Cultura

Dal Ghetto di Varsavia all’aula universitaria: la doppia vita di Jan Karski (Giornata della Memoria 2025)

Jan Karski copertina Merli

In occasione della Giornata della Memoria 2025 celebriamo Jan Karski, professore e resistente polacco che ha rischiato la vita per denunciare al mondo gli orrori dell’Olocausto. Dalle missioni segrete per la Resistenza al confronto con leader internazionali come Churchill, la sua storia di coraggio e testimonianza è un monito imperituro contro l’odio e l’indifferenza.


Per ventisei anni, agli studenti seduti nei banchi della Georgetown University a Washington Stati Uniti, è stato dato il privilegio di ascoltare le lezioni di un uomo apparentemente comune: un professore di relazioni internazionali, sempre impeccabile in giacca e cravatta, competente, ma privo di particolari caratteristiche distintive.

Quello che quegli studenti non potevano immaginare è che dietro la sua facciata istituzionale si nascondesse una verità straordinaria. Quel professore si chiamava Jan Karski, ed era stato un soldato della resistenza polacca, un coraggioso agente di spionaggio che ha trasmesso informazioni cruciali agli Alleati durante la Seconda guerra mondiale.

Sediamoci ai banchi anche noi, come tanti suoi studenti, e andiamo a conoscere più da vicino la vita straordinaria di quest’uomo.

È finita la pace

Jan Karski è nato a Łódź, in Polonia, nel 1914, qualche settimana prima che cominciasse la Prima Guerra Mondiale. Cresciuto in condizioni economiche buone, non necessariamente favorevoli, Karski è di famiglia cattolica, educato sotto la supervisione della madre, profondamente credente, ma tollerante nei confronti delle persone di religione ebraica

Si laurea nel 1935, a soli ventun anni, in scienze diplomatiche, ma sfortunatamente deve subito entrare nel servizio militare polacco, che al tempo era obbligatorio.

Sono anni difficili per la geopolitica europea: le Leggi di Norimberga fresche di stampa, l’invasione italiana dell’Etiopia da parte di Benito Mussolini, l’instabilità politica in Spagna che culminerà con l’ascesa di Francisco Franco.

E poi il tentativo di formare la Piccola Intesa, alleanza strategica tra Francia, Polonia e Cecoslovacchia nello sforzo di contenere l’ascendente Germania: si stanno componendo tutti i tasselli che culmineranno, il 1° settembre 1939, con l’invasione tedesca della Polonia.

Jan Karski.
Jan Karski nel 1942 (foto: US Holocaust Memorial Museum).

Cosa faceva Jan Karski, quel giorno? Come ha avuto ad affermare in una intervista, “the war found me in Auschwitz”, ovvero: “La guerra mi ha trovato ad Auschwitz”. Erano le cinque della mattina, e Karski si trovava nei pressi di quello che diventerà uno dei maggiori luoghi di sterminio, ma che all’epoca soltanto una piccola cittadina.

Ma non era solo: con lui stava l’intera divisione dell’artiglieria alla quale era stato assegnato. Mentre Karski aveva ancora il viso bagnato perché si stava facendo la barba, sentì l’assordante rumore di una bomba: il primo segnale di una fulminea offensiva tedesca

Primi atti di coraggio di Jan Karski

Nel descrivere Jan Karski non si può fare a meno di aggiungere il coraggio tra i suoi tratti distintivi.  Lo si trova già nelle prime azioni di ribellione, quando, dopo quattro settimane di detenzione, scambiando la sua divisa da ufficiale con quella di un soldato semplice, riesce a scappare da un campo per prigionieri di guerra e arrivare a Varsavia, dove si unisce all’Armia Krajowa, l’esercito clandestino della resistenza polacca.

Karski è scelto come messaggero: diventerà uno staffettista raro e prezioso grazie al suo fisico sportivo e alla vasta conoscenza delle lingue maturata nei soggiorni estivi in diversi Paesi europei.

I primi messaggi sono da consegnare in Francia, presso il governo polacco in esilio, e contengono informazioni necessarie per coordinare le diverse attività di resistenza.

Si muove veloce, Karski, fino a quando i tedeschi non lo catturano. Subisce brutali torture da parte dalla Gestapo, determinata ad estorcergli informazioni, ma riesce a rimanere sempre in silenzio, arrivando a tentare il suicidio tagliandosi le vene pur di non proferire parole. Ironia della sorte, sono gli stessi tedeschi a salvarlo dall’emorragia, ritenendolo troppo prezioso per lasciarlo morire.

Nonostante il dolore fisico e psicologico, il messaggero riesce a fuggire grazie all’aiuto di alcuni compagni, inconsapevole di avvicinarsi alla missione più pericolosa e cruciale della sua vita.

Osservare e ricordare la disumanizzazione

È il 1942, e Jan Karski è stato scelto come messaggero della Resistenza per entrare nel ghetto di Varsavia, ricordare e raccontare quello che restava della vita di tanti cittadini ebrei: l’odore, la sporcizia, i corpi di moltissimi uomini in attesa di morire. E una totale assenza di umanità.

Karski è riuscito a entrare nel ghetto due volte, ha raccolto due tipi di informazioni ed è ripartito in direzione di Londra, più esattamente verso lo studio di Winston Churchill.

Il primo messaggio raccontato è stato politico, proveniva dalla direzione della Resistenza, stile classico e diplomatico. Il secondo, tuttavia, è stato un grido d’aiuto ebraico, una richiesta di salvezza da portare ai leader degli Alleati, con l’intento di ottenere una dichiarazione formale nell’impegno condiviso, al fine di salvare il popolo ebraico dallo sterminio.

Cito le disperate parole: “We contribute to humanity” (“noi contribuiamo all’umanità”).

Senza più nulla se non la vita umana stessa, gli Ebrei imploravano di essere considerati al di fuori di numeri e statistiche, oltre il desiderio della resa incondizionata della Germania, in ginocchio; chiedevano di essere riconosciuti ed aiutati in quanto Uomini.

Winston Churchill non riuscì a cogliere il dolore e la disperazione vissuti nei ghetti e nei campi di sterminio, e si mostrò diffidente rispetto alle parole di un semplice informatore, forse perché incapace di percepire la sistematicità degli orrori. La risposta internazionale, d’altro canto, fu del tutto assente.

Jan Karski e Colin Powell.
Jan Karski e Colin Powell, Washington DC, 22 aprile 1993 (foto: US Holocaust Memorial Museum).

Il ricordo dello sterminio

A seguito dell’appello andato a vuoto, nel 1943 Jan Karski fuggì negli Stati Uniti, dove iniziò una nuova fase della sua vita. Lì, lontano dall’orrore della guerra e dalla sofferenza che aveva portato con sé, costruì, nella città di Washington, una routine tranquilla, composta da tazze di caffè americani e correzione di saggi politici dei suoi studenti nella Georgetown University.

Karski visse per poco meno di trent’anni con grande discrezione, in silenzio rispetto al suo passato, senza cercare riconoscimenti o onori, portando dentro il peso delle atrocità a cui aveva assistito.

Nei primi anni ‘70, però, il regista Claude Lanzmann, mentre lavorava al suo famoso documentario Shoah, contattò Karski per raccogliere testimonianze dirette dell’Olocausto, dal momento che altri testimoni gli avevano fatto il suo nome.

Da allora e fino al 2000, anno della sua morte, con molto dolore e sofferenza, il professore è stato capace di dare forma e raccontare ogni dettaglio delle atrocità a cui i suoi occhi hanno assistito.

Il ricordo di Jan Karski, oggi onorato come Giusto tra le Nazioni, deve servire da monito: le ombre dei totalitarismi e le discriminazioni razziali non possono essere ignorate.

La sua storia ci insegna che la lotta per la giustizia e l’umanità non spetta solo a chi detiene il potere, ma a ciascun individuo che, con coraggio e integrità, è disposto a opporsi e raccontare l’odio dell’oppressione.

La mia testimonianza davanti al mondo di Jan Karski (Adelphi, 2013).

Isabella Merli

(In copertina Jan Karski, foto: Birbeck Institute for the Study of Antisemitism)


Per approfondire, leggi gli articoli del percorso tematico La memoria.

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