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Michele Cortelazzo e la lingua della neopolitica: come parlano i nostri politici?


Michele Cortelazzo, Professore emerito di Linguistica italiana all’Università di Padova e Accademico della Crusca, vince il Premio Pavese 2024, sezione saggistica, con “La lingua della neopolitica” (Treccani, 2024). Che lingua parlano i nostri politici? Quali nuovi mezzi utilizzano oggi?


Politichese, gentese o… altro?

La lingua della neopolitica, come riporta lo stesso Cortelazzo, nasce dall’osservazione dei frequenti cambi di schieramento di molti politici italiani, e di quell’attività che viene definita dalla Treccani menevadismo, ossia l’“atteggiamento di chi per protesta abbandona o dichiara di voler abbandonare la scena pubblica che frequenta o di cui fa parte” (qui la voce della Treccani).

Da qui, l’autore ha dato vita alla rubrica giornalistica Le parole della neopolitica (Treccani Magazine) in cui ha raccolto i termini più adatti a comprendere lo sviluppo contemporaneo della politica italiana e del suo linguaggio.

Il biennio 1992-1994 ha infatti distinto le due fasi della storia della Repubblica italiana, ma è stato anche uno spartiacque importante per quanto riguarda la lingua dei politici italiani; una lingua che risulta polarizzata e divisa in due correnti: da una parte il politichese, un linguaggio calato dall’alto, ipercomplesso, macchinoso e spesso oscuro, adottato sia in Parlamento (cioè a livello istituzionale) che nei comizi di piazza; dall’altra parte il gentese, una lingua più colloquiale e concreta, scelta spesso durante i talk show che cerca di porsi in maniera ‘rispecchiata’, ovvero sempre più vicina al linguaggio (vero o presunto) dell’elettorato.

Quindi, sorge spontaneo chiedersi: che lingua parla oggi la politica? Siamo ancora nell’era del politichese e del gentese o siamo passati a una fase successiva?

Michele Cortelazzo La lingua della neopolitica.
Copertina di La lingua della neopolitica di Michele Cortelazzo.

Vaghezza e ambiguità: i primi tratti della (neo)lingua politica

Sicuramente complice la composizione di un nuovo ceto politico, il linguaggio politico odierno è diventato sempre più spettacolarizzato e personalizzato, a causa dell’avvento di internet e in particolare dell’utilizzo sempre più massivo di blog e social network.

Cortelazzo riconosce in primo luogo l’impiego di parole di uso non comune, come ‘esternalizzazione’, di origine europea (o europeista) adottata soprattutto da Elly Schlein per riferirsi al controllo e alla gestione dei migranti.

Poi ci sono i termini vaghi, polisemici, ambigui, e quindi soggetti a differenti e non facilmente agguantabili interpretazioni, tra i quali ‘rinnovamento’ e ‘svolta’ o ‘cambiamento’. In particolare, quest’ultima è una parola chiave del primo Governo Conte (2018-2019), perché ha in sé una certa dose di ambiguità: annuncia una svolta ma non ne chiarisce la direzione o gli effetti, non si concretizza mai, rimane in potenza e – per così dire – lascia aperta l’interpretazione.

Frequenti le espressioni eufemistiche o disfemistiche, che sono spesso utilizzate come tecnicismi ma in realtà celano tabù: in senso positivo, come ‘dialogo’, ‘accordo’, ‘patto’, ‘compromesso’ e ‘trattative’; o in senso negativo, come ‘inciucio’, nel senso di “intrigo, maneggio, trama, serie di parlottamenti sottovoce, compromesso poco trasparente, soluzione pasticciata” (p. 20).

I politici sembrano infine amare molto l’ossimoro, una figura retorica che unisce due significati tra loro opposti e che produce un’idea vaga e indefinita, quasi incomprensibile: si pensi alle ‘convergenze parallele’ di Aldo Moro, al ‘compromesso storico’ di Enrico Berlinguer, ai ‘casti connubi’ di Giulio Andreotti, fino al più recente ‘radicalismo dolce’ di Romano Prodi.

‘Tormentoni linguistici’: latinismi e anglicismi

Studiando questa nuova lingua, l’autore evidenzia come l’uso da parte dei politici di frasi fatte sia un modo per avvicinarsi al proprio elettorato e per ricorrere a un linguaggio preconfezionato, più facile e veloce da replicare.

Qualche esempio: ‘io ci metto la faccia’, usato di frequente da Giorgia Meloni; ‘mettere le mani nelle tasche di contribuenti (o degli italiani)’ di origine berlusconiana come il proverbiale tormentone ‘mi consenta’.

Interessante anche l’accenno al ‘ragionateci sopra’ del presidente della regione Veneto Luca Zaia, che, con il suo ‘tic linguistico’ durante le conferenze stampa e gli incontri con la cittadinanza, ha accettato la satira crozziana e l’ha poi fatta sua mettendola nel titolo di un libro.

Facendo un ampio uso anche di tecnicismi, il contemporaneo lessico politico attinge a termini di origine burocratica o giuridica. È il caso di ‘carico residuale’(riferito al contrasto allo sbarco dei migranti sulle coste italiane),ius culturae’, ‘ius scholae’, ‘revenge porn’, ‘stepchild adoption’. Molte volte vengono scelti anche latinismi e anglicismi: i primi a causa dell’intramontabile prestigio del latinorum, formale, sempre aulico e autorevole; i secondi per la loro specificità e capacità di sintesi.

La prospettiva femminista e l’emergenza Covid-19

Nella Lingua della neopolitica di Michele Cortelazzo non manca la sensibilità alle tematiche di genere e alla femminilizzazione della politica.

Lasciando in secondo piano la declinazione al femminile delle cariche (la presidente, la ministra, la sindaca), l’autore si concentra sulle scelte lessicali che coinvolgono le donne politiche (‘essere in gamba’, ‘avere valore’, ‘scelta non in quanto donna’, ‘non come omaggio al genere femminile’), e ne evidenzia la frequenza degli insulti sessisti e volgari, il ricorso al body shaming, la svalutazione e l’infantilizzazione.

Il libro menziona anche il lessico allarmante adottato durante l’emergenza Covid-19, come i dibattiti su ‘riaprire’/‘chiudere’/‘sigillare’, le polemiche sui ‘congiunti’ (“una parola dalla fisionomia tecnica, ma dalla semantica vaga”, p. 134) e il ritorno del negazionismo (“forma di revisionismo storico, che nega la veridicità di alcuni fatti” e “irragionevole e ostinato rifiuto di accettare come vere scoperte scientifiche assodate”, pp. 140-141) con espressioni come ‘dittatura sanitaria’ e ‘sanitocrazia’.

Un discorso a parte merita ‘ciuffetto’, riferito a un messaggio istituzionale del 27 marzo 2020, durante il quale il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, toccandosi l’indomita chioma bianca, disse in un momento di umana e tenera spontaneità al suo assistente alla comunicazione: “Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanche io”.

La lingua dei partiti e l’uso politico dei social media

Per quanti riguarda i partiti, Cortelazzo riconosce nelle parole del Partito Democratico la mancanza di specificità lessicale e di un’identità ben definita e riconoscibile, soprattutto nel periodo della segreteria di Enrico Letta (2021-2023), ma anche il gusto per l’animalizzazione esotica, come dimostrano ‘gli occhi di tigre di Letta’ e la promessa di ‘smacchiare il giaguaro’ fatta da Pierluigi Bersani.

Sulle parole della Lega, invece, viene sottolineata la (spesso esasperata) personalizzazione e l’identificazione nel leader Matteo Salvini, l’uso di un linguaggio d’effetto e spesso volgare, oltre al riferimento quasi ossessivo a ‘qualcuno da fuori dice che… qualcuno a Roma, a sinistra, in Europa’ e alla ripetitività di slogan come ‘la pacchia è finita’.

Cortelazzo conclude, quindi, riscontrando ancora la presenza, seppur ridimensionata, del gentese e del politichese. I politici contemporanei risultano sì capaci di parlare in maniera studiatamente complicata e incomprensibile, ponendosi al di sopra dei cittadini, ma dimostrano anche di volersi avvicinare ad essi, adattandosi al loro linguaggio.

Tuttavia, ciò che rende La lingua della neopolitica una lettura ancora più consigliata è l’avvertimento finale: l’autore precisa che, se si vuole comprendere questa nuova lingua, occorre prestare molta attenzione all’uso che fanno i politici dei social network. Velocità, immediatezza, aggressività, predominio del monologo sul dialogo, uso di un linguaggio volgare e denigratorio, sono infatti alcuni elementi caratterizzanti di questi media.

Il fatto che siano così tanto presenti nella lingua della classe politica contemporanea italiana (e non solo), si può dire preoccupante. Ecco, allora, dove sta l’importanza dell’educazione ai media (o Media Education), ovvero di quel fondamentale processo di insegnamento e apprendimento di abilità e competenze attorno ai media, che permette a tutti i cittadini di accedere, con un approccio più critico e responsabile, all’informazione e alla comunicazione.

Veronica Pippa

(In copertina rielaborazione grafica di Giovani Reporter: da sinistra, Matteo Salvini, Sergio Mattarella, Giorgia Meloni, Giuseppe Conte ed Elly Schlein)

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