
“Da Vinci a Milano” (Enrico Damiani Editore, 2025) è il terzo libro che Massimo Polidoro (intervistato precedentemente da Giovani Reporter) dedica a Leonardo, dopo “Leonardo. Genio ribelle” e “Io, Leonardo da Vinci”. A differenza dei precedenti, però, quest’ultimo esplora in particolare gli anni milanesi dell’artista, tra fatti, curiosità e miti. In effetti, è proprio nelle vie milanesi che questo nome diventa leggenda.
Dove tutto ebbe inizio
Immaginiamoci una Milano a cavallo tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento attraverso gli occhi di Leonardo: un Duomo calato in un contesto completamente diverso; un campanile di San Gottardo in Corte che però sta iniziando solo adesso a battere le ore – novità assoluta; una Santa Maria presso San Satiro che si sta arricchendo con il trompe-l’œil del suo amico Bramante; un’Università degli Studi ancora Ospedale Maggiore della Ca’ Granda.
Leonardo visse qui, nel capoluogo lombardo, per 25 anni. Un quarto di secolo non è poco, il giornalista Tullio Barbato afferma che, se l’artista non avesse avuto quel “da Vinci” dopo il nome, si sarebbe potuto chiamare Leonardo da Milano.
Massimo Polidoro ne ha raccontato le motivazioni, assieme a tantissime altre curiosità, alla presentazione del suo nuovo libro, Da Vinci a Milano (2025), al Teatro Menotti di Milano, lo scorso lunedì 20 gennaio. Con lui Jacopo Veneziani, storico dell’arte che ha incalzato la narrazione di Polidoro con altrettante osservazioni e chicche da vero esperto del settore, entrambi con l’interesse e la passione tipici di chi, affezionato all’oggetto di studio, vuole renderne note tutte le sfumature.

Tempus fugit
Leonardo è un figlio illegittimo e, di conseguenza, non può seguire le orme del padre Piero nella sua professione di notaio; così, nel 1482, all’età di trent’anni, dalla Firenze che conosceva a menadito e in cui era a bottega presso il maestro Verrocchio si trasferisce nella moderna e tanto differente Milano .
Qui il tempo scorre in maniera diversa: se prima era qualcosa di fluido e indefinito, e si srotolava senza soluzione di continuità adesso è qualcosa di vivo, pulsante, e, mentre il giovane inizia a lavorare a bottega all’ombra del campanile che fu il primo della città a battere le ore, lo si sente come basso costante e continuo – impossibile non tenerlo sempre a mente. Già Firenze non amava molto la “flemma” del giovane, fin troppo lento nella creazione delle sue opere a causa della cura che vi impiegava, adesso una nuova città è pronto a giudicarlo.
Leonardo deve capire come incastrarsi nei ritmi frenetici di Milano, che è effervescente, cosmopolita, “caotica e insalubre” (p.51), e che non accoglie facilmente.
Ma alla fine ce la fa.

L’ascesa di Leonardo
Negli anni di Milano Leonardo lavora al servizio di Ludovico il Moro, soprattutto come ingegnere militare: decora il Castello sforzesco; dipinge la Dama con l’Ermellino; progetta il celebre monumento equestre (che sopravvivrà solo nella veste del tributo di Nina Akamu all’ingresso dell’Ippodromo Snai); aiuta nei lavori del tiburio del Duomo.
Dipinge una delle opere più invidiate, l’Ultima Cena, in particolare da Luigi XII che per poco non lo fece staccare dalla parete per portarsela in Francia (ah, già che c’è, l’autore ci tiene a sfatare un mito: la Gioconda non ci è stata rubata, bensì è stata venduta da un caro allievo di Leonardo per una cifra squisita).

Da Milano è poi richiesto altrove. Polidoro racconta che Isabella d’Este, marchesa di Mantova, volle a tutti i costi farsi fare un ritratto da Leonardo, che però si limitò a realizzare un carboncino; così, la donna continuò a inviargli lettere ed emissari – quasi al limite dello stalking –, ma senza successo. Insomma, è a Milano che Leonardo guadagna la stima dei maggiori esponenti della nobiltà italiana e francese, ma la sua sarà una lunga e faticosa ascesa.
Leonardo: un unicum
Leonardo giunge a Milano per ragioni legate alla musica, prima che all’arte. Si dice che, ancora nel capoluogo toscano, avesse costruito una lira bizzarra: in argento e ricavata a partire dal teschio di un cavallo. Ammirato e ammaliato dall’originalità di questo strumento, Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, aveva deciso di spedirlo agli Sforza come dono per garantire buoni rapporti tra le due città, assieme al suo genio creatore.
L’originalità di Leonardo è dettata anche dalla cura che impiegava verso il suo aspetto estetico: pare sia stato uno dei primi a sfoggiare tuniche di color rosa, era uno dei pochi a tenere i capelli lunghi e rasarsi la barba, andando controcorrente rispetto alla moda del tempo. Polidoro definisce la maniera di utilizzare il corpo, per Leonardo, quasi una vera e propria strategia di marketing.
Portava un pitocco rosato corto sino al ginocchio che allora s’usavano i vestiti lunghi.
Massimo Polidoro, Da Vinci a Milano, p.87.
Oltre all’originalità della sua figura, i contemporanei lo ricordano come una persona a modo. Paolo Giovio spiega come fosse “d’indole affabile, brillante, generosa” (p. 187). Anche per Vasari, suo biografo, ne rammenta il “grandissimo animo” e la sua bellezza “non lodata mai abbastanza” (p. 187). Addirittura, sempre il Vasari, scrive che nessuno fu mai al suo pari in quanto a bontà, vaghezza, grazia, vivacità.
Ma la sua unicità emerge chiaramente da un’altra testimonianza in particolare: in una lettera del 1516 indirizzata a Giuliano de’ Medici, Andrea Corsali, viaggiatore fiorentino che lo conobbe scrive che Leonardo fu addirittura uno dei primi vegetariani in Europa, abitudine ovviamente singolare ai tempi.
Era molto attento all’alimentazione, tanto da annotarsi alcuni versi presi da un sonetto popolare che recitavano piccole regole salutari: mai mangiare senza avere appetito, sempre lievemente, masticando bene, sempre cibo ben cotto, vino temprato mai a stomaco vuoto o fuori pasto e, soprattutto, esercizio fisico qua e là. Come scrive Polidoro, tutto sommato, sono consigli validi ancora oggi.
Un uomo dai mille volti
Come abbiamo visto, Leonardo era un cultore di tutte le arti. E, come ha simpaticamente aggiunto lo storico dell’arte Jacopo Veneziani alla presentazione del libro, talvolta addirittura si improvvisava urbanista, o virologo. Ed ecco che, all’arrivo della peste nel 1485, immagina una città ideale in grado di garantire maggiori igiene e pulizia (due pratiche a cui faceva particolare attenzione).
E poi era anche anatomista. Anzi, come spiega Polidoro, in realtà aveva il potenziale per diventare un pioniere: grazie ai suoi atlanti anatomici, avrebbe davvero potuto anticipare i grandi anatomisti che sarebbero venuti in seguito, ma a causa della sua spasmodica ricerca della perfezione, per cui quasi mai portava a compimento i disegni, nessuno lo venne a sapere mentre era in vita.
Dandosi con eccessiva meticolosità a cercare nuovi mezzi e tecniche di un’arte raffinata, condusse a termine pochissime opere, scartando sempre le prime idee per volubilità di carattere e per naturale insofferenza.
Massimo Polidoro, Da Vinci a Milano, p. 179.

Ancora, abbiamo un Leonardo inventore, anche se l’autore ci ricorda che delle invenzioni a lui attribuite alcune sono solo rielaborazioni, altre ancora sono mere speculazioni.
Vi sono strumenti subacquei per aiutare i Veneziani contro i Turchi, il paracadute, gli occhiali da sole, la penna stilografica, addirittura la tintura per capelli. Ma, su tutte, salta in mente il congegno ideato per simulare il volo. La domanda “l’uomo può volare?” lo ha sempre ossessionato.
L’idea è talmente straordinaria che, per evitare i curiosi, il maestro esegue i suoi esperimenti a Milano sul tetto della Corte Vecchia. Ma deve stare attento a non farsi vedere dagli ingegneri che sono al lavoro nel Duomo, lì accanto, per evitare che gli soffino l’idea!
Massimo Polidoro, Da Vinci a Milano, p. 142.
“Da Vinci a Milano” di Massimo Polidoro
Spesso l’etichetta del “genio” è una scorciatoia: i geni sono persone capaci di assorbire il contesto in cui vivono, di catturare suggestioni, migliorare se stessi e andare verso territori inesplorati.
Ma un genio è anche una persona che ragiona in modo totalmente differente rispetto alla norma del suo tempo, basti pensare alla strana scrittura di Leonardo: non procedeva solo da destra verso sinistra, ma spesso utilizzava un codice tutto suo, invertendo le lettere nelle parole. Così, “a Roma” diventava “amorra” e “a Napoli” diventava “ilopanna”, come in una sorta di verlan francese ante litteram.
Alla presentazione Jacopo Veneziani ha chiesto a Massimo Polidoro come possiamo fare a diventare geni a nostra volta, a diventare come Da Vinci.
“Beh, non si può” sostiene Polidoro. Leonardo ci risponderebbe di coltivare le nostre passioni, di dedicare tempo all’osservazione pura senza secondi obiettivi: “Guardate le libellule, fatevi domande”. L’umano fa parte della natura, non si trova su un piedistallo rispetto al resto.
Riportando le parole di Vasari, Polidoro ci racconta di un uomo la cui generosità si estende anche agli animali, tanto che ogni volta che passava da un mercato dove si vendevano uccelli in gabbia, li acquistava per poi restituire loro la libertà perduta.
La sua non è semplicemente la storia di un genio italico da incidere nei nostri libri di scuola: è anche la storia di un uomo che si è riscattato. Un figlio illegittimo che non si sarebbe mai potuto sognare un’esistenza agiata, a contatto coi nobili, con un lavoro redditizio, e che a quasi sessant’anni di età e in seguito a molti sacrifici può ammirare i suoi calli da instancabile lavoratore e affermare di aver coronato un sogno.
Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.
Massimo Polidoro, Da Vinci a Milano, p. 154.
Blu Di Marco
(In copertina il monumento a Leonardo da Vinci, situato in Piazza della Scala a Milano, foto: Secret Milano; un ringraziamento particolare a Massimo Polidoro e a Enrico Damiani Editore; coordinamento: Beatrice Russo)
Per approfondire, clicca qui per leggere un’altra intervista che Giovani Reporter ha fatto a Massimo Polidoro, autore di Da Vinci a Milano (Damiani, 2025).