Si avvicina il 4 novembre, giorno delle elezioni presidenziali in cui Donald Trump e Kamala Harris si sfideranno. La data rappresenta un appuntamento importante non solo per gli equilibri internazionali (leggi Israele e Ucraina), ma anche per sancire lo stato di salute della democrazia, minacciata dai populismi e dallo spettro della guerra.
L’anno politico 2024 è stato presentato sin da subito come un’occasione per testare la salute democratica del pianeta. Elezioni importanti si sono svolte in tutti i continenti, partendo da Taiwan e passando per la Russia, l’India e l’Unione Europea.
Tutti eventi attesi, che in alcuni casi hanno stupito, in altri hanno confermato le aspettative. L’appuntamento elettorale più atteso dell’anno, però, è sempre stato solo uno: le elezioni presidenziali del 4 novembre negli Stati Uniti d’America.
Una storia di tensioni democratiche
La corsa alle presidenziali statunitensi è, da sempre, un processo imponente, sotto ogni punto di vista: popolazione, superfici da percorrere, quantità di denaro immessa nel sistema elettorale.
Le elezioni americane, sotto certi aspetti, presentano grandi differenze rispetto al modello europeo, che troppo spesso è stato caratterizzato da un parlamentarismo inefficiente e da tragiche fasi autoritarie: ne sanno qualcosa l’Italia, la Germania e la Russia – ma anche in Portogallo, Spagna e Francia.
La storia degli Stati Uniti è diversa: il sistema elettorale è per gran parte lo stesso che elesse come primo presidente George Washington nel 1789, mentre il sistema politico si è quasi da sempre fondato sull’alternanza tra partito repubblicano e partito democratico, che nel tempo si sono scambiati più volte il ruolo di occupare spazi progressisti e spazi conservatori.
Questa grande nazione ha vissuto tempi di forte rottura. Il primo fu la Guerra (civile) di secessione a metà dell’Ottocento; il secondo fu determinato dalle tensioni legate all’Apartheid e al civil rights movement nel secondo dopoguerra.
In entrambi i casi, però, si è arrivati ad una soluzione ‘positiva’, capace di valorizzare e recuperare le tradizioni democratiche che erano sembrate a rischio. È importante ricordare che queste ‘tensioni’ non nascono a caso, ma sono sempre l’espressione di una necessità di rielaborare le scelte dei cittadini in campo sociale.
La Guerra di secessione servì per porre fine alle contraddizioni rimaste dopo l’unità e l’indipendenza; la fase di proteste del dopoguerra, invece, poté estendere a tutta la popolazione le promesse di libertà e uguaglianza di cui si gloriava la propaganda statunitense.
Il fallimento del partito repubblicano
Nel ventunesimo secolo, e più spiccatamente a partire dall’elezione di Donald Trump alle presidenziali del 2016, è diventato chiaro che fosse necessario al paese un nuovo momento di scontro per scegliere il proprio destino.
Le radici di questo conflitto vanno cercate negli anni successivi alla fine della Guerra fredda, quando gli americani coltivarono l’effimera speranza di aver vinto lo scontro ideologico decisivo in tutto il mondo.
Molti credettero che il futuro riserbasse ormai un progresso infinito, e i filosofi si spinsero a teorizzare addirittura la «fine della storia». Questo sogno, però, è subito caduto in frantumi per effetto delle guerre in Medio Oriente. Ed è proprio da qui che nasce la possibilità per Trump di diventare presidente dello stato più importante al mondo.
Le campagne militari dell’amministrazione Bush, repubblicano, hanno dimostrato al mondo e al popolo americano che l’attacco alle Torri gemelle aveva accecato la classe dirigente americana, divisa tra il desiderio di vendetta e il trauma di una superpotenza che non era più tale.
Per via di questa débâcle dell’amministrazione Bush, il partito democratico governò negli otto anni successivi grazie al carismatico presidente Obama.
Non è un caso che i due candidati repubblicani che Obama dovette sfidare, John McCain nel 2008 e Mitt Romney nel 2012, siano stati grandi oppositori di Trump: rappresentano infatti il vecchio establishment del partito, che Trump negli ultimi anni ha completamente annichilito. Solo così, con la sua rivoluzione populista, il Tycoon è riuscito a indirizzare gli ultimi otto anni della politica americana.
Le nuove paure, e Trump alle presidenziali
Donald J. Trump ha rivoluzionato la politica americana – e non si tratta di un’esagerazione. Ha saputo sfruttare un momento di crisi del partito repubblicano, che con la solita formula di centro-destra moderato internamente e imperialista esternamente non vinceva più.
Trump e i suoi alleati sono infatti completamente speculari a quel paradigma: portano avanti un conservatorismo estremo sia nei metodi che negli obiettivi, e sono pronti a dimenticare la maggior parte delle pretese estere americane, proponendo un neo-isolazionismo che ricorda quello vissuto dagli Stati Uniti tra le due Guerre mondiali.
Parte di queste politiche sono state già accolte dal partito democratico che, per quanto voglia mostrarsi ligio alla sua recente tradizione con la continuità Harris-Biden-Obama, ha in realtà confermato e implementato il percorso solcato da Trump: economia protezionistica, guerra dei dazi e progressivo abbandono degli impegni americani all’estero per concentrarsi sulla sfida nel Pacifico.
È importante capire che il nucleo della rivoluzione trumpiana non stia tanto nella politica economica o estera, quanto nell’idea stessa di democrazia e politica. La vittoria di Trump confermerebbe una concezione tribale dei partiti, ben più pericolosa del populismo nato in Europa nei primi anni ‘90 e che in Italia abbiamo conosciuto con Berlusconi.
Il vero cambiamento sarà quindi una grande sfida alla tenuta democratica sia degli Stati Uniti, dove ormai gli elettori di un partito non riescono più a considerare come accettabile il governo di un opposto, sia dell’Europa, dove le formazioni politiche populiste e autoritarie acquisirebbero un grandissimo slancio.
Gabriele Cavalleri
(In copertina Trump vs Harris da Novus)
Tempi di scelta a Occidente – Cosa comporterebbe la vittoria di Trump alle presidenziali? è un articolo di Gabriele Cavalleri sulle elezioni presidenziali 2024. Clicca qui per leggere anche l’articolo di Riccardo Minichella!