti se, secondo te, quest’ultima sia una città sufficientemente ospitale per i giovani artisti che cercano di farsi strada, o se il mercato è talmente saturo che è possibile perdersi.
F. C.: Io sono di Bologna e mi sono spostato a Milano, ed è una scelta che rifarei. Però dipende dalla fase della carriera in cui ti trovi. Credo che sia una follia andare a Milano cercando lì di costruire una propria identità artistica, perché non te la può dare.
È una città in cui devi arrivare già con un grande bagaglio. Ti può dare tanto, ma proprio perché si tratta di una città in cui arrivano tutti, devi avere qualcosa che ti possa distinguere. Io sono arrivato lì a settembre del 2023, quando avevo due album da pubblicare ed un concerto fissato in Triennale con il Blue Note, oltre che con diversi contatti.
Ed è fondamentale che tu arrivi lì ed abbia già qualcosa da dire, altrimenti rimani soffocato. Anche perché è una città estremamente caotica, ed è quindi facile perdersi. È difficile prendersi del tempo per riuscire a fare ciò che l’arte implica: navigare dentro se stessi e poter trasmettere all’esterno quello che tu senti all’interno.
Dopodiché è vero, anche Bologna mi ha dato moltissimo: ho iniziato a suonare qua, ho scritto il primo album ed ho frequentato il conservatorio.
Ho anche vinto nel settembre 2023 il premio per La strada del jazz, un festival importante che negli anni precedenti aveva premiato personaggi come Enrico Rava e Renzo Alba. Tutti personaggi di una certa età, che hanno scritto pagine e pagine di storia del jazz.
È stato bello che un premio così importante per la città sia stato dato ad un ventenne come me.

Dopo un po’, però, volevo sentire cosa altro avessero da dire altri luoghi; e Milano è stata la scelta migliore. A prescindere dal Blue Note, ora ha aperto anche Steinway, il miglior marchio di pianoforte al mondo, un vero e proprio ecosistema. Si tratta quindi di una realtà che per un pianista è estremamente prestigiosa.
Da poco ha anche aperto uno showroom a Milano, in cui hanno apprezzato molto il mio lavoro. Così ho fissato un concerto il 5 marzo a Dubai, in una Steinway Hall. Queste sono cose che accadono a Milano! Però poi, quando voglio creare ed ho bisogno di scrivere, torno a Bologna.
Come dice Filippo Sugar, il CEO di Sugar Music (che è l’etichetta di Lucio Corsi, ora esplosa), le novità artistiche più interessanti vengono dalla provincia. A Milano c’è talmente tanto caos e possibilità sociale che diventa difficile avere delle novità artistiche interessanti.
F. M.: Passiamo a una domanda un po’ più provocatoria: proprio in relazione alle opportunità e al saperle cogliere, se tu non fossi riuscito effettivamente a farti sentire, cosa staresti facendo in questo momento? Quale sarebbe stato il tuo piano b, anche in base alla tua formazione prima del conservatorio?
F. C.: Non lo so, in realtà ero stato ammesso alla Bocconi, ho fatto anche un esame. Mi sono immatricolato in un corso di economia per Arte, cultura e comunicazione; abbastanza attinente però molto totalizzante, come d’altronde la Bocconi è. Quindi, mentre suonavo al Blue Note, ero iscritto lì.
Forse, se avessi continuato quello, avrei probabilmente studiato all’estero, o comunque avrei studiato qualcosa di attinente al mondo artistico-umanistico. In realtà adesso sto studiando filosofia: la Statale di Milano mi riconosce la laurea al conservatorio presa a Bologna. In questo modo posso accedere in magistrale direttamente con la laurea triennale, con qualche esame d’integramento crediti.
Mi piace studiare, penso sia importante allargare il proprio pensiero anche al di fuori della musica. E quindi continuo a fare comunque qualcosa che mi lasci il tempo e lo spazio per coltivare appieno questa carriera.
Allo stesso modo, però, ho deciso di scegliere comunque una facoltà che fosse stimolante anche per la musica. L’album di cui parlavo prima, quello con cui sono partito in tour è infatti ispirato all’IKI, cioè alla filosofia giapponese.

F. M.: Sì, ho infatti provato a cercare il significato del titolo del tuo album e in generale sull’ispirazione che c’era alla base, ed è stato difficile trovare informazioni a riguardo.
F. C.: Perché è più facile trovare informazioni su l’Ikigai, un termine molto più comune, da ‘aforisma social‘. Il suo significato è stato in realtà un po’ banalizzato, viene tradotto infatti con la ragione per cui ci si sveglia la mattina. Al contrario, sull’Iki si trova meno.
Su internet non è un termine molto conosciuto. Io l’ho scoperto grazie alla lettura di un libro, La struttura dell’iki di Kuki Shūzō (Adelphi, 2022), un filosofo giapponese di fine Ottocento. È stato meraviglioso.
Ovviamente, è un termine intraducibile in italiano, perciò gli ho dato un significato che potesse essere compatibile con la mia musica, che vuol dire un po’ tutto e niente.
Letteralmente, indica i tre momenti nel percorso d’amore di una persona. Il primo è la seduzione, implica quindi l’esigenza che ci sia dualità in un rapporto. In quest’ottica, l’Iki nella sua forma più veritiera e radicale si sviluppa tra un uomo e una geisha, e c’è seduzione ovviamente perché la quest’ultima è tale, anche per il lavoro che fa.

Poi c’è l’aspetto emotivo, cioè una connessione tra due persone che va oltre l’aspetto corporeo, e per ultimo vi è il distacco. Non da intendere in senso negativo, ma inteso come distacco dalla realtà, per poterla vedere in modo più consapevole e razionale, a 360 gradi.
La prima traccia del mio album – e questa cosa è incredibile perché io non l’avevo scritta pensando a questo – si chiama Distaccati.

La scelta del nome proviene in realtà da un monologo meraviglioso, tratto dalla Dolce vita di Fellini, che si chiude proprio con la ripetizione della parola distaccati. Per questo ho chiamato il brano così inizialmente, solo successivamente ho scelto il concept dell’album che era IKI, ed ho scoperto che il punto culminante di quest’ultimo era proprio il distacco. E da lì ho fatto un ragionamento sul come poter legare il mondo dell’IKI a quello della musica jazz nel modo in cui lo intendo io.
Il significato che io gli ho dato è una ricerca estetica passata e costante, che muove l’animo della geisha e anche di chi si concede a lei, perché indica un ideale estetico. Si tratta di una ricerca costante della propria geisha, nella musica che si fa, nell’amore della vita, nello scopo personale o nella ragione per cui ci si alza la mattina.
Si punta sempre ad una ricerca, che nel caso artistico ovviamente è una ricerca estetica costante. L’artista in qualsiasi cosa che fa è sempre lì che lavora e che cerca. Non ricordo quale personaggio, ma comunque uno abbastanza noto, rimproverava sua moglie, affermando che anche quando lui se ne stava sdraiato sul divano a guardare il cielo, stava lavorando.
È questa la definizione di artista. In qualsiasi attività che egli possa fare, anche nell’otium, è con il pensiero alla propria arte, al proprio creare qualcosa che possa comunicare ciò che sta provando.
F. M.: Volevo lasciarti solo con una domandina a bruciapelo… dato che sei anche un grande appassionato di film, potresti svelarci la tua top 3?
F. C.: Facciamo una top 5, dai! La dolce vita e Otto e mezzo di Fellini, C’era una volta in America di Leone, Jeanne Dielman di Chantal Akerman, un film belga degli anni ‘70 che vidi in Cineteca a Bologna, della durata di tre ore, nell’arco di tre giorni. Per due ore e cinquanta non succede assolutamente nulla, mentre negli ultimi cinque-dieci minuti succede tutto.
E, come ultimo della classifica, metterei In the mood for love di Wong Kar-wai: l’hanno riproiettato qualche giorno fa al cinema di Milano e l’ho finalmente visto per la prima volta, è pazzesco!
Il jazz inclusivo di Francesco Cavestri: musica a cui piace infrangere la tradizione è un’intervista realizzata da Federica Marullo.