Il 19 giugno scorso è morto il bracciante indiano Satnam Singh, vittima di un incidente sul lavoro in un’azienda agricola di borgo Santa Maria, a Latina. Ferito gravemente, invece di essere soccorso, Satnam è stato abbandonato dal proprio datore di lavoro davanti a casa con l’arto tranciato, poggiato sopra una cassetta per la raccolta di ortaggi. Questo evento non è isolato, ma espressione di un antico sistema di sfruttamento organizzato del lavoro dei migranti in agricoltura diffuso lungo tutta la nostra Penisola.
La tragedia di Satnam Singh ha riacceso i riflettori sul fenomeno del caporalato (per approfondire, leggi l’intervista a Marco Omizzolo), eppure, come spesso accade in Italia, la memoria ha vita breve, l’attenzione si risveglia solo davanti all’orrore manifesto e rapidamente torna tutto come prima. Cosa dobbiamo ancora vedere per accorgerci della disumanità che lacera le nostre campagne?
La criminalità controlla il settore agricolo: l’irregolarità rappresenta il canale principale per l’accesso al mondo lavorativo degli stranieri extracomunitari. Il fallimento della politica migratoria ha permesso alle organizzazioni criminali di sostituirsi agli apparati statali, e atteggiarsi quali veri e propri ‘uffici di collocamento’ degli immigrati in cerca di un permesso di soggiorno.
Poco o niente, in questi anni, è stato fatto per migliorare l’inefficienza dell’apparato normativo; si preferisce approvare leggi per complicare l’arrivo dei migranti sul territorio, ponendo la strumento repressivo al centro del contrasto all’irregolarità. Questo è stato il campo di attuazione della legge Minniti-Orlando e dei decreti-Salvini che già dai rispettivi titoli rendevano chiari i propri obiettivi: bloccare, fermare e respingere con forza l’immigrazione.
Alla luce di quanto premesso, risulta necessario – al fine di comprendere e contestualizzare il sistema criminale di cui Satnam Singh è soltanto una delle moltissime vittime – risalire fino alla gestione del fenomeno migratorio in Italia.
Un sistema strutturalmente inadeguato
L’immigrazione costituisce uno degli elementi in grado di contrastare la situazione di declino demografico e di riequilibrare la popolazione sia in termini numerici che strutturali.
L’Italia, da Paese di emigrazione fino alla fine degli anni ‘80, si è trasformata rapidamente in Paese di immigrazione. Tuttavia, il celere mutamento sociologico non è stato accompagnato dalla legislazione, che ha continuato a definire il fenomeno migratorio sotto l’esclusivo profilo dell’ordine pubblico, affrontando le correlate problematiche in maniera disorganica.
Non stupisce, dunque, che oggi ci si trovi di fronte alla inadeguatezza strutturale di un sistema che è rimasto immobile negli anni. Le cause di questa carenza devono essere ricercate principalmente in tre motivi:
- Nella mancata presentazione dei documenti programmatici triennali;
- Nella forma malagevole in cui è stata strutturata la richiesta nominativa;
- Nel numero troppo basso di quote annuali previste dal cosiddetto decreto flussi.
1. La programmazione triennale delle quote di ingresso
In primo luogo, emerge il documento programmatico triennale (art.3, cc. 1-3 Testo Unico Immigrazione, di seguito T.U.) volto a determinare la politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato, assieme alla loro integrazione culturale ed al loro inserimento sociale.
Tale documento è emanato ai sensi dell’art.3 c.1 T.U. con decreto del Presidente della Repubblica dopo l’approvazione del Consiglio dei ministri e delle Commissioni parlamentari competenti. Inoltre, ogni anno il Ministro dell’Interno è tenuto a rappresentare davanti al Parlamento gli obiettivi fissati nel documento e più o meno raggiunti. L’impianto normativo, così come strutturato, conferirebbe serietà al tema dell’immigrazione; eppure, il documento programmatico triennale non viene emanato dalla stagione 2004-2006.
2. La richiesta nominativa
In questo scenario complicato, si deve aggiungere un accesso confuso al mondo del lavoro per gli stranieri extracomunitari: ai sensi dell’art.22 T.U. il datore di lavoro dovrebbe presentare allo Sportello Unico per l’Immigrazione la richiesta nominativa del lavoratore da assumere.
Ma questo incontro tra domanda e offerta è viziato da un grave ostacolo: la legge stabilisce come condizione obbligatoria che il lavoratore extracomunitario si trovi ancora nel suo Paese d’origine al momento della richiesta. In questo modo, il titolare dell’azienda dovrebbe assumere persone straniere senza un incontro preventivo – e si capisce quanto, in questo modo, l’assunzione regolare sia disincentivata.
3. Il decreto flussi
Previsto all’art.3 c.4 T.U., il cosiddetto decreto flussi determina il numero di quote annuali disponibili per l’ingresso di lavoratori stranieri extracomunitari per motivi di lavoro subordinato ed autonomo.
Negli ultimi vent’anni il decreto è sempre stato emanato nella sua versione ‘transitoria’, in quanto la via ‘ordinaria’ è stata bloccata dalla mancata definizione di politiche triennali per l’immigrazione (vedi sopra).
In aggiunta, i numeri predisposti annualmente risultano completamente inadeguati a soddisfare la domanda interna: nel 2023 ,a fronte di 136.000 quote disponibili sono state inviate oltre 600.000 richieste dalle aziende nazionali.
Nel 2022, invece, le quote erano 69.700 a fronte di oltre 200.000 domande effettuate. Nello stesso anno, solamente 17.000 lavoratori sono riusciti a regolarizzare la propria posizione in Italia, sottoscrivendo il contratto di lavoro e ottenendo il relativo permesso di soggiorno.
Ciò vuol dire che solo una minima parte di lavoratrici e lavoratori che entrano in Italia riesce a stabilizzare la propria posizione lavorativa e giuridica, ottenendo lavoro e documenti. La maggior parte, invece, è destinata a scivolare in condizioni di irregolarità, di estrema ricattabilità e precarietà.
Tra inefficienza statale e bisogni concreti riescono a insinuarsi le organizzazioni criminali e le associazioni di stampo mafioso: il fenomeno del caporalato e delle agromafie costituiscono solo uno dei possibili ‘sbocchi’ di questa zona d’ombra.
Il caporalato, lo sfruttamento e lo stato di bisogno
Il legislatore italiano è stato colpevole di omissione. Sarebbe stato sufficiente scorrere gli atti dell’inchiesta agraria del 1877, coordinata dal senatore Stefano Jacini, per ritrovare descrizioni non distanti da quelle riscontrabili nella saggistica criminologica odierna.
Il caporale è colui che intermedia tra lavoratori quasi sempre extracomunitari (ai quali sovente è scaduto il permesso di soggiorno e che, quindi, risiedono illegalmente nel territorio dello Stato) da un lato, e imprenditori bisognosi di manodopera a basso costo dall’altro.
Il caporale garantisce in tempi rapidi il reperimento della forza lavoro al momento del bisogno, supplisce alla carenza dei trasporti, porta la manodopera richiesta direttamente nelle campagne agricole.
Eppure, fino al 2011, nel nostro ordinamento spiccava l’assenza di una specifica norma incriminatrice volta a colpire l’attività dei caporali. Oltretutto l’intervento tardivo del legislatore (che introdusse l’articolo 603-bis nel Codice penale) si rivelò strutturalmente inadeguato, poiché eludeva, tra i soggetti attivi del reato, il datore di lavoro.
Alla luce di tali criticità, era pertanto necessario non solo intervenire sull’intermediazione illecita, ma anche sul fenomeno dello sfruttamento in senso ampio, comprendendo la figura del datore di lavoro senza scrupoli.
Con le novità apportate dalla legge 199/2016, sono state introdotte due distinte fattispecie: una di intermediazione illecita e l’altra di sfruttamento del lavoro condotta dal datore di lavoro. Entrambe le fattispecie si perfezionano quando concorrano le condizioni di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno.
Per quanto attiene allo stato di bisogno, si intende una condizione di effettivo assillo e indigenza tale da coartare la volontà del soggetto. È una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.
Manca invece una nozione unitaria di sfruttamento: gli elementi-spia presenti nell’art.603-bis, c.3, T.U. non assurgono ex se al rango di elementi costitutivi della fattispecie e, dunque, devono essere sottoposti all’apprezzamento del giudice. Tale indeterminatezza della norma ha suscitato critiche da parte della dottrina; eppure, la complessità e l’articolazione del fenomeno del caporalato obbligano a prevedere una norma di ampia portata, con un’applicazione generale e non circoscritta a specifiche fattispecie.
Il caporalato è un fenomeno fluido, diffuso in tutta la Penisola: dalle baraccopoli di Foggia e Borgo Mezzanone fino alle campagne del Friuli e della provincia di Pordenone, passando per l’Agro Pontino, l’entroterra toscano e le imprese agricole lombarde.
Le agromafie
All’interno di questo sistema complesso si inseriscono le agromafie: un modello diffuso, ricompreso in dinamiche vaste, difficilmente riconducibile dentro uno schema fisso e circoscritto.
L’ex magistrato Gian Carlo Caselli ha descritto le agromafie come fenomeno che “opera dal campo, allo scaffale, alla tavola”. A riscontro delle molte attività investigative condotte dalle Forze dell’Ordine, da Europol (contrazione di European Police Office) è infatti possibile sostenere che le attività criminali delle agromafie abbiano oggigiorno una complessità tale da rappresentare un vero e proprio sistema economico, che fattura annualmente oltre 24 miliardi.
Per agromafie intendiamo un fenomeno legato allo sfruttamento del lavoro e che ricomprende le mafie tradizionali, le mafie straniere ed il modello mafioso perpetrato da molteplici aziende agricole lungo l’intera filiera agroalimentare.
Da anni le ‘mafie classiche’ (‘ndrangheta, Camorra, Costa Nostra, società foggiana etc.) coltivano i propri interessi con lo sfruttamento di lavoratori extracomunitari bisognosi.
Accanto a queste organizzazioni, si annidano le mafie straniere, come ad esempio quella polacca, particolarmente attiva nella zona della Capitanata: dal 2006 risultava al centro di un’indagine dei carabinieri del ROS in cui emergeva lo sfruttamento di diversi lavoratori agricoli nelle campagne circostanti.
Inoltre, si osservano aziende ed imprese agricole che attuano una metodologia mafiosa in agricoltura, senza essere legate ad alcuna organizzazione criminale. Tale fenomeno, che contamina l’intera filiera agricola, è caratterizzato anzitutto dal vincolo associativo tra diversi datori di lavoro di un determinato territorio.
Essi, nelle proprie imprese, perpetuano situazioni di grave sfruttamento e di ricatto dei lavoratori stranieri con armi e violenza. Si costituisce in questo modo una sorta di ‘cartello’ con gli altri imprenditori locali, entro cui sono definite le modalità di ingaggio dei lavoratori, le pause pranzo e gli orari di lavoro.
Le organizzazioni criminali, il caporalato e le agromafie si servono della precarietà e dello stato di bisogno dei lavoratori stranieri extracomunitari per imporsi lungo l’intera filiera agroalimentare. Determinano i prezzi, definiscono le modalità di ingaggio, fissano gli orari di lavoro, garantiscono il trasporto e creano alloggi fatiscenti dai quali reperire manodopera a basso costo.
I fallimenti delle politiche in materia di regolamentazione dei flussi e di accesso al lavoro hanno permesso alle mafie di incrementare i propri guadagni e di rendere più sofisticate le modalità di sfruttamento, che oggi si verificano anche tramite WhatsApp e Telegram.
Le soluzioni sul tavolo: più permessi, sponsor e regolarizzazione
Per contrastare questa indisturbata espansione è necessario pensare ad alcune alternative al sistema attuale. Anzitutto, serve riformare la legge Bossi-Fini – legge che dal 2002 regola l’immigrazione in Italia – in almeno due punti: la chiamata a distanza e il sistema delle quote.
In questo senso potrebbero essere introdotti due articoli, l’art. 22-bis e l’art.22-ter, rispettivamente per la reintroduzione di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro e per il sistema dello sponsor.
Secondo questa logica, l’aspirante lavoratore straniero potrebbe entrare in Italia liberamente sotto la tutela di uno sponsor (un’università, una Onlus oppure un Comune) che si occuperebbe di seguire il lavoratore nel suo percorso.
Inoltre, per contrastare l’irregolarità e regolarizzare gli stranieri sul territorio potrebbe essere introdotto un articolo 22-quater per permettere il rilascio di un permesso di soggiorno per comprovata integrazione.
In questo modo, lo straniero irregolare in Italia uscirebbe dalla condizione di precarietà nella quale si trova attraverso uno strumento statale, limitando il potere della criminalità.
Infine, si evidenza l’importanza di un dibattito politico sul tema. A questo proposito basterebbe l’emanazione, sistematicamente disattesa, del documento programmatico triennale, dal momento che coinvolge le più alte figure istituzionali dello Stato (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, tutti i Ministri interessati e le Commissioni parlamentari competenti) nonché un gran numero di enti nazionali attivi nell’assistenza degli immigrati e di organizzazioni datoriali e dei lavoratori.
Importante resta, in tal senso, restare vigili, mantenere la luce accesa.
La condizione di sfruttamento dei lavoratori migranti in agricoltura è il perno di un genere di imprese che riesce a competere solo contraendo il costo del lavoro e per le quali la percentuale di lavoro sommerso o in nero è preponderante. Le stesse imprese hanno solitamente connivenze con la criminalità organizzata anche per le assenze di controlli istituzionali.
Questo genere di realtà imprenditoriale si innesta su tutta la Penisola ed è tanto più evidente sui territori invasi da precarie condizioni socioeconomiche: elevato tasso di inattività e disoccupazione, scarsi investimenti in capitali e ridotta capacità produttiva, forte dispersione scolastica e, non ultimo, politiche deboli o assenti.
Eppure, significative esperienze stanno nascendo dal basso, dai cittadini, nel tentativo di promuovere filiere di giustizia, collegando reti di produttori responsabili e gruppi di acquisto equosolidali.
Ne è un chiaro esempio la passata di pomodoro con il marchio Sfruttazero, nata grazie a due associazioni pugliesi (Solidaria di Bari e Diritti al Sud di Nardò) e con l’ambizioso obiettivo di trasformare il pomodoro da simbolo dello sfruttamento nelle campagne pugliesi in un’attività lavorativa collettiva e solidale.
Ed è forse proprio questa, in estrema sintesi, la prospettiva più adeguata a sconfiggere il modello mafioso in agricoltura: scelte etiche e di civiltà, poiché se è vero che nulla libertas, sine iustitia non è un principio da confinare alle sole aule di tribunale e da imporre attraverso norme e leggi, è altrettanto evidente che esso può trionfare solo se investe la totalità delle parti che compongono uno Stato di diritto, financo – e nella maniera più importante – i suoi cittadini.
Alessandro Sorrenti
(In copertina Annie Spratt da Unsplash)