Cultura

Riciclabile non è riciclato, e altre storie sull’etichettatura ambientale


Nel vasto panorama del consumismo moderno, la sostenibilità è diventata un elemento molto apprezzato dai consumatori, determinati a compiere la scelta più rispettosa nei confronti dell’ambiente. Tuttavia, non sempre è facile distinguere un prodotto realmente sostenibile da uno che invece, attraverso il greenwashing,  ha solo ricevuto un’ottima pubblicità.


Che cos’è l’etichettatura ambientale?

L’etichettatura ambientale è un sistema di informazioni che mostra al consumatore l’impatto di un prodotto e del suo ciclo di vita sull’ecosistema, delineandone vari aspetti: la composizione, la raccolta corretta, la provenienza degli ingredienti e l’eventuale utilizzo di animali da cavia.

La presenza di questa etichettatura su confezioni e imballaggi non è dettata dalla preferenza del produttore, bensì da varie leggi, tra cui il decreto legislativo 116/2020 entrato in vigore il 1° gennaio 2023, che attua alcune direttive dell’UE sugli imballaggi.

L’origine di questa classificazione è solitamente considerata l’introduzione del marchio Der Blaue Engel, applicato per la prima volta nel 1978 dalla Repubblica Federale Tedesca, che intendeva segnalare ai clienti i prodotti più sostenibili e rispettosi verso l’ambiente.

Successivamente, questo sistema si è evoluto, assumendo varie forme e differenti obiettivi. Al giorno d’oggi esistono oltre 400 tipologie di etichettatura ambientale, presenti principalmente sulle confezioni dei cosmetici e dei prodotti alimentari. Alcune, però, sono più diffuse di altre…

“Riciclabile” non significa “riciclato”

Un aspetto importante di ogni prodotto è il suo “ciclo vitale”, dalla fabbricazione fino allo smaltimento. In questo processo bisogna provocare un impatto minimo sull’ambiente, scegliendo i materiali giusti.

Attualmente, su quasi tutte le confezioni, si distinguono due termini: “riciclato” e “riciclabile”. Nonostante la somiglianza tra le espressioni, si tratta di due tipologie di etichettatura molto diverse, di cui è necessario comprendere la differenza per acquisire consapevolezza sulle scelte che facciamo in quanto consumatori.

Quando si parla di un materiale riciclabile, si fa riferimento ad un materiale che può essere recuperato e riutilizzato per un nuovo prodotto. Tuttavia, non è certo che l’azienda da cui proviene compia effettivamente un processo di riciclo per la produzione.

Diversamente, un materiale riciclato è stato certamente realizzato servendosi di sostanze già utilizzate, senza usufruire di nuove risorse.

Proprio in questo contesto spicca un grande scandalo che ha colpito Coca-Cola, accusata di greenwashing, una strategia di marketing che indica un falso impegno nel campo della sostenibilità,  a causa della sua comunicazione pubblicitaria riguardo alle proprie pratiche aziendali. Infatti, la società aveva enfatizzato attraverso l’etichettatura l’aspetto riciclabile delle sue bottiglie e degli imballaggi di plastica, senza però compiere un reale riciclo delle confezioni, offrendo così una falsa immagine positiva ai consumatori.

Un prodotto vegano non è per forza cruelty free

Negli ultimi anni l’acquisto e, di conseguenza, la domanda di prodotti vegani, alimentari e cosmetici, è cresciuta a dismisura, e questo è sicuramente un segnale positivo, che indica la presenza di una maggiore attenzione verso il benessere animale.

Tuttavia, il fatto che il prodotto sia vegano non implica necessariamente che sia anche cruelty free. La distinzione riguarda due aspetti differenti, ovvero la formulazione e la produzione.

Foto: Cosmoderma

Ciò che è vegano non contiene ingredienti di origine animale, né carne né derivati di alcun tipo. Una considerazione che è obbligatorio fare, dato che si trovano facilmente anche in alcuni alimenti apparentemente vegani: la gelatina e molte caramelle gommose, per esempio, possono contenere colla di pesce, colorante alimentare derivato da alcuni insetti o cartilagini animali. Anche alcuni cereali per la prima colazione possono essere ricoperti di miele, un alimento assolutamente non vegano. Per questo motivo osservare le etichette delle confezioni è fondamentale.

Un prodotto è invece considerato cruelty free se le sue componenti non sono state testate sugli animali o, più genericamente, se a questi non è stato arrecato alcun danno. È importante notare che il termine “vegano” si riferisce esclusivamente alla composizione, mentre “cruelty free” fa riferimento all’intero processo di realizzazione.

Quando “vegano” non basta: l’importanza dell’etichettatura

Un aspetto fondamentale da prendere in considerazione è la differenza tra “vegano” e “certificato vegano”. Il primo non contiene prodotti di origine animale, ma non necessariamente è cruelty free: gli Oreo sono vegani, ma contengono olio di palma, la cui realizzazione è associata alla deforestazione e alla perdita di habitat di molte specie animali.

Il secondo, al contrario, distinguibile attraverso il marchio Vegan, segue un’etica del tutto diversa e totalmente cruelty free. L’etichettatura gioca in questo contesto un ruolo fondamentale. 

Questi sono solo pochi esempi di etichettatura ambientale, ma le tipologie sono molto numerose: dal marchio Fair Trade, che assicura la presenza di un lavoro equo e sostenibile, al Carbon Trust Standard, che si occupa di certificare l’impegno delle aziende nella riduzione delle emissioni di carbonio.

Per combattere il riscaldamento globale e ripristinare i nostri ecosistemi, è fondamentale prestare attenzione anche alle scelte più piccole.

La differenza si fa come produttori, ma anche come consumatori e clienti: osservare l’etichettatura di ciò che acquistiamo, e quindi tenerne  in considerazione il ciclo vitale, è importante per acquisire più consapevolezza sul conseguente impatto ambientale, evitando così di cadere nella trappola del greenwashing.

Carlotta Bertinelli

(In copertina: Sogeam)

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