Quante parole esistono in eschimese per indicare la neve? Alcuni vi diranno sette, venti, cinquanta; altri duecento: tutti, a loro modo, sbaglieranno. Oltre a essere un falso mito, analogo a chi pensa che gli inuit vivano negli igloo, e un’enorme banalizzazione del funzionamento delle lingue, è anche un caso particolare che dimostra come le abitudini culturali di una popolazione finiscano per riflettersi nel lessico della sua lingua.
Boas e Whorf: come nasce un mito
Da decenni circola – in libri, articoli, e anche nella ricerca accademica – una leggenda riguardo a una particolare caratteristica della lingua eschimese, che avrebbe nel proprio lessico dozzine, se non centinaia, di parole per esprimere diverse sfumature del concetto di neve.
Agli inizi del secolo scorso Franz Boas propone uno fra i primi contributi allo studio dell’eschimese in Handbook of American Indian Languages (1911). L’antropologo e linguista osserva che gruppi di idee presentano forti differenze materiali quando espressi in diverse lingue:
Si può dare un altro esempio dello stesso tipo, le parole per neve in Eschimese. Qui troviamo una parola, aput, che esprime “neve sul terreno”; un’altra, qana, “neve che cade”; una terza, piq-sirpoq, “raffica di neve”; e una quarta, qimuqsuq, “cumulo di neve ammucchiata dal vento”.
Franz Boas, Introduzione alle lingue indiane d’America, pp. 21-22.
Boas identifica quattro termini, ma si limita a fare osservazioni abbastanza superficiali sulla questione.
Trent’anni dopo, interviene sull’argomento il linguista statunitense Benjamin Lee Whorf, famoso per la teoria Sapir-Whorf, secondo la quale la lingua determina lo sviluppo cognitivo e il modo di pensare di chi la parla.
Egli sostiene che per l’eschimese sarebbe impensabile avere un solo termine per la neve, come avviene con snow in inglese (il che, oltretutto, è errato: basti pensare a slush, “neve parzialmente sciolta”, o sleet, “neve mista a pioggia”). Anche Whorf afferma che l’eschimese usa molteplici parole per questo concetto, ma non riporta una ricerca specifica.
Da qui in avanti sembra che questo numero misterioso abbia iniziato a crescere a dismisura, diffondendosi per lo più grazie al fascino di una caratteristica che per noi sa di esotico.
È sufficiente a farci invidiare gli eschimesi. Benjamin Lee Whorf, il linguista, una volta riferì di una tribù che distingue 100 tipi di neve – e ha 100 sinonimi (come tipsiq e tuva), che corrispondono a queste classificazioni.
New York Times, 9 febbraio 1984.
Oggi, nonostante la proliferazione di articoli online sul tema, non è comunque semplice trovare una risposta definitiva. E la questione stessa, in realtà, non è così semplice.
Cosa si intende con ‘eschimese’?
Innanzitutto, la lingua eschimese in senso stretto non esiste: eschimese è un gruppo linguistico parlato in Siberia, Alaska, Canada e Groenlandia, che comprende sei lingue – alutiiq, groenlandese, inuktitut, iñupiaq, kangiryuarmiut e yupik –, con diverse varietà.
È bene precisare che, quando si parla delle lingue eschimesi, sarebbe meglio considerare le radici; questo perché, come molte altre lingue amerindiane, sono polisintetiche: presentano ossia parole formate da più morfemi (elementi più piccoli in cui è scomponibile la parola e portatori di un significato proprio) e radici lessicali attaccati fra loro.
In queste lingue, infatti, singole parole spesso corrispondono a quelle che per noi sarebbero intere frasi.
Per esempio, “(la) casa fu costruita per prima” in groenlandese occidentale si traduce in illu sananiqarsimaqqaarpuq, dove “casa” corrisponde a illu e il resto della frase viene espresso da una singola parola formata da due radici e molteplici morfemi accostati: sana (“costruire”), niqar (passivo), sima (perfettivo), qqar (“primo”) e puq (terza persona singolare, indicativo).
Allo stesso modo, nelle lingue eschimesi si potrebbe potenzialmente creare un vasto numero di parole contenenti un termine che faccia riferimento alla neve, continuando ad aggiungere suffissi; motivo per cui è necessario valutare solo le singole radici lessicali.
Quindi, non ha senso cercare di definire quanti termini esistano per indicare la neve perché varieranno largamente da lingua a lingua: il groenlandese occidentale, per esempio, presenta due radici con il significato di neve – qanik, “neve nell’aria”, e aput, “neve sul terreno”.
Quella che per noi è sempre la ‘stessa’ neve in questo caso viene distinta in due forme diverse: in modo analogo noi distinguiamo tra lago, fiume, ruscello, torrente, fino a mare e oceano, quella che in fin dei conti è sempre acqua.
Ma quindi quante parole sono?
In Eskimo words for snow (1986), l’antropologa Laura Martin afferma che in tutte le lingue eschimesi non esistono più di due radici che facciano riferimento alla neve stessa, come per l’esempio del groenlandese occidentale appena citato, senza considerare i termini che indicano ghiaccio, bufere o umidità in generale.
Pochi anni dopo, sulla scia degli studi di Martin, Geoffrey Pullum cerca di dare la sua soluzione al quesito in The great Eskimo vocabulary hoax (1989): Pullum riporta le considerazioni di Anthony Woodbury, studioso specializzato nelle lingue eschimesi, il quale afferma che bisogna essere cauti nel dare risposte definitive, soprattutto se si tiene a mente che queste lingue sono polisintetiche. Ciononostante, Woodbury propone l’esempio dello yupik e stima che la lingua comprenda circa una dozzina di radici che fanno riferimento alla neve.
Più recentemente, infine, Larry Kaplan presenta nel suo paper Inuit snow terms: how many and what does it mean? (2003) dodici radici diverse per lo stesso concetto in kobux iñupiaq, una varietà dell’iñupiaq, tra cui aniu (“neve”), apun (“manto di neve”), aqilluqqaq (“neve soffice”), qani (“fiocco di neve”), pukak (“basso strato di neve dolce usata per acqua potabile”) e sitliq (“banco di neve dura”).
Tutto ciò a dimostrare che le diverse lingue e varietà linguistiche eschimesi esibiscono un lessico differente riguardo la neve; tuttavia, pure nei casi in cui la lista è un po’ più corposa, come per lo yupik o il kobux iñupiaq, ci rimane un numero alquanto esiguo e non troppo lontano da quello che si potrebbe trovare in una qualsiasi lingua indoeuropea.
Lingua specchio della cultura
Come si è visto, quindi, è errato affermare che l’eschimese abbia centinaia di parole per indicare il concetto di neve, ma al contempo bisogna tenere in considerazione che alcune varietà di certe lingue eschimesi abbiano molteplici radici e, di conseguenza, il lessico specifico di questo termine è più ricco.
Il motivo è intuibile: una popolazione che vive in un paesaggio ghiacciato con bassissime temperature svilupperà una lingua che si adatta alle sue esigenze comunicative; dettagli come la compattezza della neve o lo stato del ghiaccio sono essenziali per cacciare o spostarsi in sicurezza, e la lingua avrà inevitabilmente un lessico sulle condizioni metereologiche più sviluppato rispetto ad altre.
Come spesso accade quando si parla di popolazioni lontane che conosciamo quasi soltanto per mezzo di stereotipi, anche questo falso mito sulle parole della neve in eschimese è cresciuto e si è evoluto nel tempo, sulla scia di un immaginario esotico riguardo le popolazioni dell’estremo Nord del mondo.
In realtà, non c’è niente di peculiare sul modo in cui funzionano i termini per indicare la neve nelle lingue eschimesi. Tuttavia, si tratta di un caso particolare che evidenzia il funzionamento del rapporto fra lingua e pensiero e come la realtà che ci circonda preceda e condizioni il nostro linguaggio: allo stesso modo, per esempio, si può considerare che l’italiano ha un lessico molto più ampio per designare i diversi tipi di pasta – centrale nella nostra cultura – rispetto ad altre lingue o che in inglese esiste una molteplicità di termini con leggere sfumature semantiche per indicare la pioggia – comprensibilmente, vista l’uggiosità dell’isola britannica.
Vittoria Ronchi
(In copertina e nell’articolo, foto di Annie Spratt da Unsplash)
Bibliografia
- Boas, Franz.Introduzione alle lingue indiane d’America, a c. di G.R. Cardona, Torino 1979.
- Kaplan, Larry. Inuit snow terms: how many and what does it mean?, in François Trudel (ed. by), Building capacity in arctic societies: dynamics and shifting perspectives. «Proceedings from the 2nd IPSSAS Seminar. Iqaluit, Nunavut, Canada: 26 maggio-6 giugno», Montréal 2003, pp. 263-270.
- Martin, Laura. Eskimo words for snow: a case study in the genesis and decay of an anthropological example, in «American Anthropologist» 88,2 (1986), pp. 418-423.
- Pullum, Geoffrey. The great Eskimo vocabulary hoax, in «Natural Language and Linguistic Theory» 7,2 (1989), pp. 275-281.
- Whorf, Benjamin Lee, Science and Linguistics, «Technology Review», 42 (1940), pp. 229-231 [consultabile nella traduzione italiana di Francesco Ciafaloni (riveduta da A. Zucchi) a questo link].