Esiste una parola chiave che può caratterizzare gli anni ‘20 del 2000: nostalgia. Sequel, reboot e spin-off vengono annunciati costantemente, e non è raro che film cult della nostra infanzia siano riesumati e trasformati in moderna novità. Le live action dei cartoni Disney più iconici, l’annuncio del reboot firmato Netflix delle Cronache di Narnia, l’anticipato sequel di Freaky Friday – Quel pazzo venerdì con il ritorno di Lindsay Lohan ad Hollywood. E nemmeno Tim Burton si è lasciato sfuggire l’opportunità di riportare sul grande schermo una delle sue storie più iconiche: Beetlejuice Beetlejuice.
Esuberante e macabro al contempo, la nuova creazione di Burton riporta il pubblico ai fasti del classico dell’88, includendo il rarissimo ritorno dei due attori principali: Winona Ryder (Lydia) e Michael Keaton (Beetlegeuse).
E, nonostante la maggior parte dei sequel non sia altro che un tentativo fallito di modernizzare l’intramontabile, Beetlejuice Beetlejuice evita l’imitazione e intraprende una strada nuova, rendendo lo spettatore più consapevole dell’universo che ha davanti agli occhi, e più coinvolto nelle emozioni dei personaggi… il tutto, ovviamente, firmato Tim Burton.
Che cosa succede dopo la morte
Morti in un bizzarro incidente stradale, nel 1988 Adam e Barbara Maitland capitano ad Assurdopoli (Neitherworld in lingua originale, letteralmente “nessuno dei due mondi”) alla ricerca di risposte sulla loro nuova condizione di fantasmi.
Ma mentre lo spettatore si domanda come funzioni questo stravagante aldilà, Burton ci ordina di attendere 125 anni prima di poter anche solo prendere appuntamento con un consulente. Nel mentre, i Maitland dovranno restare confinati nella loro ormai infestata casa, impossibilitati ad uscire – onde evitare i vermi di sabbia di Saturno – e costretti a convivere con i nuovi inquilini, la famiglia Deetz.
Da questo momento in poi, allo spettatore è proibito fare altre domande, assorto dalla quantità di eventi scalmanati che sembrano capitare uno dopo l’altro, forse nel tentativo (ben riuscito) di distrarre il pubblico da un universo non pienamente costruito.
Questo almeno finché, 36 anni dopo, il sequel non ci rivela quanto ampia sia effettivamente Assurdopoli, e che cosa venga dopo.
Fornita di una nuova stazione di polizia e di un ufficio immigrazione, Assurdopoli è una vera e propria terra di mezzo, un punto di passaggio tra i cancelli del Paradiso, l’Eliseo e le fiamme della Dannazione eterna, ai quali si accede tramite un treno dopo essere stati fantasmi per un periodo di tempo proporzionale ai rimpianti su ciò che (non) si è fatto in vita.
Ai fan del classico anni Ottanta è quindi finalmente concesso di capire come funziona l’Aldilà burtoniano, non più un’accozzaglia di elementi discordanti, ma un universo dal gusto quasi dantesco.
Dall’adolescenza alla maternità: il personaggio di Lydia Deetz
Winona Ryder è una di quelle attrici che il pubblico ha visto crescere, e Beetlejuice è stato proprio uno dei suoi primi ruoli importanti.
Tornata alle luci della ribalta grazie al ruolo di Joyce Byers in Stranger Things, il ritorno all’universo inquietante di Tim Burton segna un cerchio tanto nella sua carriera quanto nella vita del suo personaggio, Lydia.
Conosciuta per la prima volta come un’adolescente dalla personalità ostile e dallo stile gotico – e immortalata come tale – 36 anni dopo, Lydia è sempre la stessa, negli stessi abiti e con lo stesso taglio di capelli, ma è allo stesso tempo fondamentalmente diversa. Effettivamente, anche ai personaggi delle saghe più eccentriche è concesso di crescere, no? E così la ritroviamo sotto una luce diversa, nuova, di donna vedova, protagonista di un talk show sul paranormale, e madre di Astrid (Jenna Ortega), che altri non è che una giovane Lydia 2.0.
Non che Jenna Ortega abbia rispolverato il guardaroba e le espressioni di Mercoledì, ruolo che le ha conferito lo status di A-list celebrity, ma è interessante notare come Lydia abbia ora una propria adolescente ribelle. E Burton utilizza perfettamente questo nuovo personaggio per fare un passo avanti rispetto al suo capolavoro originale, esplorando il complicato rapporto tra madri e figlie.
Un dettaglio che mi ha sempre colpito del primo film è il rapporto da perfetto cliché hollywoodiano tra Lydia e Delia (Catherine O’Hara), figlia riluttante e matrigna superficiale e capricciosa. Sembra quasi la trama di Parent Trap – Genitori in trappola! Ma ora, più di trent’anni dopo, Lydia cambia ruolo, passando dalla quattordicenne astiosa che tutti conosciamo, alla madre un po’ eccentrica, ma che in fondo vuole solo costruire un rapporto più stretto con la propria figlia.
E Burton si impegna particolarmente a rammendare queste relazioni intergenerazionali, regalandoci un commovente saluto tra Astrid, Lydia e Delia, mentre questa si prepara ad imbarcarsi sul treno per l’altro mondo.
Beetlegeuse, protagonista e personaggio secondario
Iconico ed eterno combinaguai, Beetlegeuse (poverino, tutti sbagliano a scrivere il suo nome!) compare nel primo film solo come un caotico farabutto, senza tempo, spazio o ragione – una specie di espediente narrativo che, pur dando il nome alla storia, non ha alcuna profondità o passato.
Anche in questo caso, Burton fa del suo meglio per inserire un retroscena che aiuti lo spettatore ad inquadrare meglio un personaggio diventato ormai un pilastro della cultura pop, senza però perdere la leggerezza e il divertimento che caratterizzano ogni suo film.
Ex-impiegato pubblico ad Assurdopoli, tutto ciò che possiamo dedurre da ciò è che Beetlegeuse sia morto suicida – una battuta di uno dei convitati di Delia e Charles nella pellicola cult degli anni ‘80 è infatti su come i suicidi siano destinati a diventare impiegati pubblici dopo la morte.
Su altri dettagli, Tim Burton non si espone, lasciando divampare sul web teorie sulla sua vita mortale.
Tuttavia, tutto questo cambia nel momento in cui, nel 2024, non ci presenta un nuovo personaggio, Dolores (Monica Bellucci), ex-moglie di Beetlegeuse e apparentemente anche la persona che gli ha tolto la vita – potrebbe essere un plot hole? Purtroppo, nemmeno Burton può rimanere illeso dalle accuse di incoerenza da parte dei fan più accaniti.
A capo di una setta dedita a divorare anime, Dolores è una donna tanto bella quanto dannata, e Beetlegeuse paga il pegno dell’amore nutrito per lei in vita, cercando costantemente di sfuggirle durante la morte. E infatti, se nel primo film il matrimonio tanto voluto dal demone con Lydia sembrava quasi insensato, la scelta di introdurre un personaggio come Dolores regala al nostro protagonista un filo logico, la fuga.
Chi non fugge da qualcosa? E così facendo, Beetlegeuse diventa più umano di quanto non sia mai stato, pur conservando l’umorismo e l’eccentrica inquietudine che lo caratterizzeranno per sempre. Possiamo quindi perdonare Tim Burton e le (poche) incongruenze nella sua nuova trama, perché l’umanità e le emozioni che ci regala, pur sottostando alle regole del suo bizzarro universo, sono impagabili.
Il futuro della nostalgia
Ebbene, può un sequel eccedere l’originale? Molti film recenti vengono creati al solo scopo di attirare un’audience passata, intenzionata solo a riscoprire la magia di un universo ormai concluso, e perciò spesso risultano ridondanti e noiosi. Altri film intraprendono strade nuove, facendosi pubblicità sulla base di qualcosa di già pubblicamente acclamato soltanto per cambiarne basi e conclusioni – il tutto spesso con risultati scadenti e, soprattutto, incoerenti.
Basti pensare a (quasi) tutti i nuovi film della Marvel. Perché, a dirla tutta, il primo elemento che molti sequel dimenticano di considerare è proprio la coerenza con il film originale, in una corsa alla modernità che, alla fine, porta a poco e niente. Ma questo non significa che i sequel non possano anche essere un’alba gloriosa dopo un altrettanto grande tramonto – e Beetlejuice Beetlejuice ne è l’esempio.
È difficile passare oltre alle incongruenze e ai buchi, ma è altrettanto difficile trovare un film che non lucri sopra alla nostalgia del pubblico senza apportargli alcuna novità. E sebbene non sia un film tecnicamente perfetto, Burton fa un ottimo lavoro nel distrarre lo spettatore da ciò che (teoricamente) non dovrebbe funzionare, regalandoci il sequel migliore possibile a uno dei pochi film cult che, forse, un sequel lo necessitava veramente.
Krystal Anne Estrella
(In copertina Beetlejuice Beetlejuice, da Vanity Fair)