
“Joker: Folie à Deux” (2024) è il film più atteso dell’anno. Tuttavia, il sequel di Todd Phillips prende una piega del tutto inaspettata. Al fianco del regista torna Joaquin Phoenix, ma nel fortunato sodalizio si aggiunge anche una star che non ha bisogno di presentazioni: Lady Gaga, nei panni di Harleen Quinzel. A pochi giorni dall’uscita nelle sale, il film ha diviso a metà l’opinione pubblica: qualcuno l’ha amato e altri ne sono rimasti profondamente delusi. Dunque, si tratta di un sequel ben riuscito?
Un sequel è sempre rischioso
Joker: Folie à Deux, il film più atteso dell’anno, è finalmente uscito nelle sale. Dopo il grande successo del 2019, Todd Phillips sfida la sorte e decide di scommettere di nuovo su quello che è, ad oggi, il suo più grande trionfo.
Come da copione, dato il boom al botteghino del primo Joker (2019), Hollywood ha preteso il sequel. Al fianco di Phillips torna Joaquin Phoenix, di nuovo i panni del controverso e problematico Arthur Fleck. In aggiunta, la coppia Phillips/Phoenix fa spazio a un’altra star dallo spessore artistico non indifferente: Lady Gaga. La celebre cantante, nei panni di Harleen Quinzel, detta Lee, compare nuovamente sul grande schermo dopo la sua ultima interpretazione in House of Gucci (2021).

Nonostante il cast stellare e l’attesa trepidante da parte del pubblico, le titubanze del regista e di Phoenix erano numerose e del tutto giustificate. Realizzare un sequel con alle spalle un bagaglio di aspettative così ingombrante è pericoloso. Infatti, si rischia di non ripetere il successo originale, di non essere all’altezza delle previsioni del pubblico o di rovinare il lavoro già fatto.
Se si aggiunge poi che Phillips osa ulteriormente, proponendo un film che è a metà tra un musical e un dramma psicologico, è evidente che il successo non era affatto scontato. A questo punto, la domanda da porsi è ovvia: Joker: Folie à Deux è riuscito nella sua impresa, o ha preso in pieno tutti i rischi del caso?
Dove eravamo rimasti?
Prima di addentrarci nel cuore di questo nuovo, attesissimo sequel, facciamo un passo indietro: dove eravamo rimasti? Nelle scene finali del primo film vediamo Arthur Fleck, truccato da Joker, che, dopo aver ucciso in diretta tv il noto presentatore Murray Franklin (Robert De Niro), viene arrestato e rinchiuso in un ospedale psichiatrico.
Nel frattempo, il discorso che il protagonista ha pronunciato durante il programma e il gesto estremo che ne è conseguito hanno gettato la folla di Gotham nello scompiglio, scatenando violente proteste in città. Involontariamente Arthur, o meglio Joker, è diventato un simbolo di ribellione e un manifesto dell’ingiustizia sociale che schiaccia gli ultimi e gli indifesi.


L’incontro con Lee
A dire il vero, la trama del sequel non subisce sostanziali evoluzioni, e questo è forse il problema principale del film. Nelle prime scene troviamo Arthur rinchiuso nell’Ospedale statale di Arkham: l’uomo è emaciato, alienato e consumato dalle continue sevizie che subisce dalle guardie dell’istituto.
Phillips rimane coerente rispetto al primo film e focalizza il suo sguardo sulla ferocia e le brutture di questo mondo. Seguono infatti una serie di immagini molto crude in cui viene mostrata la violenza e gli stenti a cui i detenuti sono condannanti.
La storia prende avvio quando, durante una seduta di musicoterapia, il protagonista incontra Lee e se ne innamora perduratemene.

La donna adula Arthur, gli riferisce di essere una sua fan e di aver visto centinaia di volte il film che racconta la sua storia.
Dunque, deduciamo che il protagonista, al di fuori delle mura dell’istituto in cui è rinchiuso, è diventato una vera e propria icona popolare, ammirato e idolatrato da una folla di fan, di cui la stessa Lee fa parte.
Arthur VS Joker
L’intero film ruota attorno alla loro storia d’amore: una folie à deux, come anticipa il titolo.
Ma se qualcuno si aspettava di vedere il classico delirio patologico che viene raccontato nei fumetti, in cui Harley Quinn impazzisce d’amore e viene plagiata da un Joker spietato e senza scrupoli, probabilmente resterà deluso.
Nel sequel della storia tradizionale non rimane praticamente nulla.

Del resto questa intenzione era stata anticipata dal cast che, in più occasioni, ha specificato la volontà condivisa di fare qualcosa di innovativo e di audace.
Infatti, in questo film Arthur viene mostrato come una persona debole, incapace di agire in modo indipendente e in balia delle decisioni di chi lo circonda.
Della risolutezza del film precedente, in cui il protagonista, nelle scene finali, abbraccia in pieno la sua follia e diventa Joker, rimane solo un flebile accenno. Per tutta la durata del film l’uomo è teso tra le istanze delle volontà che si impongono su di lui.
La prima è quella dell’avvocata, intenta a vincere il processo dimostrando l’infermità mentale di Arthur. Secondo la sua difesa, la mente dell’uomo ha subito una scissione tra la sua personalità e quella del Joker, che prende possesso di lui quando non è lucido.
Una follia a uno
In seguito, è Lee ad avere il controllo: la relazione che viene messa in scena non prevede Arthur come agente attivo, al contrario l’uomo non fa che subire il fascino dell’ammaliante donna di cui è innamorato.
Il risultato è che Lee viene rappresentata come una fredda e spietata calcolatrice, una borghese annoiata che si è infatuata di Joker, il celebre criminale.
La follia a due è in realtà una ‘follia a uno’, in cui Arthur è il polo passivo, un burattino nelle mani dell’avvocatessa, di Lee o dei media.

Il protagonista si trova costantemente scisso tra il suo passato traumatico, che spesso riaffiora con prepotenza, e l’immagine che gli altri hanno di lui.
L’uomo è costretto ad assumere su di sé l’icona che il pubblico ha creato e vuole vedere in scena, a costo di sacrificare, in nome del sensazionalismo e dello spettacolo, la sua integrità.
La redenzione di un uomo
Arthur diventa Joker, ma questa volta non per sua volontà, come accadeva nel primo film. La performance che l’uomo mette in scena durante il processo, dopo aver deciso di difendersi da solo, asseconda le aspettative del pubblico e di Lee.
Joker è fuori controllo, è crudele e incapace di comprendere la gravità dei suoi gesti. Arthur è diventato, a tutti gli effetti, il fenomeno da baraccone che tutti acclamavano.

Tuttavia, questa messa in scena non ha vita lunga. L’uomo, infatti, durante l’arringa finale, cede sotto il peso del suo conflitto interiore e rivela a tutti la sua intima fragilità, confessando i suoi crimini efferati.
Negli occhi di Arthur, sotto il cerone da clown, si intravede un bagliore di pentimento e la presa di coscienza della sua decadenza.
La resa alle armi è scatenata dall’ennesimo pestaggio che il protagonista subisce in carcere da parte delle guardie, una scena che è talmente cruda da far distogliere lo sguardo.
In seguito, mentre tutti si aspettavano che l’uomo, con la volontà spezzata dalla violenza e dall’umiliazione, cedesse in modo definitivo alla pazzia di Joker, accade l’esatto opposto: Arthur si pente.

Un cambiamento inaspettato
Phillips tenta quindi una mossa inaspettata, la parabola ascendente dell’antieroe per eccellenza fa bruscamente dietrofront e mostra la redenzione di un uomo fragile, in cui alla fine il bene ha avuto la meglio.
Sebbene questo manicheismo sotteso possa essere confortevole, purtroppo non è coerente con il personaggio raccontato nel primo film e, soprattutto, non si regge su una trama abbastanza robusta.
Ancora una volta, il regista tenta la strada della critica sociale e utilizza il suo cinema per scagliarsi contro la violenza repressiva della polizia o la superficiale indifferenza dei media, che speculano sulle tragedie umane.
Tuttavia, al contrario del primo film, in cui la ripugnanza per le ingiustizie sociali sgorgava da ogni scena, Joker: Folie à Deux perde la sua carica anarchica e radicale, rimanendo, a tutti gli effetti, una parabola senza vinti o vincitori.
La musica come mezzo espressivo
Come ci si aspettava, la musica nel film ha un ruolo centrale. Nonostante ciò, il cast ha specificato più volte che non si tratta, in alcun modo, di un musical.
In primo luogo, gli unici personaggi che cantano sono Lee e Arthur, inoltre, i momenti musicali sono pochi e specifici. Infatti, le canzoni hanno un ruolo preciso nell’arco narrativo dei personaggi.
Come ha affermato Lady Gaga durante la conferenza stampa del Festival di Venezia 2024, per i protagonisti il dialogo non è abbastanza, per questa ragione utilizzano la musica come strumento espressivo.
Le scene sonore si muovono su un piano diverso da quello del reale. Attraverso le canzoni, Lee e Arthur sono in grado di sfuggire dal dolore che li affligge, di immaginare scenari diversi e, come ripete più volte la donna, di “costruire una montagna da una collina”.

Ancora una volta, nel protagonista avviene una scissione, tra la realtà e la fantasia, tra l’apparenza e la sua verità emotiva. In questo processo, la musica è un collaboratore attivo.
Questo conflitto interiore, che nella prima parte del film viene evidenziato abilmente dagli interventi musicali, finisce per risolversi inspiegabilmente nelle battute finali.
Infatti, d’un tratto la musica smette di seguire il senso imposto inizialmente. Così, finisce per confondersi con le rovine di una trama che, ancora una volta, non è abbastanza coerente.
La dedizione di Lady Gaga
Sebbene il lavoro svolto da Lady Gaga sia notevole e sia evidente la dedizione con cui l’artista si è impegnata nel progetto, il suo impatto nel film è insufficiente.
Infatti, l’interpretazione dell’attrice soccombe sotto il peso di una sceneggiatura che non è in grado di valorizzarla.
Pertanto, se in un primo momento sembra che Lee sia fondamentale per lo svolgersi della vicenda, al contrario il suo contributo è pressoché inutile.
Al termine della visione si arriva all’amara conclusione che il ruolo della donna non ha nessun peso specifico per l’economia del film.
L’arco narrativo del personaggio di Lady Gaga non ha alcuna evoluzione e, soprattutto, non rende giustizia al duro lavoro compiuto dall’attrice.



Inoltre, il confronto con Joaquin Phoenix è inevitabile, e spesso il calibro dell’attore finisce per schiacciare totalmente la performance di Gaga.
Tutto sulle spalle di Joaquin Phoenix
Infatti, ancora una volta Phoenix si conferma il pilastro centrale del film.
La sua espressione vacua, il modo unico, ma allo stesso tempo riconoscibile, di muovere il corpo e la sua risata logorante, sono tutte dimostrazioni della capacità attoriale di questo artista.
Phoenix riporta sul grande schermo il personaggio di Arthur con la stessa fedeltà e cura dell’originale.
Tuttavia, mentre nel primo Joker la sua interpretazione era sorretta da una sceneggiatura coerente e ben strutturata, al contrario nel sequel sembra che tutto si regga sulle sue spalle. Purtroppo, lo stratagemma di dare a Phoenix carta bianca non è sufficiente e le mancanze del film emergono comunque.

Nonostante ciò, Joker 2 è caratterizzato da uno spiccato senso estetico, che si esprime nell’accuratezza dei costumi o del make-up, e nella messa in scena della fotografia.
Queste scelte stilistiche sono apprezzabili e, in alcuni tratti, in grado di far dimenticare le gravi carenze della sceneggiatura.
Un riflessione che va oltre
Dunque, il film più atteso dell’anno è stato decisamente divisivo: alcuni l’hanno amato, ma molti non l’hanno apprezzato del tutto.
Il sequel di Phillips ha sicuramente il merito di essere un film coraggioso, capace di andare controcorrente nonostante le aspettative contrastanti dell’audience. Per certi versi, sembra che il regista proponga una riflessione che valica i confini della sala cinematografica e ragiona sullo status attuale del prodotto culturale.

Joker: Folie à Deux, così come il suo protagonista, poteva cedere alle aspettative del pubblico, e al sensazionalismo dei media, od opporsi alla smania di raggiungere il successo a tutti i costi.
Resta da capire se questo tentativo sia nell’effettivo riuscito. Oppure se, al contrario, abbia condannato Joker a essere l’ennesimo sequel che era meglio non portare in scena.
Alice La Morella
(In copertina, immagine tratta dal film Joker: Folie à Deux)