Cultura

“La neve in fondo al mare” di Matteo Bussola: “crescere è una lotta che prevede una ferita”

Matteo Bussola

“La neve in fondo al mare” (Einaudi, 2024) è l’ultimo libro di Matteo Bussola: una lettera piena di angoscia di un padre messo di fronte al dolore del figlio adolescente. La confessione straziante di un genitore che si scopre vulnerabile di fronte ai silenzi e alle inquietudini tipici di un’età difficile.


Osserviamo sempre con una certa curiosità le gioie altrui: con un misto di ammirazione e frustrazione cerchiamo di coglierne il meccanismo intimo, di svelarne il segreto, di capire come fare per riprodurre lo stesso tipo di appagamento nelle nostre vite.

Dal dolore degli altri, invece, ci schermiamo quasi sempre: per indifferenza, per pigrizia, per paura. Per paura che quel dolore diventi troppo nostro, che la sua energia ci sovraccarichi e paralizzi, che interrompa il flusso mansueto della nostra esistenza.

Perché anche quando vissuto di riflesso, il dolore stabilisce una distanza tra aspettativa e accaduto; si manifesta quando la brutalità degli eventi intacca la consistenza delle nostre certezze. È un interrogativo che cerca spiegazioni e mette in discussione la stabilità delle vite nel tempo.

L’incomunicabilità del dolore

Nella Neve in fondo al mare, ultimo libro di Matteo Bussola, ci sono due tipi di dolori indicibili: quello di Tommy e dei suoi giovanissimi compagni, confinati nel reparto neuropsichiatrico di un ospedale da cui non possono allontanarsi; e quello di Tano, il padre di Tommy, che ogni giorno sperimenta l’angoscia muta dell’impotenza.

Attraverso la voce di Tano, Bussola racconta ciò che succede quando un genitore è messo nella condizione di dover riconsiderare paradigmi abbastanza consolidati: essere padre non significa, forse, sperare in una somiglianza di “destini oltre gli sguardi” (p. 14)? Ripercorrere gli stessi passi forti delle raccomandazioni paterne non è, forse, per un figlio, un buon modo di conoscere il mondo?

Per Tano, invece, Tommy è diventato una “ferita” pronta a sanguinare e a far sanguinare (p. 36). E, come il sangue è simbolo di vita, così un figlio è un’esistenza nuova pronta a sgorgare dal corpo paterno per evolversi in qualcosa di diverso.

Tommy era un adolescente brillante, diligente, attento, il primo della classe. Un’unica grande passione, il nuoto. Ma durante il lockdown qualcosa si è incrinato: si è verificato un “agìto”, ovvero il passaggio “da una sofferenza psichica”, sotterranea e silenziosa, “a un’azione fisica” (p. 12). Da allora, la sua identità è stata completamente sciolta nel suo male, una forma di anoressia nervosa che ha portato il corpo a prosciugarsi, fino quasi a scomparire.

L’evento solleva una barriera ermetica tra Tommy e Tano. Attraverso la scelta del proprio dolore, infatti, suo figlio assume il primo, vero controllo su sé stesso e il proprio corpo. È Tommy, ora, al timone; la sua rotta sta assumendo direzioni improvvise e inedite.

Per Tano, origini e cause del male sono interrogativi assillanti. Cos’è successo? Il suo amore genitoriale non è stato forse sufficiente? Perché suo figlio non si confida più? È diventato forse un ragazzino egoista e ingrato? Ma, soprattutto, è stato lui cieco o è stato il dolore di Tommy a essere muto?

È che… siamo sempre stati lì, capisci? Non guardavamo altrove, non c’è nulla che ci siamo persi. Allora come abbiamo potuto vedere, non intuire.

Matteo Bussola, “La neve in fondo al mare”, p. 28.

Riscrivere il ruolo dei genitori

È negli “accidenti temporanei” come gli ospedali che diverse sensibilità e fragilità genitoriali vengono messe a confronto, come quelle di Tano, Elena, Giulia, Amelia.

Poi c’è Franco, padre di Marika, una ragazza autolesionista, irritato da quella che percepisce come una generazione debole, viziata, incapace di sopportare la durezza delle parole. Ma se c’è sofferenza, tanto meglio: si cresce più forti.

E allora i miei, che sono stati bambini durante la guerra, che dovrebbero dire? […] È che ‘sti ragazzi sono cresciuti nella bambagia, dottore, su. Non sono abituati ai sacrifici, non sono abituati alla fatica, e poi quando la vita li mette alle strette pretendono pure di fare le vittime?

Matteo Bussola, “La neve in fondo al mare”, p. 89.

Fino a quel momento, per Tano, Giulia, Amelia, Elena e Franco, essere genitori significava trasmettere ai propri figli le lezioni che loro stessi avevano dovuto apprendere da soli, spesso con fatica. Si trattava di travasare nelle loro giovani esistenze ciò con cui avevano imparato a colmare i propri vuoti, risparmiando loro gli stessi inciampi e le stesse sofferenze: si sarebbe completato così, benché fuori tempo massimo, il loro riscatto. Essere genitori significava, in questo senso, attivare dei meccanismi compensatori.

Invece, hanno dovuto imparare a fare la conoscenza del dolore dei figli dai segnali con cui questi hanno deciso di parlarne: rimandi simbolici spesso impliciti, per la cui interpretazione serve rifarsi al giudizio dei dottori, di cui Tano e gli altri ricercano avvertimenti, rassicurazioni e spiegazioni.

Non è facile sospendere il proprio mandato e rimetterlo nelle mani dei medici: significa disconoscere i contrafforti ideologici su cui si è storicamente fondato il ruolo genitoriale. Ma per vedere ciò che è nascosto, c’è bisogno di occhi sgombri: dalla mania del controllo, dalle regole, dal senso del dovere.

Tommy, Eva, Giacomo, Marika, Nicholas

Il mondo dei disturbi alimentari è un universo vasto ed eterogeneo nel quale vivono fisicità speculari: corpi che si riducono per nascondersi, corpi che si dilatano rimarcando la propria presenza. Nel reparto di neuropsichiatria, infatti, c’è anche Eva, adolescente bulimica che manifesta una strana forma di regressione infantile.

Ma ci sono anche Giacomo, Marika e Nicholas, ragazzi non affetti da alcun DCA , ma ugualmente segnati da un disagio carsico, troppo a lungo ignorato.

Paradossalmente, è proprio in quelle camere d’ospedale che Tommy e i suoi amici sono vivi più che mai: ogni tentativo estremo di liberarsi della propria vita è una tragica affermazione della centralità della vita stessa. Per loro non conta il risultato mancato, conta l’intenzione. Un tentativo di suicidio è una modalità di comunicazione che viene attivata quando il resto del mondo è diventato cieco.

Eva, Giacomo, Nicholas, Tommy e Marika conoscono il dolore dell’altro. O, forse, è più azzeccato il termine riconoscere.

Riconoscersi nell’esperienza di un dolore vissuto in tempi diversi, a partire da cause diverse, che innesca reazioni diverse e che viene colmato da tipi diversi di amore. Perché solo un bene su misura può fare da contraltare al male su misura che ognuno di loro si è scelto.

Forse noi due potremmo ripartire da qui: dal diritto di essere amati semplicemente per ciò che siamo. Non tanto come genitore e figlio, ma prima di tutto come due esseri umani che hanno voglia di dirsi chi sono.

Matteo Bussola, “La neve in fondo al mare”, p. 179.

Che cos’è la neve in fondo al mare?

E quando il dolore di un figlio, invece, non viene capito? In cosa si trasforma l’amore, quando per esso i bisogni del genitore si annullano, la sua serenità svanisce? Può trasformarsi in odio? È una domanda pericolosa, ma nessun tabù smette di esistere solo perché inconfessato.

Mi sono annullata per accudirla, come fanno quelle povere madri dei bambini invalidi, o celebrolesi, ma lei è sana! È sana! Solo che vuole essere malata, vuole essere riconosciuta nella sua condizione di danneggiata, e vuole che tutti soffriamo per lei. […] Certi giorni io credo di odiarla. Anzi, non lo credo: lo so. 

Matteo Bussola, “La neve in fondo al mare”, p. 123.

Non esiste un unico modo di essere madre o padre, e in quelle corsie asettiche la presunzione di aver impartito un’educazione impeccabile subisce una sconfitta simbolica. Esiste, però, la possibilità condivisa di cambiare lo sguardo sulle cose, per ridefinire un nuovo lessico delle relazioni, meno prescrittivo, meno normativo.

Si può ricominciare proprio da qui, da questa dipendenza paradossale, che si sviluppa al contrario – un genitore che dipende dal figlio – per inaugurare un nuovo fronte di riflessione sull’amore e sullo spettro del dolore.

Matteo Bussola
Matteo Bussola (Foto: Più Notizie).

La neve in fondo al mare è ciò che non dovrebbe esistere, un’anomalia che sfida le leggi stesse della natura: sono così anche certi malesseri giovanili, manifestazioni estreme che non rientrano nel campionario consueto con cui si urla un disagio, ma che si insinuano silenziose e nascoste tra le pieghe del quotidiano.

E allora re-imparare ad amare un adolescente significa coltivare l’attesa, ammettere di aver confuso l’attenzione e la cura con la vicinanza fisica, mettere in discussione la capacità genitoriale di lenire ferite e accettare di non poter sempre dare risposte. E, forse più di tutto, “amare chi non si fida più di noi” (p. 48).

Alexandra Bastari

(In evidenza, la copertina della Neve in fondo al mare di Matteo Bussola; foto tratta da Forlì 24Ore).


Per approfondire il tema del rapporto conflittuale tra genitori e figli, leggi anche Conflitti genitore-figlio – Cosa vuol dire sentirsi a casa? di Camilla Massa.

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