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Andrea Colamedici e Lorenzo Gasparrini: come diventare uomini nuovissimi

Intervista Gasparrini Colamedici

Il 20 novembre, in occasione dell’incontro interattivo dal titolo “Ma cos’ho fatto? Percorso per diventare uomini nuovissimi”, tenuto da Andrea Colamedici e Lorenzo Gasparrini all’oratorio San Filippo Neri di Bologna, Alice La Morella e Gioele Marangotto hanno avuto l’opportunità di fare alcune domande ai due autori.


Andrea Colamedici è filosofo ed editore, co-fondatore di Tlon, scuola di filosofia, casa editrice e libreria teatro; Lorenzo Gasparrini è filosofo femminista e, dopo una breve carriera accademica, è passato alla formazione e alla scrittura su questioni di genere dedicate in particolare a un pubblico maschile.

I due autori hanno proposto un incontro interattivo dal titolo “Ma cos’ho fatto? Percorso per diventare uomini nuovissimi”, con l’obiettivo di smontare gli stereotipi che alimentano la disuguaglianza e la discriminazione di genere.

Intervista Gasparrini Colamedici
Andrea Colamedici e Lorenzo Gasparrini.

Questo percorso nasce dalla consapevolezza che gli uomini spesso non possiedono gli strumenti adatti per riconoscere il patriarcato e parlarne in maniera adeguata.


Gioele Marangotto: Lorenzo Gasparrini, ti occupi principalmente di questioni di genere e dell’analisi dei femminismi, con particolare attenzione a ciò che hanno da insegnare agli uomini. Ti definisci nello specifico un ‘filosofo femminista’, ma cosa significa in concreto?

Lorenzo Gasparrini: Io adopero questa espressione perché innanzitutto mi sembra giusto nominare quella tradizione e quel corpus di studi che è il punto di partenza da cui prendo le cose che poi trasformo in pratiche, in divulgazioni. Il nome per me vuol dire soprattutto questo.

E poi perché cerco di trasportare per il mio genere una serie di pratiche femministe che sono già state efficaci: autocoscienza, racconto di sé, pratiche di liberazione che ti insegnano a riconoscere quelle forme di oppressione che ti arrivano in quanto maschio. Questo per me è fare femminismo.

Capisco che non sia una definizione semplice da accettare, e infatti in alcuni luoghi e da alcune persone non è accettata. E, se c’è una storia dietro che motiva questa non accettazione, la capisco: alcuni femminismi, non per forza escludenti ma, per esempio, essenzialisti dicono che l’attributo ‘femminista’ riguarda solo chi effettivamente possieda l’organo femminile. 

Io dico che il mio nome è lì per questo, anche perché, se ne usassi un altro, mi sembrerebbe ancora più un abuso da parte mia: perché mi dovrei inventare un nome per una cosa che in realtà è poi sempre quella? Credo che, finché questo nome dà fastidio o solleva conflitti, sta funzionando, e quindi continuo a usarlo.

Chissà, forse un giorno non servirà più. Speriamo di arrivarci.


G.M.: Negli ultimi anni si sta facendo sempre più strada un tipo di femminismo che mira a superare i limiti e le criticità del binarismo di genere: basti pensare, ad esempio, al lavoro di filosofe come Judith Butler. Come si concilia il vostro tentativo di parlare agli uomini “in quanto uomini” con un orizzonte filosofico che prova a sradicare il valore delle differenze tra i generi e delle specificità maschili e femminili?

L.G.: Anche io, come Judith Butler, in un certo senso capisco benissimo che potremmo fare tranquillamente a meno della categoria sociale del genere. Il problema che vedo, però, è che per adesso il genere ha ancora un enorme valore per un numero grandissimo di persone.

Se potessi togliere questa categoria di mezzo con uno schiocco di dita, probabilmente creerei molti più problemi di quelli che forse posso provare a risolvere usandola in un altro modo.

Come Butler, parteggio per la sua sparizione, però per ora mi sembra più utile da utilizzare piuttosto che farla scomparire di punto in bianco: è più importante usarla e criticarla, puntando alla sua futura scomparsa.

La filosofa statunitense Judith Butler. Foto da: Wikipedia.

Alice La Morella: Sempre su questa scia, nel corso del vostro intervento avete citato a più riprese, senza però mai esplicitarlo, il concetto di intersezionalità. Come si colloca, quindi, il vostro ragionamento all’interno di un femminismo intersezionale, che considera tutti gli assi di oppressione su cui si costituisce la nostra società? 

L.G.: Il pensiero intersezionale è indispensabile per riconoscere una serie di assi nei quali agiscono diversi tipi di oppressione patriarcale. L’intersezionalità mi ha fatto capire non solo che il discorso fatto solo di due classi sociali è insufficiente: le classi sono diventate molte di più e l’asse intersezionale mi serve a capire che io faccio contemporaneamente parte di diverse classi.

Questa è un’enorme complicazione del quadro, però è indispensabile per capire come uomo di cosa soffro, quale forma di potere mi colpisce. Senza intersezionalità non posso capire dove il patriarcato di volta in volta si mostra, agisce e mi arriva addosso. Questo mi aiuta anche a capire in che modo il mio corpo può essere usato politicamente, non più solo come oppressore, non più solo come oppresso, ma come strumento di liberazione.

Andra Colamedici: Per me è importante considerare le discriminazioni in maniera adeguata. Siamo abituati a classificarle in maniera bidimensionale, collocandole sull’asse delle ascisse e delle ordinate. L’intersezionalità crea la tridimensionalità dell’oppressione, cioè crea un piano spaziale in cui ciò che sembra poggiato e vicino in realtà può essere lontanissimo.

In questo modo ti accorgi che le caratteristiche di un individuo a prima vista fanno pensare che le persone discriminate possano subire una pressione sociale e forme di oppressione identiche. In realtà, aggiungendo strati e interpretazioni, tu riesci a guardare le cose sotto una prospettiva molto più complessa. 

Da un lato tutto questo è sfiancante, perché ti accorgi di quanto sia difficile abitare il mondo facendosene un’idea sensata, perché tutto appare estremamente complicato e sembra che non si possa più parlare di niente. D’altra parte, però, se hai carità interpretativa e onestà intellettuale, riconosci realmente dove ti trovi, anche se sai di non poter definire con certezza quel punto nello spazio, visto che non è fisso.

L’intersezionalità, oltre ad essere un’aggiunta di dimensione, è anche una disposizione alla fluidità della posizione: magari domani noi ci accorgeremo che c’è una categoria d’oppressione che al momento ci sfugge o che semplicemente non siamo in grado di vedere all’interno del nostro privilegio e che tuttavia ci determina radicalmente.

Le dimensioni spaziali e temporali dell’intersezionalità ci fanno capire che la nostra condizione è mutevole: come quella di un satellite che orbita intorno alla Terra, che orbita a sua volta all’interno del sistema solare, il quale contemporaneamente ruota attorno al centro della galassia. Tutto questo è emozionante, rappresenta un’opportunità


G.M.: La dimensione temporale è molto interessante perché quando si parla di intersezionalità in genere si fa sempre riferimento alla metafora geometrica, che quindi esclude radicalmente il tempo. Invece è interessante vedere come quella temporale è una prospettiva che ci permette di tramutare in speranza quel senso di svilimento che ci assale nel riconoscere la miriade di oppressioni che ci circondano. 

A.C.: Sì è così. Noi siamo italiani e siamo involontariamente condizionati, fedeli o meno, dalla cultura cattolica. Di conseguenza siamo attraversati dal senso di colpa, che è quasi il nostro sesto senso. Questo fa sì che quando riconosciamo le strutture del potere, esse rappresentino per noi solo delle occasioni per colpevolizzarci. Consideriamo così il nostro attivismo e la nostra azione sociale come giunta a buon termine nel momento in cui riusciamo a riconoscerci abbastanza colpevoli del nostro ruolo nel mondo

È giusto sviluppare il senso di colpa, però poi il rischio è che ce lo facciamo bastare: diventa ciò che ci determina nel riconoscere che io non rientro nella categoria più privilegiata di tutte, c’è tanta gente che sta sotto di me. Invece che pensare a cosa posso fare concretamente per superare questa oppressione, il rischio è di farmi bastare questo senso di colpa che, se da una parte sfocia nella compassione, dall’altra rischia di trasformarsi in un senso di impotenza radicale. Io vengo costantemente esposto o esposta a una serie di riconoscimenti del dolore dell’altro che mi portano poi a sfibrare la mia capacità di provare compassione.

Perché in un mondo in cui nessuno è interessato all’altro, io che sviluppo una certa sensibilità di cura vengo bombardato da conflitti, da difficoltà, da ecoansia, da frustrazioni, dal fatto che vedo che c’è una nazione occupante che sta devastando una popolazione, la sta decimando, e che ci sono popolazioni native che si ritrovano costantemente a dover cedere il proprio potere, tanto negli Stati Uniti d’America, quanto in Nuova Zelanda e in mille altri posti del mondo.

E in tutto questo il rischio è che io perda la capacità di provare compassione ed empatia, perché la saturo. È una grossa fregatura questa qui, è una fregatura gigantesca. Io credo davvero che il femminismo intersezionale ci possa aiutare proprio ad entrare in un’ottica diversa: in primo luogo per esser coscienti del proprio privilegio; ma anche per sentire il fuoco, l’ardore e la rabbia. Se perdo la rabbia, se perdo il furore e mi faccio completamente pervadere dal senso di colpa, io faccio esattamente il gioco del potere. 


A.L.M.: Il senso di colpa metafisico del proprio privilegio è qualcosa di inutile se non si attiva avviando un processo di decostruzione. Questa è la convinzione da cui parte il vostro percorso, dalla presa di coscienza che è necessario smarcarsi dal sistema di credenze e dai condizionamenti culturali a cui siamo sottoposti, in primo luogo gli uomini. Tuttavia, molti potrebbero obiettare “sì, ma non tutti gli uomini”, tu cosa rispondi? 

A.C.: Questa obiezione è sempre incredibile, la prima domanda da farsi è: ma cosa non tutti gli uomini? Perché non tutti gli uomini uccidono, certo, non tutti gli uomini picchiano, certo, ma siamo sicuri che cominciare a domandarci se anche io dentro di me sono abitato da un desiderio di sopraffazione sia davvero un problema?

Nel momento in cui io sento che chi mi pone un quesito simile mi sta mancando di rispetto, io sicuramente un problema ce l’ho. Se la mia identità è così fragile da dipendere dal giudizio dell’altro, dalla domanda dell’altro, questo è un problema.

Per esempio, se io sono un poliziotto che ha un problema a indossare i caschi rosa, se basta un casco rosa per mettere in dubbio la mia virilità, la mia identità, evidentemente sono fragilissimo.


A.L.M.: Qualche mese fa, dialogando con Maura Gancitano sul tema dell’intersezionalità, un punto su cui ci siamo concentrati è il fatto che tra gli assi di oppressione della nostra società rientrino anche la diversità e fragilità emotiva, che molto spesso è causa di esclusione e alienazione sociale. 

A.C.: Certo, un altro asse abusato w ancora poco discusso, se non in alcuni specifici settori, è quello delle neurodivergenze. È importante parlarne, ma è allo stesso tempo un tema molto delicato, proprio per il discorso di quanto sia cruciale oggi fare advocacy ma di quanto al contempo sia pericoloso identificarsi esclusivamente in uno di questi tasselli.

È bene farsi portatori di determinate tematiche, soprattutto se si subiscono in prima persona, però c’è poi il grosso pericolo di cercare qualcosa che determini la propria identità. Il rischio è quello di fare delle politiche identitarie che sfruttino una tua dinamica personale, per posizionarti nell’oppressione.

Sebbene io abbia delle caratteristiche che possono essere figlie dell’oppressione, che possano essere utilizzabili contro di me, bisogna stare attenti perché molto spesso determinate caratteristiche vengono cavalcate semplicemente per dire: “no, io non sono un maschio etero bianco, io sono anche…”.


A.L.M.: Se la parola patriarcato fa paura, la parola intersezionalità per alcune persone è un incubo. Spesso questo approccio viene confuso, e diventa un po’ un’olimpiade dell’oppressione, una gara a chi ne ha di più. E invece non ci si rende conto che l’intersezionalità è una lente attraverso cui leggere la realtà sociale che ci circonda.

L.G.: Creare una gerarchia tra i problemi è patriarcale, perché significa sacrificare qualcuno, ammettere che c’è chi può soffrire un altro po’. 

A.C.: Anche perché il punto è proprio quale meccanismo utilizzi per fare questo conteggio. Inevitabilmente, si tratterà sempre di un meccanismo soggettivo, calato in un contesto storico specifico. Quindi, quell’oppressione specifica, che noi adesso siamo in grado di cogliere, tra tre anni sarà completamente diversa. Ci vuole carità interpretativa per comprende questi spostamenti.

Alice La Morella e Gioele Marangotto (con la collaborazione di Davide Lamandini e Vittoria Ronchi)

(In copertina Andrea Colamedici e Lorenzo Gasparrini, dal sito ufficiale di Mismaonda)


L’intervista ad Andrea Colamedici e a Lorenzo Gasparrini è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio San Filippo Neri e Mismaonda.

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