Martedì 1° ottobre, presso il LabOratorio San Filippo Neri (Bologna) si è tenuto il quarto appuntamento della rassegna Libri in scena. Ospite della serata lo scrittore e fumettista Matteo Bussola, che ha presentato sul palco il suo ultimo libro, “La neve in fondo al mare” (Einaudi, 2024). A margine dell’evento, Alexandra Bastari ha avuto occasione di intervistarlo.
“La neve in fondo al mare” di Matteo Bussola all’Oratorio San Filippo Neri
Troppo spesso gli adulti si dimenticano di cosa voglia dire essere giovani e di come non esista generazione che non abbia creduto – per dirla con il filosofo tedesco Walter Benjamin – di “stare nel bel mezzo di una crisi decisiva“.
Ma i giovani del XXI secolo rischiano di diventare la generazione più “giudicata” della storia e la più incompresa nella manifestazione di una fragilità esistenziale che la pandemia ha drammaticamente amplificato.
Sul tema è intervenuto Matteo Bussola, scrittore, fumettista e speaker radiofonico, ospite del LabOratorio San Filippo Neri di Bologna per il quarto appuntamento della rassegna “Libri in scena“. Nella serata del 1° ottobre, Bussola ha dialogato sul palco assieme al giornalista Mattia Cecchini per presentare il suo ultimo libro, “La neve in fondo al mare”, romanzo che racconta la confessione straziante di un padre che si scopre vulnerabile di fronte ai silenzi e al dolore del figlio adolescente (ne abbiamo parlato qui).
Tano e Tommy – questi i nomi dei due protagonisti, rispettivamente padre e figlio – condividono una camera in un reparto ospedaliero di neuropsichiatria infantile, un luogo in cui nessun genitore vorrebbe mai mettere piede. Questo è ancor più vero se l’emergenza che richiede il ricovero è una forma di autolesionismo, un dolore auto-inferto attraverso il quale ragazzi e ragazze rivendicano il controllo sul proprio corpo.
Ma quando si tratta di ragazze e ragazzi che si danneggiano, che una mina la calpestano in maniera apparentemente volontaria, che si fanno saltare in aria da soli, è facile pensare che stiano usurpando le cure e le attenzioni che ricevono. […] Come puoi comprendere chi, la sua vita, invece, sceglie di gettarla o sabotarla? Facciamo fatica perfino noi, che di quei ragazzi e ragazze siamo i genitori.
Matteo Bussola, La neve in fondo al mare (p. 34).
Alexandra Bastari: Abbiamo un problema con la normalizzazione del dolore giovanile (e non solo). Adulti che si stupiscono del disagio provato dai figli, genitori che si sorprendono del dolore provato da altri genitori che hanno a che fare con figli colpiti da stati depressivi. È un tema su cui mancano dialogo e sensibilizzazione. Secondo lei, da dove dovremmo ripartire per rendere il dolore qualcosa di cui non vergognarci?
Matteo Bussola: Partiamo subito con la domanda delle cento pistole. Dunque, non lo so. Non sono un esperto, né uno psicologo; non ho risposte. Però sono una persona che guarda il mondo per lavoro, perché per scriverlo devi prima imparare a guardarlo.
Credo che questa generazione di adolescenti non sia stata guardata a sufficienza. Il dolore e la fragilità di questi ragazzi e ragazze sono stati sottovalutati, perché, per il mondo degli adulti, l’adolescenza è un’età che dovrebbe essere felice per definizione. Che problemi potrai mai avere? Devi preoccuparti di andare a scuola e di andare a prendere la ragazza col motorino.
Ma c’è una cosa in più che ha riguardato questa generazione: la pandemia. Con il lockdown abbiamo chiuso dentro un’intera generazione di ragazzi, in un’età in cui vogliono uscire, trovarsi, incontrarsi nei posti, parlarsi, toccarsi, baciarsi. Lo abbiamo fatto per circa un anno e mezzo. Non potevamo illuderci che tutto ciò non avesse delle conseguenze.
In un’età in cui il corpo è tutto ciò che avete per dichiarare la vostra identità e per relazionarvi con gli altri, noi ve lo abbiamo portato via. E non è un caso che molte delle problematiche psichiatriche che sono emerse subito dopo la pandemia abbiano a che fare con esso: l’autolesionismo e i disturbi del comportamento alimentare.
Sembra paradossale da affermare, ma sono pratiche che, a volte, si mettono in campo quando non hai più controllo sul resto e il corpo rimane il tuo unico tuo possedimento, l’unica cosa sulla quale puoi agire.
Farsi del male è rivendicare la proprietà sul proprio corpo. Funziona più o meno così: visto che tu non mi fai muovere, scelgo io cosa fare – se tagliarmi o meno, se mangiare oppure no.
Questa è una cosa che ha sconvolto un’intera generazione di genitori per un motivo abbastanza ovvio: noi genitori siamo, in qualche modo, geneticamente programmati per tenervi al sicuro. Pensa al cortocircuito mentale che esplode nella testa di un genitore nel momento in cui si accorge che la vita che ha messo al mondo si fa del male da sola.
Inoltre, c’è un carico da aggiungervi: i genitori che hanno che fare con le fragilità dei loro figli vengono spesso lasciati soli e – implicitamente o esplicitamente – giudicati dai genitori dei cosiddetti “figli sani”, perché, evidentemente, se tuo figlio ha sviluppato un certo tipo di disturbo è un po’ anche colpa tua, no?
Queste problematiche, invece, non accadono solo nelle famiglie disfunzionali, ma anche in quelle insospettabili e normalissime. E forse questa è la cosa più preoccupante.
A.B.: Prima citava fenomeni come l’autolesionismo e i disturbi alimentari. Nel suo libro descrive un campionario di disagi e di malesseri giovanili abbastanza vasto ed eterogeneo, così come è vario il modo in cui i vari protagonisti affrontano il proprio dolore. Immagino che dietro ci sia stato un lavoro di ricerca non da poco: quale?
M.B.: Questa è una domanda complicata, più complicata di quello che potrebbe sembrare. Ci sono due modi di rispondere.
Il primo è che in quei reparti io ci sono stato. Il secondo è che ho molto a che fare con gli adolescenti. Io stesso sono padre di tre ragazze e ho amici che sono a loro volta genitori di adolescenti.
Mi è capitato anche con i romanzi precedenti, in particolar modo col quello precedente a “La neve in fondo al mare”, di toccare tangenzialmente queste dinamiche. Inoltre, ho avuto la fortuna di parlarne molto nelle scuole con ragazze e ragazzi.
Al termine degli incontri, in quello spazio dedicato a una dedica o a una firma, ci sono sempre quei quattro o cinque studenti che si tengono per ultimi.
E tu capisci che lo stanno facendo perché, magari, hanno una domanda che ti vogliono rivolgere e che si vergognavano a fare davanti agli altri. A volte mi venivano consegnate delle lettere nelle quali venivo messo al corrente di esperienze di ospedalizzazione molto pesanti o di incomprensioni con i genitori.
Infine, da qualche anno conduco una trasmissione dedicata agli adolescenti su Radio 24; si chiama “Non mi capisci”. Parliamo di adolescenza e, anziché chiamare psichiatri, psicologi, pedagogisti ed esperti, diamo la parola direttamente ai ragazzi e alle ragazze. Ogni settimana intervistiamo cinque under 20. È una cosa apparentemente semplice, ma che ho scoperto essere rivoluzionaria.
Alcuni di loro, naturalmente, sono esempi virtuosi: il campione sportivo, l’attivista ecologista, eccetera eccetera. Ma altre volte ci capita di intervistare il ragazzo hikikomori o la ragazza che vive in comunità perché i genitori erano dei tossici.
Una ragazza di loro si chiama Aurora Caporossi e ha avuto una pesantissima esperienza di disturbi del comportamento alimentare che ha usato per fondare un’associazione in Italia sul tema, “Animenta”.
Quindi, mettendo insieme tutte queste storie ho potuto sfruttare diversi possibili inneschi che si sono rivelati poi utilissimi.
A.B.: Per tutto il libro, Tano è attanagliato da una consapevolezza: deve ricostruire il rapporto con suo figlio Tommy. Imbocca la giusta direzione quando capisce che per farlo deve riconoscere di avere a che fare con la nuova identità di suo figlio. Quali altre strade avrebbe potuto percorrere? Quali altri modi ci sono per ricostruire il rapporto tra genitori e figli?
M.B.: Ciò che hai detto è assolutamente pertinente. È una cosa che, in realtà, accade in ogni adolescenza: quando i bambini sono piccoli si fidano dei genitori, li considerano dei supereroi in terra.
C’è un passaggio nel romanzo in cui Tano lo dice: “quand’è che sono passato dall’essere Dio in terra a un coglione?”. Quel passaggio è l’adolescenza: all’improvviso, dal punto di vista del genitore, ti rendi conto di avere davanti un’alterità, un estraneo.
Se dovessi rappresentare l’adolescenza con un’immagine, la rappresenterei con la porta chiusa di quella cameretta che un tempo era sempre aperta.
Quel bambino così affettuoso, all’improvviso, comincia a chiudere la porta, perché ciò che ci serve per diventare grandi è generare una distanza dai nostri genitori.
È indispensabile fare così, anche se i genitori hanno sempre un problema con tutto questo. Spesso cercano di forzare quelle porte chiuse: “che cosa è successo?”, “che cosa hai?”, “perché hai il muso?” e voi giustamente non ce lo dite perché sono anche affaracci vostri, no?
Tano affronta un disagio differente. In teoria, è un padre che ha fatto tutto bene: è sempre stato presente sin dalla nascita del figlio, lo accompagnava a scuola e in piscina, ne era il confidente.
Poi, a un certo punto, è successo qualcosa che inizia a ossessionarlo. Che cos’è che non ha visto questo padre così attento? Quand’è che è iniziata a formarsi la crepa?
Certo, alla fine si aggiunge ciò che tu dicevi. Tano capisce che l’unico modo di ricostruire una relazione, soprattutto con i figli, non è desiderare che siano come noi li abbiamo immaginati. E non è nemmeno quello di accettarli, che è un’espressione orribile, perché tu accetti qualcosa quando non puoi fare altrimenti.
Io preferisco la parola accogliere, che vuol dire: io ti amo nonostante. Vedere una persona per quello che è mi sembra il primo passo per costruire ogni relazione sana. Se io non ti vedo per quello che sei vuol dire che ti sto negando il diritto all’identità.
A.B.: Come ha visto reagire i lettori al tema del benessere psicologico giovanile e al modo in cui l’ha affrontato nel libro? Come lo hanno commentato i giovani? E gli adulti/genitori, invece?
M.B.: Ti confesso che ero un po’ preoccupato quando ho iniziato a scrivere questo libro. Mi dicevo: “ma chi vuoi che legga un libro che parla di psichiatria?”
Invece, presentandolo in varie città d’Italia, mi sono accorto che non è di nicchia per niente. Me lo ha fatto capire proprio una mamma.
Alla prima presentazione in assoluto del libro, che si è svolta alla Biblioteca Malatestiana di Cesena il 25 di giugno di quest’anno, in quel breve spazio che si riserva alle domande del pubblico alla fine dell’incontro, lei si è alzata e ha detto: “Il problema non sono tanto i ragazzi e le ragazze che sono ricoverati in quei reparti, ma quelli che rimangono fuori.
Voleva dire che tu per essere ricoverato in neuropsichiatria infantile devi essere considerato un’emergenza. Se c’è un taglio troppo profondo o se hai bevuto mezzo litro di candeggina perché vuoi distruggerti lo stomaco, allora bisogna agire tempestivamente.
Ma al di fuori dei reparti d’ospedale ci sono tantissimi ragazzi e ragazze che non sono considerati emergenze, pur avendo lo stesso disturbi autolesionistici e del comportamento alimentare. Anche loro hanno brutti pensieri. Ma se non li registriamo ufficialmente, è come se loro non ci fossero.
Per questo io parlo di “epidemia psichiatrica”: perché questa non è fatta solo dai ricoveri, che pure sono tantissimi.
Questo libro mi sta facendo anche bene, perché negli incontri trovo adulti e figli insieme, cioè genitori, ragazzi e ragazze o nonni; un pubblico completamente trasversale, insomma.
È l’auspicio che avevo mentre scrivevo il romanzo.
Speravo che un ragazzo o una ragazza, leggendo questo libro, potesse sviluppare uno sguardo differente sui suoi genitori e arrivare a considerarli degli esseri umani, capendo che anche loro soffrono e si trovano spesso in difficoltà.
Non siamo solo quelli che vi danno la paghetta, che vi stirano le camicie o che vi accompagnano in piscina. È così che vi sembriamo quando siete adolescenti, perché l’adolescenza è, per definizione, il luogo dell’egoismo. Se non sei centrato su te stesso in quell’età lì, quando mai lo sarai?
Però, allo stesso tempo, speravo che per un genitore questo romanzo potesse essere utile per maturare uno sguardo diverso su questa generazione giovanile iper-giudicata. Sembra che non vada mai bene nulla di ciò che fate.
Se organizzate i Fridays for future per protestare per l’ambiente – un tema che giustamente che vi sta molto a cuore – vi accusano di aver organizzato la manifestazione di venerdì o di sabato in modo da fare il weekend lungo.
Se siete ragazzi di ultima generazione che vanno a protestare in maniera più vibrante andando a imbrattare con della vernice lavabile le superfici di protezione delle opere d’arte, vi si accusa di essere degli incolti incivili che non hanno a cuore il valore della cultura. E naturalmente chi ve lo dice? Persone che vanno al museo tutti i giorni, no?
Se andate in piazza a manifestare, vi prendono a manganellate.
Ho un sospetto: in questo Paese, soprattutto in questo specifico momento storico, il problema non è ciò che i giovani fanno, ma il fatto di essere giovani.
Intervista a cura di Alexandra Bastari, con la collaborazione di Vittoria Ronchi.
(In copertina, Matteo Bussola e Mattia Cecchini al LabOratorio San Filippo Neri di Bologna; foto di Giovani Reporter).
L’intervista a Matteo Bussola sulla Neve in fondo al mare è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e Mismaonda.