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Stati Uniti, Iran e Israele: il gioco geopolitico nell’era Trump

Stati Uniti Iran

Da oggi, 20 gennaio, Donald Trump siede nuovamente alla scrivania dello Studio Ovale, dopo quattro anni di amministrazione Biden. Se sei mesi fa, in piena campagna elettorale, aveva promesso che la sua presidenza avrebbe portato la pace nel mondo, ora il tycoon si trova a dover trovare un modo per mantenere la parola data.


Nuova stagione, vecchie strategie

Una delle maggiori sfide che Trump dovrà affrontare sarà sicuramente la costruzione (o distruzione?) di un nuovo rapporto con l’Iran. Le prime nomine dell’amministrazione Trump lasciano presagire che la sua presidenza adotterà nei confronti di Teheran un approccio più duro, non solo rispetto a Joe Biden, ma anche rispetto al primo mandato di Trump. 

L’amministrazione ha già espresso l’intenzione di ripristinare la sua politica di “massima pressione” contro la Repubblica Islamica. L’obiettivo americano è duplice: provocare un peggioramento della già grave crisi interna all’Iran per spingere Teheran ad abbandonare il suo programma nucleare e a smettere di finanziare i suoi proxy regionali.

La strategia dominante per “mandare in bancarotta” Teheran sarà probabilmente l’inasprimento delle sanzioni, in particolare per le esportazioni di petrolio, vitali per il regime. Quest’ultimo si trova già in una condizione di profonda crisi economica: con un’inflazione superiore al 50% e un elevato tasso di disoccupazione, questa crisi non solo impedisce a Teheran di investire nei suoi programmi, ma rischia anche di alimentare l’agitazione sociale interna al Paese.

La bomba che non esplode (ancora)

È importante ricordarlo: ad oggi l’Iran non ha ancora preso la decisione di dotarsi di armi nucleari. La disputa sul nucleare deriva dal fatto che l’avanzato programma nucleare iraniano è fuori dalla supervisione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dal 2021, e ultimamente ha accelerato i suoi livelli di arricchimento dell’uranio.

Un secondo dettaglio che bisogna ricordare, però, è che un accordo multilaterale per regolare gli sviluppi nucleari iraniani è stato in vigore fino al 2018, anno in cui gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi. L’accordo stipulato tra Stati Uniti, Iran, Russia, Cina e Unione Europea mirava a limitare il programma nucleare iraniano in cambio di un alleggerimento delle sanzioni.

Con il ritiro di Washington, la Repubblica Islamica, nuovamente soggetta a pesantissime sanzioni, ha iniziato quindi a usare l’accelerazione del suo programma nucleare come tattica di pressione nei confronti dell’Occidente, per aprire un nuovo negoziato. 

Amici e nemici nella regione

Nonostante la questione del nucleare sembri occupare l’intera scena, gli Stati Uniti dovranno investire anche su un altro fronte: contrastare le ambizioni regionali dell’Iran che, soprattutto dopo i recenti sviluppi, deve cercare di ripristinare la sua sfera di influenza. Per ostacolarlo, Trump potrebbe impegnarsi in una duplice strategia: da una parte, cercare di isolare l’avversario a livello diplomatico; dall’altra, offrire un robusto supporto ai propri alleati regionali, affinché questi ultimi si impegnino per contenere le mire iraniane.

Un’amicizia chiave che gli Stati Uniti devono coltivare a questo fine è quella con Israele. Tel Aviv e Teheran hanno alle spalle una lunga relazione conflittuale, che si è inasprita ulteriormente in seguito al 7 ottobre 2023. La Repubblica Islamica si è a lungo impegnata nella dottrina militare conosciuta come “offensiva difensiva”: attraverso l’Asse della Resistenza, ha sostenuto diversi gruppi attivi ai confini di Israele, usandoli come strumento per espandere la propria profondità strategica e ottenere accesso diretto allo Stato Ebraico.

Tuttavia, le campagne israeliane in Palestina, Libano e Siria hanno indebolito notevolmente i gruppi sostenuti da Teheran, portando sull’orlo del collasso la strategia “offensiva difensiva” e rendendo l’avversario molto debole. Per questo e molto altro, Israele resta una pedina fondamentale nel tabellone americano in Medio Oriente – anche se a volte si ha l’impressione che sia Tel Aviv a condurre i giochi!

Gaza in pausa, Iran nel mirino

L’amministrazione Trump ha iniziato con il botto: cinque giorni prima dell’insediamento ufficiale del nuovo presidente, quest’ultimo ha già portato a casa il cessate il fuoco a Gaza, dopo 15 mesi di negoziati fallimentari.

Si tratta di un traguardo considerevole, anche se, certo, la tregua temporanea delle ostilità non è che l’inizio del lungo percorso verso una soluzione alla questione palestinese; e, certo, l’accordo siglato si è basato sulla proposta di Joe Biden – ma diciamoci la verità, sappiamo tutti chi è riuscito a forzare la mano di Netanyahu, persuadendolo a rinunciare alla sua “vittoria decisiva” su Hamas (almeno per ora).

Anche se la questione palestinese può considerarsi sulla via della risoluzione — che soluzione non è dato sapersi, ma sicuramente, con Trump al timone, Israele più di tanto non rischia – Tel Aviv si trova ancora sotto la minaccia costante del suo ingombrante vicino iraniano. I vertici israeliani considerano ogni impegno diplomatico con Teheran come una perdita di tempo, e probabilmente incoraggeranno fortemente la nuova amministrazione americana a considerare opzioni militari – opzioni che Trump, per ora, non ha minimamente scartato.

Foto: AP Photo/Abdel Kareem Hana.

Insieme fino alla fine

Se lo Stato Ebraico si è infine lasciato persuadere a tendere la mano ad Hamas, riguardo ai suoi rapporti con l’Iran potrebbe non cedere alle persuasioni americane così facilmente. È anche vero però che, se Israele non è riuscito in più di un anno a emergere come vero vincitore della guerriglia contro Hamas, sembra improbabile che abbia le capacità di colpire efficacemente il programma nucleare iraniano – almeno non da solo. L’ambizione di Netanyahu, infatti, è da tempo quella di trascinare gli Stati Uniti in un conflitto con l’Iran.

Le possibilità che ciò accada sono notevolmente aumentate dal 7 ottobre 2023, ma fino ad oggi l’amministrazione Biden ha resistito alle pressioni israeliane. Con Trump, però, potrebbe essere diverso. Non solo la sua amministrazione si prepara alla politica di “massima pressione” contro Teheran, che di sicuro mette in conto un’eventuale ritorsione da parte iraniana, ma la lobby israeliana a Washington si fa sempre più potente – e non è un segreto quanto gruppi di pressione come l’AIPAC siano stati storicamente in grado di influenzare la politica americana, compresa quella sull’Iran.

Non succede, ma se succede…

Nonostante la convinzione di Netanyahu e la tendenza di Trump verso lo scontro con Teheran, un attacco militare contro l’Iran sarebbe disastroso, non solo per la regione del mediorientale ma per il mondo intero. Sebbene l’Iran abbia avuto un 2024 difficile – dall’incidente che ha causato la morte del suo presidente, a Israele che ha massacrato i suoi alleati in Libano e Palestina, alle crescenti pressioni economiche e sociali – il Paese conserva ancora notevoli capacità militari.

Per evitare il disastro, per prima cosa l’attacco americano dovrebbe assicurare la distruzione completa di tutte le strutture e le capacità nucleari iraniane. In caso contrario, Teheran potrebbe essere spinta verso lo sviluppo (e probabilmente l’uso) di armi nucleari per garantire la sicurezza del regime.

Inoltre, anche se l’attacco americano distruggesse tutte le strutture nucleari, l’Iran manterrebbe comunque il know-how tecnico per la produzione di un’arma nucleare. Certo, la teoria non basta se il regime in crisi non ha i mezzi per metterla in pratica. Eppure nulla esclude che l’Iran abbia accumulato nel tempo abbastanza materiale per la produzione di un (per quanto contenuto) numero di armi.

Dal Golfo a Wall Street

Ma non è finita qui: la rappresaglia iraniana – che, visti i punti precedenti, risulta quasi scontata – potrebbe mettere a rischio la stabilità della regione mediorientale (o comunque di quei pochi Paesi che ancora ne conservano un po’). Probabile obiettivo iraniano sarebbero le installazioni statunitensi e occidentali nella regione del Golfo, trascinando nel conflitto Paesi al momento poco interessati a uno scontro diretto con l’Iran e più impegnati nei loro ambiziosi piani di sviluppo interno.

Per non parlare delle conseguenze sull’economia internazionale. Negli ultimi mesi, la guerriglia degli Houthi yemeniti ha reso famoso lo Stretto di Bab al-Mandab, attraverso il quale transita gran parte del commercio globale. Tuttavia, esiste un altro snodo chiave nella regione, lo Stretto di Hormuz, in cui transita la maggior parte del petrolio a livello mondiale, oltre che quantità di gas naturale liquefatto non indifferenti. Come ritorsione, l’Iran potrebbe quindi bloccare uno dei punti di passaggio marittimo più cruciali per il mercato energetico – come già aveva fatto durante la guerra con l’Iraq – con pesanti conseguenze sull’economia globale.

Stati Uniti Iran
La regione mediorientale.

Fine dei giochi o nuovo inizio?

Insomma, l’approccio trumpiano e le pressioni israeliane su Washington non promettono bene. Eppure, la nuova amministrazione statunitense non dovrebbe dimenticarsi dei benefici che potrebbe trarre da un rapporto diplomatico con il suo nemico storico. L’Iran si trova in una posizione critica: la sua Asse della Resistenza, che gli garantiva una sfera di influenza sull’intera regione, è stata messa a dura prova, mentre la crisi dovuta alle sanzioni internazionali sta rendendo sempre più difficile il mantenimento e il miglioramento degli apparati politico-militari del regime – men che meno quelli dei suoi alleati regionali.

La debolezza iraniana si è manifestata chiaramente nel 2024 con le due serie di attacchi diretti tra Israele e Iran, dove la Repubblica Islamica ha mostrato la sua preferenza a mantenere gli scontri a bassa intensità. L’Iran è sottoposto a una pressione enorme, e l’apertura di uno scontro diretto con gli Stati Uniti non è sicuramente una prospettiva allettante.

Teheran sarebbe probabilmente aperta ai negoziati, se solo gli Stati Uniti intraprendessero la via diplomatica. E, vista la debolezza iraniana, Trump si troverebbe sicuramente in una posizione di vantaggio, che potrebbe fruttare a Washington molto più di uno scontro aperto sul fronte mediorientale.

Clarice Agostini

(In copertina, la bandiere di Stati Uniti, Iran e Israele)

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