
“Emilia Pérez” è il grande mistero di questi Oscar 2025: amato dalla critica, odiato dal grande pubblico. Tredici nomination per l’Academy, come Via col vento (1939), Forrest Gump (1994) e Oppenheimer (2023); trionfa a Cannes e ai Golden Globe ma, quando poi esce in sala e soprattutto negli Stati Uniti, viene travolto dalle critiche. Cos’è successo al film che sembrava la grande rivelazione dell’anno?
Un progetto complicato
Già dalla trama Emilia Pérez è un film innovativo. Manitas del Monte (Karla Sofia Gascòn) è un importante e temuto boss del narcotraffico che contatta un’avvocata, Rita (Zoe Saldana), per sparire e poter diventare chi è veramente: Emilia Pérez.
C’è un motivo se questo film è stato apprezzato dalla critica e odiato dal grande pubblico, ed è la sua complessità, che lo rende apprezzabile soprattutto a chi conosce molto bene il linguaggio cinematografico. Raramente il genere del musical affronta tematiche serie, ma Jacques Audiard non è il primo a farlo: nel 2000 Dancer in the Dark di Lars Von Trier ha affrontato il tema dello sfruttamento, nel 2005 Rent di Chris Columbus ha parlato di tossicodipendenza e AIDS, ma l’uso rimane raro.
Ma non è questo il vero problema di Emilia Pérez.
Al quadro si aggiungono anche il thriller, il legal drama e la commedia, e l’unione di tutti questi differenti linguaggi lo fa sicuramente sembrare un progetto affascinante che gioca con gli stilemi classici del cinema, ma il risultato finale è altalenante e discontinuo. Si alternano momenti curati e tecnicamente ammirevoli a momenti che risultano assurdi da guardare, uno su tutti la canzone La Vaginoplastica, diventata da subito un meme sui social.
Sembra incredibile che questa sequenza sia seguita poi da El mal, una canzone messa in scena con grande maestria. Apprezzabile l’intento giocoso, confusionario il risultato. I problemi della pellicola, però, iniziano quando ci si sofferma su come il film tratti le sue tematiche, e non c’entra il linguaggio del musical ma con la sensibilità di chi lo ha realizzato.
Quel che resta del Messico
La rappresentazione del Messico nel film è problematica alla radice. Si parla di cartelli messicani e di desaparecidos ma le riprese sono effettivamente realizzate in Messico solo per pochi giorni; la restante parte del tempo la pellicola è stata registrata in set ricostruiti in Francia, per motivi di budget.
Inoltre, una sola attrice del cast è messicana e ricopre un ruolo secondario, Adriana Paz. Zoe Saldana è invece statunitense e di origini domenicane e portoricane, Karla Sofia Gascòn è spagnola e Selena Gomez statunitense ma figlia di un uomo messicano. Il problema però non è solo questo.
Le attrici non hanno un accento messicano credibile e questo, oltre a far perdere il film di credibilità, offende i messicani. Il popolo messicano ha trovato il film approssimativo nel rappresentare la sua cultura, banalizzando le storie di violenza del Paese. Probabilmente questa semplificazione è molto chiara per i messicani, ma non è tale per le giurie internazionali che evidentemente non hanno colto questo aspetto.


Simbolo del sentimento di offesa del popolo messicano verso Emilia Pérez è sicuramente Johanne Sacrebleu (2025), un cortometraggio diretto dalla regista trans messicana Camila Aurora, che racconta la storia d’amore tra gli eredi trans di due aziende produttrici di baguette e croissant, rappresentati con tanto di baffetti e maglie a righe.
Questo progetto scherzoso rende sicuramente più chiaro a chi non è messicano, e quindi non percepisce gli stereotipi portati in Emilia Pérez, quanto questi risultino offensivi.
Ritratto retrogrado di una donna trans
Emilia Pérez aveva le potenzialità di essere un film cruciale per le persone trans. Il cinema non ha raccontato spesso la comunità, nonostante l’importanza che negli ultimi anni si sta dando alla rappresentazione. L’attrice protagonista è poi una donna trans, il che può sembrare scontato ma spesso le persone che compiono la transizione M to F al cinema vengono interpretate da uomini cisgender, il che ha spesso, e giustamente, scatenato numerose polemiche.
Nonostante questo ottimo punto di partenza, però, la stessa comunità non ha apprezzato Emilia Pérez. La Gay & Lesbia Alliance Against Defamation (GLAAD), un’associazione che si batte proprio per la rappresentazione delle persone queer al cinema ha definito il film “un ritratto profondamente retrogrado di una donna trans”.
Il film non fa altro che rafforzare una serie di stereotipi negativi sulla comunità trans e non solo. Viene portato sullo schermo un ennesimo personaggio che per compiere la transizione deve lasciare moglie e figli, creando inevitabilmente sofferenza, facendo passare, anche se involontariamente, l’idea che tutto sia riducibile a una questione di egoismo.
Inoltre, dal temibile boss che era Manitas, Emilia passa ad essere una donna che si batte per i familiari dei desaparecidos, riscoprendosi più benevola e materna ma tornando ad avere tratti maschili in momenti di impeto, come se queste caratteristiche possano essere proprie solo di un genere. Karla Sofia Gascòn sembra quasi abbassare la sua voce, rendendola più maschile, durante alcune scene di rabbia.
Un altro aspetto problematico è che il processo di transizione sia ridotto a una questione di medicalizzazione. Manitas assume già gli ormoni femminilizzanti ma non diventa Emilia finché non si opera; questa, però, è una visione molto limitante del processo di affermazione di genere, figlia di preconcetti culturali tipici di uno sguardo cisgender che poco conosce la questione.

Karla Sofia Gascòn: il colpo di grazia
Se Emilia Pérez poteva ancora salvarsi grazie al lato tecnico del film e alle interpretazioni (Selena Gomez esclusa), ci ha pensato Karla Sofia Gascòn a far affondare definitivamente la pellicola.
L’attrice sembrava il fiore all’occhiello del film: un’interpretazione ottima che avrebbe non solo fatto decollare definitivamente la sua carriera, ma che sarebbe stata anche un simbolo per la comunità trans; l’attrice, infatti, è stata la prima donna dichiaratamente transgender ad essere candidata agli Oscar.
È bastato un tweet a far crollare il sogno. Sarah Hagi, scrittrice e sceneggiatrice, riporta su X una serie di tweet pubblicati dall’attrice spagnola tra il 2016 e il 2021. Karla Sofia Gascòn definisce l’Islam un’“infezione per l’umanità” e la migrazione dei musulmani in Spagna un’“invasione pianificata”, poi George Floyd, ucciso dalla polizia americana, un “truffatore tossicodipendente” e accusa la cerimonia degli Oscar di essere un festival afro-coreano e femminista.
Inevitabilmente il cast si è allontanato da lei. Il razzismo dell’attrice stride soprattutto se si pensa allo sfogo di Selena Gomez sui social per le deportazioni dei messicani dopo i provvedimenti di Trump.
La stessa Netflix, che distribuisce il film e candidato Karla Sofia Gascòn come miglior attrice, nonostante Zoe Saldana avesse più minutaggio sullo schermo, ora si dissocia dall’interprete e non finanzia più la sua campagna Oscar.
Tuttavia, Gascòn non si scusa, chiude il suo account X perché invasa da insulti e minacce e si definisce vittima della cancel culture.

Emilia Pérez ha probabilmente perso ogni speranza di vincere qualsiasi Oscar: non passerà alla storia, ma è diventato simbolo di come sia cruciale trattare le tematiche con rispetto e cognizione di causa. Non basta trattare un tema per ergersi a bandiera, e questo è decisamente il modo sbagliato di portare avanti l’inclusività.
Sofia Lollini
(In copertina e nell’articolo immagini tratte dal film Emilia Pérez)
Per approfondire il Messico contemporaneo: leggi la recensione di Il sale della terra di Jeanine Cummins curata da Diego Bottoni e la rubrica Il mio Messico di Greta Murgia.