CronacaPolitica

Trump tra Ucraina e Palestina: scenari di guerra e prospettive di pace

Trump Ucraina Palestina

Il 5 novembre Donald Trump è stato rieletto presidente degli Stati Uniti d’America. A quasi un mese dall’inizio effettivo del suo mandato (che avverrà ufficialmente il 20 gennaio), è fondamentale interrogarci sul futuro delle guerre in corso in Ucraina e in Palestina, che, anche se lontane dalle nostre case, coinvolgono direttamente gli Stati Uniti, e così l’Europa.


Secondo il Wall Street Journal, Donald Trump si impegnerà per mostrare la potenza economica e militare americana, anche lavorando alla pace dei conflitti in corso in Ucraina e in Palestina; non è chiaro in quali termini avverranno tali operazioni, dal momento che il Tycoon non ha rilasciato dichiarazioni precise, ed è soprattutto noto per la sua imprevedibilità.

Tuttavia, possiamo avanzare alcune ipotesi, analizzando la situazione geopolitica e le prime azioni intraprese dalla nuova amministrazione.

Ucraina: la fine di una guerra…

Lo scorso anno, in un incontro con gli elettori a Fox News, Trump ha detto: “Se fossi presidente metterei fine alla guerra in Ucraina in 24 ore”; poi, durante un dibattito con Kamala Harris, ha affermato che, se eletto, avrebbe concluso la guerra prima ancora di diventare presidente, perché rispettato dai leader di entrambi i Paesi coinvolti (anche se Mosca potrebbe avere da ridire, come vedremo successivamente); si è altresì rifiutato di dire se vuole che l’Ucraina vinca.

D’altronde, l’amministrazione Biden ha fornito all’Ucraina ben 108 miliardi di dollari dall’inizio dell’invasione russa, e Trump ha sempre criticato questo sostegno – fondamentale per gli ucraini, la cui spesa militare è garantita per un terzo dalle donazioni americane.

Non sono certe, però, le modalità individuate dal futuro presidente per arrivare al cessate il fuoco. Sarebbe da escludersi che l’Ucraina venga totalmente disarmata e ufficialmente sconfitta: un simile scenario minerebbe la supremazia internazionale americana (già compromessa in seguito all’abbandono dell’Afghanistan nel 2021).

Secondo la stampa internazionale (tra cui il Financial Times e il Wall Street Journal), il Tycoon avrebbe pronto un piano di pace articolato in tre punti principali:

  1. Il congelamento del conflitto e la cessione del 20% del territorio ucraino alla Russia (inclusi Crimea, Donbas, l’area lungo il mare di Azov e parte della Zaporižžja);
  2. La creazione di una zona demilitarizzata di 1.000 chilometri, presidiata da truppe europee (con l’eventuale supporto logistico americano);
  3. La garanzia dell’indipendenza di Kyiv, che resterebbe fuori dalla NATO per i prossimi vent’anni ma continuerebbe a ricevere il sostegno militare statunitense, cosa che dovrebbe scoraggiare future aggressioni russe.

…e il prezzo della pace

Questo piano, se confermato, prevederebbe un coinvolgimento diretto dell’UE, le cui truppe da un lato garantirebbero una separazione dell’Ucraina dai due blocchi in perpetua guerra fredda, dall’altro caricherebbero l’intero costo dell’operazione sugli Stati europei; ma, soprattutto, spetterebbe proprio a noi trovare le risorse economiche per la ricostruzione del territorio ucraino devastato dai bombardamenti.

Quindi, la fine della guerra è già pronta per essere servita? In realtà, dobbiamo fare una basilare considerazione: gli Stati Uniti – ormai da ottant’anni – non sono disposti a rinunciare alla loro primazia.

La capitolazione di Kyiv comporterebbe un’importante limitazione alla deterrenza americana, in particolar modo nei confronti della minaccia cinese, da sempre additata da Trump come principale pericolo per gli USA.

E, proprio con l’obiettivo di alimentare l’intimidazione statunitense, il presidente non potrà evitare il fatto che Pechino osserva i risvolti in Ucraina per decidere come comportarsi con Taiwan.

Foto: Julia Demaree Nikhinson/AP.

Inoltre, Kyiv ha offerto agli USA un aumento dell’accesso alle proprie risorse naturali, contributo che fornirebbe al Presidente un’utile giustificazione elettorale per il sostegno statunitense a Zelens’kyj.

Putin, Zelens’kyj e il gabinetto di Trump

Per completare il quadro della situazione, che, a questo punto, sembra lasciare ampio margine all’imprevedibilità attribuita al Presidente, è interessante porre attenzione su altri due fattori: i rapporti che Donald Trump ha con Mosca e Kyiv, e l’entourage di ministri che ha nominato.

Per quanto riguarda i rapporti con la Russia, il ministro degli Esteri di Mosca ha dichiarato di non nutrire particolari aspettative sulla nuova presidenza americana: “L’élite politica al potere negli USA, indipendentemente dall’affiliazione di partito, aderisce ad atteggiamenti anti-russi e alla linea di contenimento di Mosca”; allo stesso tempo, il Cremlino si è detto disposto a lavorare con la nuova amministrazione, ma non a rinunciare ai propri obiettivi.

Sul versante ucraino, il presidente Zelens’kyj è stato uno dei primi leader a congratularsi per l’elezione di Trump, affermando che i due avevano già discusso a settembre per trattare la fine dell’aggressione russa (come dimostra l’offerta di Kyiv agli USA). Nondimeno, ricordiamo che il Tycoon ha etichettato il leader ucraino come “il miglior venditore del mondo” per essersi assicurato il sostegno di Washington, esprimendo un’aspra critica nei confronti del sostegno statunitense al Paese aggredito.

Guardando alle nomine del gabinetto Trump, possiamo notare che figure come Mike Waltz (nuovo consigliere alla sicurezza nazionale) e Marco Rubio (Segretario di Stato) hanno manifestato grande ostilità sia verso la Russia che verso la Cina, mentre JD Vance (Vicepresidente) è indirizzato verso la stipula di un accordo con il Cremlino; di conseguenza, anche gli equilibri nel Congresso sembrano incerti.

Alla luce della volontà di porre fine al conflitto e della necessità di mantenere salda l’immagine della potenza americana, possiamo ritenere che Trump adotterà una politica fondata sulla continuazione del supporto militare all’Ucraina, pur combinata con un maggiore impegno negoziale.

Palestina: un genocidio senza fine

Guardando al Medio Oriente, la situazione è molto più chiara.

Riguardo al conflitto tra Israele e Palestina, Trump ha dichiarato qualcosa di simile a quello che ha detto per l’Ucraina: vuole “mettere fine al conflitto e tornare alla pace”; “un ritorno alla pace attraverso la forza”, cosicché “la deterrenza americana sarà ripristinata”, come affermato dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump. Ancora una volta, però, non ha dato ulteriori spiegazioni circa le modalità individuate per perseguire tale proposito, e il Tycoon si è limitato a dire che Israele deve “finire ciò che ha iniziato”.

Che sia diventato un pacifista? No di certo: è evidente anche agli occhi della presidenza che le immagini del genocidio diffuse da Gaza in tutto il mondo stanno giorno dopo giorno facendo perdere il sostegno internazionale accordato a Israele. Soprattutto, Trump è particolarmente legato all’Arabia Saudita (seconda produzione mondiale di petrolio), che però è pericolosamente ostacolata nell’esercizio del proprio business proprio dalla guerra in Medio Oriente.

Perciò, Israele deve “sbarazzarsi velocemente” della questione palestinese, e nessuno deve “legargli le mani” (così Trump ha definito il tentativo di Biden di chiedere un cessate il fuoco, nel timore che Hamas ottenga tempo utile per riorganizzarsi).

Senza dubbio alcuno, Trump ha intenzione di accelerare i tempi del conflitto, che non vedrà, però, alcuna speranza di sollievo per la Palestina.

L’asse Washington–Tel Aviv

A sostegno della posizione del leader del partito repubblicano anche in questo caso possiamo considerare le relazioni che intercorrono tra Trump e Netanyahu, e le opinioni dei membri designati a comporre la sua amministrazione.

Il Premier israeliano ha riferito di aver fatto tre telefonate con Trump, poco prima delle elezioni, con l’obiettivo di “rafforzare ulteriormente” la già stretta alleanza tra USA e Israele. Alleanza molto cara anche per Marco Rubio e Mike Huckabee (ambasciatore USA in Israele), che non hanno mai nascosto la propria vicinanza a Tel Aviv, opponendosi a qualsiasi tipo di tregua o di soluzione a due Stati, così come Steven Witkoff (inviato speciale per il Medio Oriente) e Pete Hegseth (segretario alla Difesa), fermi sostenitori della politica filo-israeliana.

In seguito a quanto riportato, è evidente che la nuova presidenza Trump, pur non animata da un sentimento umanitario autentico, sia intenzionata a mantenere e rafforzare il dominio statunitense nel mondo, anche in riferimento alle guerre in Ucraina e Palestina; se questo comporterà anche una riduzione della spesa e del coinvolgimento militare, è tutta un’altra storia.

Federica Corso


Per approfondire le prospettive delle guerre in Ucraina e Palestina, ora che Trump sarà il nuovo presidente degli USA, leggi anche: La ‘nuova’ faccia dell’imperialismo – Il concetto di egemonia nel mondo contemporaneo di Matteo Minafra; Tempi di scelta a Occidente – Cosa comporterebbe la vittoria di Trump alle presidenziali? di Gabriele Cavalleri; Cos’è il Project 2025? – Una guida per i conservatori d’America di Matteo Minafra;

Ti potrebbero interessare
IntervistePolitica

Un mondo più a destra – Intervista a Piero Ignazi

Cronaca

Giustizia per l’eco guardiano di Sea Shepherd: Paul Watson è libero

Politica

Che aria tira a Washington DC? – La sTrumpalata di gennaio 2025

CronacaPolitica

Gisèle Pelicot: “condividiamo la stessa lotta”