È uscito in tutte le sale cinematografiche il nuovo film biografico “Berlinguer – La grande ambizione” di Andrea Segre. Prova decisamente riuscita per il regista, così come per Elio Germano, che ha recitato nei panni del leader comunista. Il film porta a riflettere sulla tematica della via italiana al socialismo, intrecciando il percorso politico di Berlinguer negli anni del compromesso storico con il suo vissuto personale.
C’era grande attesa per Berlinguer – La grande ambizione, la nuova pellicola di Andrea Segre, e il regista (oltre che sceneggiatore, insieme a Marco Pettenello) ha pienamente soddisfatto le aspettative. Il film, infatti, opera un’attenta e precisa ricostruzione storica dei fatti. In tal senso, risulta efficace grazie alla magistrale prova di Elio Germano: l’attore, non a caso, ha anche vinto il premio di miglior attore alla Festa del cinema di Roma, dove il film, peraltro, ha aperto l’evento.
Germano, però, durante la premiazione, dopo aver ringraziato, ha detto che il suo film è corale e che tutto il cast avrebbe meritato un premio. Poi, ha letto una frase di Enrico Berlinguer che ben risponde alla disillusione delle nuove generazioni nella politica: “Se i giovani si impadroniscono di ogni ramo del sapere e si organizzano e lottano al fianco dei lavoratori, degli sfruttati, degli operai non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia”.
Una dichiarazione, questa, che è un inno a temi ampiamente protagonisti nel film, quali la partecipazione politica collettiva e l’idea di una cittadinanza attiva, non prona di fronte alle difficoltà portate dalla Storia. Infatti, uniti, nonostante le più ardue difficoltà, è possibile cambiare il mondo.
Un film storicamente perfetto
L’attendibilità storica del film, di cui sopra, si deve anche al sapiente montaggio di Jacopo Quadri. La pellicola, infatti, è ricca di video d’archivio che si alternano alle immagini costruite in studio. Ciò, d’altronde, non sorprende, vista la formazione di Segre con il linguaggio del documentario. La pellicola, dunque, ripercorre diacronicamente e in modo preciso il periodo tra il 1973 e il 1978, senza scadere nell’agiografia facile o nella propaganda nostalgica.
Alle volte, addirittura, il film sembra quasi didascalico, tra dialoghi molto nozionistici e, soprattutto, un minuzioso uso delle didascalie. Il risultato, però, non è un noioso e saccente sceneggiato, quanto semmai un’opera che coniuga intrattenimento e informazione. Inoltre, pur senza particolari picchi di tensione, la pellicola coinvolge nella storia anche qualora si conoscano già i fatti.
Menzione di merito anche a Elio Germano: è evidente che l’attore protagonista ha compiuto un attento studio della comunicazione verbale e paraverbale di Berlinguer. Le movenze e gli atteggiamenti, così come l’impostazione della voce, sono infatti molto simili a quelli del leader comunista. Oltre a questo, però, Germano riesce nell’impresa di renderlo vicino al pubblico, con un’umanità che trascende ogni possibile macchiettismo.
Il rinnovamento del PCI e il compromesso storico
Per l’analisi del macrotema del film bisogna partire dal 1972. Quest’anno, infatti, segna uno spartiacque per la storia politica italiana. Enrico Berlinguer è appena diventato segretario generale del PCI (Partito Comunista Italiano), che sta cercando di rinnovare.
La sua intenzione, infatti, è svincolarsi dall’Unione Sovietica, da sempre regista dietro alle quinte del partito. L’obiettivo alternativo è quello di cercare una via europea al comunismo (l’eurocomunismo), basata sul dialogo pacifico con le opposizioni e sul rafforzamento della democrazia, ormai sempre più in crisi.
Proprio in quest’ottica, il segretario comunista comincia a intessere rapporti con il democristiano Aldo Moro, che con lui condivide una forte attenzione per le sempre più esacerbate disparità sociali. Proprio da quest’humus nasce l’idea del compromesso storico, volto a creare una forte alleanza tra democristiani e comunisti (sempre più in crescita alle elezioni).
Il progetto sembra essere vicino al suo compimento, ma sarà la violenta ondata terroristica degli anni Settanta a fermarlo sul nascere: con il rapimento di Aldo Moro del 16 maggio 1978, infatti, l’ipotesi del compromesso storico tramonta del tutto, mentre si allungano sempre di più le ombre della crisi del sistema democratico.
Tornando indietro di cinque anni, nel 1973 avviene il golpe di Pinochet, che porta alla morte del presidente socialista Salvador Allende. Il film si apre proprio con le immagini idi questo tragico evento ed è in questo momento che Berlinguer capisce che è tempo di attuare il progetto del compromesso storico in ottica antifascista.
Per farlo, naturalmente, si rende necessaria la rottura delle logiche del bipolarismo tipiche della guerra fredda. L’idea di promuovere la libertà democratica, inoltre, è anche frutto di un lento processo di erosione del rapporto con il “Sol dell’Avvenire” russo.
Come spiega Enrico Barbagallo nel suo saggio Enrico Berlinguer (Carocci, 2006), se il 1956 aveva profondamente disilluso il mondo comunista (soprattutto gli intellettuali) – tra l’invasione dei carrarmati sovietici a Budapest e la rivelazione dei crimini di Stalin –, la primavera di Praga del 1968 segna la maturazione completa dell’idea della “via italiana al socialismo”.
Lo “strappo con Mosca”: due strade opposte per il sogno socialista
Tema centrale nella prima parte è proprio il rapporto sempre più travagliato tra il PCI e il PCUS (Partito Comunista Sovietico). Nel 1973 Berlinguer, in un viaggio in Bulgaria, discute la sua idea alternativa di socialismo con il presidente (e capo del partito comunista bulgaro) Zivkov (Svetoslav Dobrev). Questi, al contrario del leader del PCI, si rivela ostile al progetto berlingueriano e, in aggiunta, parla con durezza senza nemmeno guardare negli occhi il suo interlocutore (che, al contrario, prende appunti con umile attenzione).
Al termine dell’incontro, segue la scena del (presunto) attentato a Berlinguer, probabilmente ordito dal KGB e dai servizi segreti bulgari. Al ritorno in aeroporto, infatti, un camion militare aggira il blocco della polizia – posto per ordinare l’alt ai veicoli – e si scontra con la vettura dove viaggia il leader italiano. L’incidente provoca tre feriti (Berlinguer e due dirigenti bulgari) e la morte dell’interprete che aveva mediato tra il segretario del PCI e Zivkov.
Come spiega Barbagallo nel saggio citato in precedenza, diciotto anni dopo diverse voci – tra cui quella dei due dirigenti bulgari – si sono espresse a favore della tesi dell’attentato, per cui a riguardo non c’è «nessuna prova, come del resto impossibile in questi casi, ma moltissimi indizi» (cfr. pp.186-187).
Il film mette poi in chiara evidenza le due posture opposte di Berlinguer rispetto al modo di intendere il socialismo. Se è entusiasta e accorato quando parla della “via italiana” con i figli o ai comizi con la base, in Russia, al XV Congresso del PCUS, appare poco coinvolto negli applausi a scena aperta per i discorsi dei segretari comunisti filo-Breznev.
La geometrica e gelida disposizione degli spazi al Congresso, inoltre, fa da cornice al discorso di Berlinguer. Il leader del PCI ha solo sette minuti per il suo discorso, che è il meno gradito della giornata, con appena cinque secondi di applauso. Una scena emblematica, che segna la distanza di due mondi diversi, oltre che la fine del rapporto tra Mosca e il PCI.
Moro e Andreotti: i due volti della DC negli anni del compromesso storico
Nella seconda parte del film, invece, il protagonista è senza ombra di dubbio il tema del compromesso storico. L’accordo è reso possibile dall’improvvisa crescita del PCI (nel 1976 un terzo degli italiani vota comunista) e dalla contestuale apertura dei morotei (corrente della DC più progressista) all’ipotesi di un’alleanza. A fare da contraltare a queste spinte c’è invece la corrente molto conservatrice di Giulio Andreotti (Paolo Pierobon).
Come spiega il sesto episodio del podcast Qui si fa l’Italia, negli ambienti democristiani, dopo la vittoria del “no” al referendum sul divorzio del 1974, si avverte un cambiamento di tendenza. Per questo motivo si inizia a parlare, non a caso, di “voto di convenienza” in ottica anticomunista ed è qui che Montanelli conia l’espressione “votare turandosi il naso”.
Le elezioni, alla fine, sono vinte dai democristiani per soli quattro punti percentuali. Nel 1978, di conseguenza, Andreotti presiede il “governo della non sfiducia”, sostenuto dall’esterno grazie all’astensione comunista.
Questa è frutto di un accordo con Andreotti, trovato in una riunione a cui il film dedica una scena. Guardandola è evidente la tensione palpabile, espressione di due posizioni inconciliabili: l’anticomunismo ferreo del democristiano e l’inflessibilità di Berlinguer, che non vuole che il PCI accetti un compromesso svantaggioso per i lavoratori italiani.
Ben diverso, invece, è l’approccio di Aldo Moro. Roberto Citran, che lo interpreta, con un volto disteso – del tutto diverso da quello granitico e ambiguo di Andreotti – rende giustizia a un politico (e uomo) aperto al dialogo.
Lo stesso che dall’inizio del film, in sporadiche e brevi scene, appare silenzioso nel suo studio, mentre ascolta i discorsi di Berlinguer. Nel farlo ha un’aria rispettosa, forse anche di stima: l’atteggiamento di chi, coraggiosamente, deciderà di far entrare i comunisti al Governo per la prima volta (anche se senza successo, visti gli sviluppi successivi).
Enrico: un uomo, tra famiglia…
La pellicola di Segre convince fin dai primi minuti per la piacevole gestione dell’alternanza tra i momenti della carriera politica di Berlinguer e le scene di famiglia. I tratti della personalità del leader comunista, premuroso ed empatico con figli e moglie – al netto dell’autorimprovero sul finale, nel quale Berlinguer afferma che sarebbe potuto essere più presente –, sono ben delineati.
In tal senso, fondamentale per gli sceneggiatori è stato il contributo delle consulenze con i figli Bianca, Laura, Maria e Marco Berlinguer, grazie ai quali lo spettatore ha la possibilità di assistere a inedite e intime conversazioni, caratterizzate da una grande profondità.
Inoltre, nella scena in cui Berlinguer rimprovera una delle figlie nel momento in cui lancia con rabbia una pallina di carta a Marco (o quando quest’ultimo indirizza un “vaffanculo” alla Democrazia Cristiana) emerge, forse, l’insegnamento del padre sulla non violenza. I figli di Berlinguer, quindi, crescono con i medesimi ideali politici paterni – lo si vede sempre di più nei frequenti dibattiti a tavola sull’attualità – ma, prima di tutto, con valori umani ben definiti.
Una nota di merito, in aggiunta, la merita a pieno titolo la scena del ritrovamento della banconota conservata nel libro L’accumulazione del capitale (1913) di Rosa Luxemburg. La scena, innanzitutto, mostra una brillante ironia, che collega il titolo del saggio alla tecnica di risparmio di Berlinguer (“una tradizione sassarese”). In secondo luogo, regala allo spettatore una risata ben gradita nel mezzo di una narrazione ricolma di estenuanti trattative e tensioni politiche crescenti.
…e politica
Il carattere di Enrico, empatico e al contempo autorevole, emerge anche nei momenti di gestione del suo partito. Pur essendo una persona riservata, semplice nei modi di fare, nel vestiario e nel modo di guardare gli altri, Berlinguer guida le riunioni con tono fermo ma rassicurante. Il leader, infatti, pensa sempre a motivare i compagni e, se necessario, a strappar loro un sorriso.
Questo, ad esempio, si vede in quelle scene in cui con grande entusiasmo sottolinea i successi elettorali nelle varie regioni: di simili risultati, fa capire il leader, devono andare fieri tutti, in quanto il PCI, prima di tutto, è un collettivo.
L’ascolto attivo e l’umanità del politico, inoltre, non vengono meno neanche quando incontra gli operai delle fabbriche e la base di partito. I “bagni di folla” (diffusissimi nel film) e le occasioni di scambio con gli ultimi, infatti, non sono atti di mero populismo o ipocriti rituali. Al contrario, si tratta di concrete occasioni di arricchimento volute esplicitamente da Berlinguer, anche, talvolta, contro le indicazioni dei compagni di partito.
Le scene di vita privata del leader, quindi, si intrecciano perfettamente con il suo trascorso politico. Comuni, infatti, sono l’ascolto e, al contempo, una certa decisione nel far valere le proprie posizioni, anche al cospetto dei democristiani o degli algidi dirigenti sovietici.
Emblematica, in tal senso, è la scena in cui con il protagonista, parlando con Moro della “non sfiducia” ad Andreotti, cita Gramsci:
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.
Un finale non scontato
La scena del malore fatale di Berlinguer sul palco di Padova è ben nota, carica di pathos e perfetta cinematograficamente. Eppure Segre, con grande originalità, non indugia sui particolari morbosi del momento tragico. Allo stesso modo, non ha intenzione di ricostruire gli ultimi quattro giorni di agonia del leader comunista (tema peraltro già trattato in un documentario di Sky).
Il regista, fino all’ultimo, non tradisce l’intenzione di dare risalto a una parte specifica della vita politica di Berlinguer, ovvero quella del compromesso storico: quando il sogno di realizzarlo finisce (con la morte di Aldo Moro), lo stesso fa anche il film, chiudendo la cornice narrativa.
La lettera finale di Berlinguer (per l’anniversario con la moglie), d’altro canto, basta per concludere con un’ultima pennellata il ritratto del leader: un uomo votato al bene, amato e di successo che, tuttavia, sa mettersi in discussione. L’uomo, infatti, al netto di quanto visto nel film, afferma che sarebbe potuto essere un padre e un marito migliore.
Il pensiero, di una premura e di una delicatezza unica, è ancora più emozionante se si pensa al momento in cui viene concepito: il ritrovamento del corpo di Moro, infatti, ha appena cambiato radicalmente la vita politica e umana del segretario comunista.
Degli eventi successivi viene riportato invece solo un riassunto sintetico, accompagnato dalle immagini fornite dalla documentazione d’archivio. L’11 giugno 1984 Berlinguer muore, poco dopo l’ultima visita di Sandro Pertini in ospedale. Una folla sconfinata (da un milione e mezzo di persone) accoglie la processione funebre dei giorni seguenti, a testimonianza di quanto Enrico Berlinguer fosse amato: gran parte del nostro Paese, infatti, lo rispettava come uomo e politico rivoluzionario, nelle idee e nel modo di intendere il suo ruolo.
Alle elezioni europee dello stesso anno, non a caso, vincerà il PCI, superando per la prima volta la DC e realizzando quel sogno che Enrico, in vita, aveva perseguito per tanti anni.
L’eredità politica lasciata dalla figura di Berlinguer
Il funerale di Berlinguer è lo specchio di cosa fu la politica italiana in quegli anni: una lotta convinta per i propri ideali, prima di tutto. Il film con le sue emozionanti scene corali restituisce perfettamente quest’aspetto. Fondamentale, in tal senso, è sicuramente anche l’ottima colonna sonora di Iosonouncane, che accompagna le scene in modo piuttosto efficace (ne è prova, più di tutte, la traccia che accompagna le scene dei funerali).
Al termine della visione si rimane emozionati e, contemporaneamente, sorge in modo del tutto naturale una riflessione: cos’è cambiato rispetto ai tempi di Berlinguer? Oltre ai partiti, ancora prima, probabilmente è cambiata la mentalità di fondo, il modo con cui si intende la politica: prima (come società) eravamo protagonisti; ora, nella maggior parte dei casi, siamo individualità disilluse, pessimiste nei confronti del futuro e poco convinte di poter cambiare il presente.
La lezione di Berlinguer, tuttavia, ci insegna che forse alcuni valori universali sono comuni in ogni epoca. Per esempio, l’etica nel fare politica, abbandonando le velleità di potere per il bene collettivo. Un concetto ribadito da Berlinguer anche ai suoi familiari, quando spiega loro che se venisse rapito come Moro vorrebbe, per sé, la scelta della fermezza, in modo da non indebolire la democrazia:
Questa è la mia scelta di uomo libero, che vi prego di ricordare soprattutto se, in un qualche momento, dovessi chiedervi di fare altro.
“La grande ambizione” per noi cittadini
A noi cittadini, invece, la finestra di Segre su quell’Italia tanto viva ed entusiasta può invitarci a sognare di nuovo o, per lo meno, a riprovarci. Il Paese, ai tempi di Berlinguer, forse non era tanto diverso da quello di oggi.
I cambiamenti sociali in atto lo stavano rendendo più progressista ma, in ogni caso, riuscire a portare il PCI al 35% era un risultato inimmaginabile. Eppure è successo, proprio grazie a un’ambizione collettiva convinta (e condivisa da partito e base): quella di poter cambiare l’inerzia della Storia.
Ideali come democrazia, uguaglianza, pace e giustizia, d’altronde, non sono un fatto naturale e non devono rimanere solo una stanca retorica. Per restare in vita ed essere applicati concretamente necessitano di individui determinati e volenterosi di votarsi a una causa comune, con sacrifici e fatica. Solo così sarà possibile sperare in una società più giusta. E, solo così, improvvisamente, questa “grande ambizione” apparirà come un sogno realizzabile.
Martino Giannone
(In copertina, immagine di MyMovies)