È passato un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin, che sembrava aver determinato una presa di coscienza collettiva rispetto al problema della violenza di genere. Il 25 novembre è sempre un momento di bilanci, oltre che di lotta: a distanza di un anno, cosa è cambiato?
La riforma del Codice Rosso
All’indomani della morte di Giulia Cecchettin, il Parlamento ha approvato all’unanimità la legge 168 del 2023, volta a modificare le disposizioni del Codice rosso. Quest’ultimo è un pacchetto di norme, introdotto nel 2019, finalizzato al contrasto della violenza di genere. Ricomprende, ad esempio, il reato di revenge porn, ossia la diffusione non consensuale di immagini o video sessualmente espliciti, e quello di deformazione dell’aspetto mediante lesioni permanenti, pensato per i casi di donne sfigurate dall’acido.
L’intervento del 2023 ha lo scopo di velocizzare i procedimenti, rendere più efficienti le misure di prevenzione e aumentare le pene per una serie di reati.
Le maggioranze parlamentari, di tutti i colori politici, hanno sempre utilizzato l’intervento della legge penale con la finalità di un ritorno in termini elettorali. Si tratta di uno strumento molto vendibile agli occhi dei cittadini, che trasmette l’idea che ci si occupi dei problemi con serietà, con il pugno di ferro; sono leggi a costo zero, almeno apparentemente, perché della sostenibilità del sistema penitenziario nessuno parla.
Quindi, se una ragazza viene uccisa dall’ex fidanzato ventenne, la soluzione è innalzare la pena per lo stupro di gruppo, così si può rivendicare di essersi occupati della violenza di genere: la gente, forse, smetterà di dire che quando le donne denunciano nessuno le protegge.
Il diritto penale è la soluzione?
Nel corso delle legislature, in Parlamento, sono state istituite delle commissioni d’inchiesta, mono o bicamerali, per indagare sulla violenza di genere. Nella relazione finale della commissione del 2022 si legge che si tratta di “un fenomeno sociale di carattere strutturale, con radici culturali profonde che ancora oggi permeano le relazioni tra uomini e donne, alimentato e determinato dalla disparità nei rapporti di forza tra i due sessi, e che perciò richiede una risposta forte e chiara dalla politica”.
L’elemento di criticità è proprio qui: i problemi di matrice culturale o socio-economica non si risolvono con l’intervento penale. Per fare un’analogia: è come volersi occupare della criminalità giovanile riempiendo gli istituti minorili e raccontandosi che, usciti da lì, quei ragazzi saranno meglio di come sono entrati.
Stare nella complessità del fenomeno significa dirsi che non c’è uno strumento risolutivo e immediato: non è sostenibile pensare che, ad ogni donna che denuncia dei maltrattamenti, si possa prelevare l’uomo maltrattante e restringerne la libertà sine die perché potenzialmente pericoloso.
Non è sostenibile perché il diritto penale interviene dentro dei limiti costituzionali, che hanno una funzione di garanzia che deve operare per tutti; ma non lo è soprattutto perché non è risolutivo: quando un problema è culturale, ce lo portiamo dietro tutti, come un fardello di cui dobbiamo assumerci la responsabilità.
Educare alle relazioni
Contestualmente all’intervento legislativo del novembre 2023, era stata formalizzata l’iniziativa “Educare alle relazioni” del Ministero dell’Istruzione e del Merito. Si trattava di un progetto che prevedeva delle attività extracurriculari nelle scuole, con la partecipazione di insegnanti, educatori e pedagogisti, volte a trasmettere a ragazzi e ragazze il rispetto reciproco e gli strumenti per affrontare problemi relazionali ed emotivi. La previsione era quella di un’ora facoltativa a settimana solo per le scuole superiori, per tre mesi all’anno.
A coordinamento del progetto, che doveva essere in linea con quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul, era stato posto Alessandro Amadori, autore di libri in cui propone tesi negazioniste della violenza di genere. A distanza di un anno, questa iniziativa non è mai andata in porto – e forse è meglio così.
In compenso, lo scorso settembre la Commissione Cultura della Camera aveva approvato la mozione a firma di Rossano Sasso, che ha lo scopo di vietare “l’ideologia gender”, sostenendo che l’educazione all’affettività nelle scuole è una forma di indottrinamento delle giovani menti.
Ignoranza o malafede?
L’Italia continua ad essere uno dei pochi Paesi europei a non avere una legge nazionale che disciplini l’educazione all’affettività nelle scuole. Mi chiedo, dunque, se le proposte avanzate siano frutto di una mancata conoscenza del fenomeno, oppure se si menta sapendo di mentire.
Ad esempio, quando il Ministro Valditara dice che il patriarcato, come fenomeno giuridico, è finito con la Riforma del diritto famiglia del 1975, mente sapendo di mentire? Fatico a pensare a qualcosa di più atavico della repressione e della violenza contro le soggettività femminili, ma il ministro ci dice che sono rischi nuovi, in aumento a causa dei migranti, che non conoscono i fondamenti della nostra carta costituzionale.
Alla luce di tutti questi elementi, non posso che vedere, in queste forze politiche, una postura smaccatamente ideologica, improntata ad un conservatorismo spinto, volta a fare in modo che tutto rimanga uguale a sé stesso.
E noi, che cosa possiamo fare?
È necessario cambiare la prospettiva, spostare lo sguardo dal carcere come strumento di risoluzione e iniziare a pensare a percorsi educativi strutturali: un uomo violento, uscito dal carcere – che non sa assolvere la sua funzione di risocializzazione –, continua ad essere un uomo violento.
Nei mesi scorsi si era parlato dell’esperienza di un ragazzo di Pordenone, il quale si era rivolto all’associazione Istrice, che si occupa di uomini maltrattanti, perché temeva di percorrere le stesse orme di Filippo Turetta. Dal 2017 al 2022 i Cuav, Centri per uomini autori di violenza, sono raddoppiati, e ogni anno migliaia di uomini vi si rivolgono.
Dunque, è possibile guardare in questa direzione? Un primo passo potrebbe essere quello di porre delle basi condivise: educare i giovani uomini all’idea che chiedere aiuto non li rende deboli; smettere di iper-responsabilizzare le donne vittime di violenza; e prendere coscienza come collettività di un problema strutturale.
Quando si assume il fatto che la cultura patriarcale è tentacolare perché tocca molteplici aspetti della realtà, e che il femminicidio è l’esito più tragico di una piramide di violenza, appare chiaro che degli interventi contingenti non ce ne facciamo nulla.
Tuttavia, parlare di quanto il sistema sia oppressivo anche per gli uomini, di finanziamenti ai Centri Antiviolenza e di percorsi pubblici di sensibilizzazione ed educazione non è spendibile a livello elettorale perché non solletica l’istinto punitivo che abita in ognuno di noi.
Sara Nizza
(In copertina, foto di Open)