Il nuovo documentario-inchiesta della regista premio Oscar Eva Orner rivela le controverse pratiche aziendali del marchio di moda Brandy Melville, uno dei più amati dalla Gen-Z. La società sarebbe accusata di grassofobia, discriminazione razziale, sfruttamento delle dipendenti e abusi sessuali.
L’importanza delle aesthetic nella moda per la Gen-Z
Chi è cresciuto frequentando piattaforme come Tumblr sa quanto può essere difficile sfuggire al ciclone delle aesthetic, vale a dire a specifici stili visivi che si basano sul consumo di tutto ciò che riguarda quell’estetica, come capi d’abbigliamento, prodotti per la cura del corpo, persino libri.
Forse un tempo non sapevamo dare un nome preciso a quella presenza massiccia e pervasiva di foto raffiguranti adolescenti magre (magrissime), slanciate, dalla pelle diafana e patinata, con indosso un paio di jeans skinny, una felpa di un college americano e un paio di Converse ai piedi.
Era una forma di comunicazione superficiale, che vincolava le relazioni social, rapidissime, all’adesione a un modello estetico e normativo che cominciava, naturalmente, dalla scelta dei giusti brand d’abbigliamento: American Apparel, Dr. Martens, Hot Topic, Urban Outfitters, Brandy Melville.
Ma quel processo di messa in scena di sé stessi attraverso principi estetici spesso temporanei e mutevoli ha avuto in realtà un successo piuttosto duraturo, alimentato ancora oggi da brand assai noti tra le ragazze della Gen-Z.
Tra questi figura Brandy Melville, il marchio di moda made in Italy fondato nel 1994 dall’imprenditore Silvio Marsan e dal figlio Stephan, e divenuto iconico soprattutto a partire dal 2009.
In quell’anno, infatti, appena sbarcato negli USA, Brandy Melville riformulò la propria estetica conferendo ai suoi articoli un marcato stile californiano, fatto di linee semplici e pulite, minigonne a balze e canottiere a tinte pastello ricamate in pizzo, con fiocchi, laccetti e fiorellini.
Ma non è tanto il suo stile che unisce il gusto casual a motivi civettuoli e romantici, adatti a ragazze che non vogliono rinunciare a una femminilità delicata ed innocente, a essere finito nella bufera mediatica degli ultimi mesi.
Brandy Melville e il documentario-inchiesta di Eva Orner
Non che i problemi non ci fossero già, ma dalla pubblicazione su HBO del documentario Brandy Hellville & the Cult of Fast Fashion (2024), firmato dalla regista premio Oscar Eva Orner, le accuse nei confronti del brand italiano si sono solo potute moltiplicare.
Il documentario, prendendo avvio dalle indagini di Kate Taylor per Business Insider (2021), punta il dito, tra le altre cose, contro la fat-fobia, le discriminazioni razziali, lo sfruttamento delle dipendenti, le aggressioni sessuali e l’odio antisemita promossi dall’azienda.
Ma andiamo con ordine.
La “Brandy girl” e la politica della taglia unica
Esiste da sempre un accordo non detto su come debba apparire una vera “Brandy girl”: taglia extra-small, adolescente bianca e di bell’aspetto, possibilmente bionda. È questo il prototipo della ragazza ideale che il brand continua a promuovere su Instagram, unica vetrina pubblicitaria per l’azienda.
Non è possibile, infatti, parlare di Brandy Melville senza scomodare il mondo dei social. Il young girl beachy style che incapsula il bisogno di identità delle teenager americane (e non solo) è diventato virale soprattutto grazie alla visibilità conferitagli sul web da giovani celebrità.
L’influenza di personalità come Lily-Rose Depp, Kendall Jenner, Hailey Bieber e Chiara Ferragni ha giocato un ruolo fondamentale nel consolidare la popolarità del marchio all’interno di un vasto pubblico giovanile.
L’adesione a questo tipo di estetica ha coinvolto, in primis, le addette alle vendite dei circa 30 negozi Brandy Melville sparsi per gli USA.
Promettendo in cambio la possibilità di un’audizione come modelle per il brand, Stephan Marsan – CEO dell’azienda – avrebbe chiesto alle sue dipendenti di inviargli foto del loro corpo all’inizio di ogni turno lavorativo.
La sensazione di essere costantemente monitorate e la pressione di dover rispettare i rigidissimi standard di misure corporee imposti dall’azienda (pena il licenziamento in tronco) hanno fatto precipitare molte giovani lavoratrici nel vortice dei disturbi alimentari.
La politica della taglia unica (sulle etichette dei capi in vendita si legge “one size fits most”) è da tempo, infatti, uno degli elementi qualificanti del business di Stephan Marsan per mantenere l’esclusività del suo marchio.
La vendita di capi nella sola taglia “XS/S” è ritenuta responsabile della diffusione di disturbi alimentari anche tra numerose teenager cinesi, tra le quali è diventata virale la cosiddetta “BM Challenge”: perdere abbastanza peso da poter indossare i minuscoli capi Brandy Melville.
Le discriminazioni razziali e gli abusi tra le dipendenti
Alle responsabili di reparto autorizzate a lavorare a diretto contatto col pubblico non era richiesto solamente di essere magrissime.
La gestione delle vendite di Brandy Melville poggia, infatti, anche su strutture razziali piuttosto consolidate, per le quali alle dipendenti afroamericane sarebbero state assegnate mansioni secondarie, lontane dall’interazione diretta con la clientela, come il riordino e lo stoccaggio della merce nei magazzini sul retro.
Inoltre, Stephan Marsan avrebbe ordinato a un suo collaboratore di pagare di più le dipendenti bianche e di bell’aspetto, anche se non erano particolarmente qualificate.
Ricordo un giorno in cui io e una mia collega stavamo chiudendo il negozio assieme a un’altra dipendente più giovane. Questa aveva tra le mani una specie di scopa simile a Swiffer, ma senza il panno. Mentre spazzava, continuava a raschiare la parte di plastica direttamente sul pavimento.
Sheridan, ex dipendente di Brandy Melville a Honolulu.
Secondo la testimonianza dell’ex vicepresidente italiano di Brandy Melville, le dipendenti che rispondevano ai canoni estetici promossi dall’azienda venivano “trattate come regine”, con inviti a prendere parte a viaggi internazionali per visitare le fabbriche di produzione e selezionare i loro capi di abbigliamento preferiti.
Un’altra testimone, invece, ha ricevuto un trattamento ben diverso: una volta atterrata a New York per uno servizio fotografico – ha raccontato – sarebbe stata costretta a condividere la stanza con estranei di 30 o 40 anni.
Ancora più grave è un presunto caso di aggressione sessuale che ha coinvolto una dipendente di 21 anni. La giovane, che si trovava negli USA con un visto, era alla ricerca di un posto in cui soggiornare temporaneamente. Le fu offerto il “Brandy apartment”, un locale esclusivo a SoHo (New York) riservato solamente ad alcuni dipendenti selezionati.
Secondo quanto rilasciato in un rapporto ospedaliero, la ragazza non ricorderebbe nulla di quello che successe una sera in cui uscì con un uomo italiano di mezza età a bere un paio di drink: solamente il momento del risveglio il mattino successivo, completamente nuda, di nuovo nel “Brandy apartment”.
I rapporti ospedalieri, che ho letto, dicono che la ragazza è stata violentata dal suo superiore, ma che non aveva intenzione di riferirlo alla polizia per timore di perdere il lavoro ed essere costretta a lasciare il Paese.
Kate Taylor, corrispondente per Business Insider.
La promozione di politiche libertarie e la controversa chat aziendale
Già nel 2021 Brandy Melville si trovò al centro di un’altra bufera mediatica, in seguito alla pubblicazione di due indagini condotte da Kate Taylor per Business Insider, una delle principali fonti di informazione online nel settore economico e finanziario.
Secondo la prima delle due inchieste, ogni negozio Brandy Melville negli USA è di proprietà di una società indipendente. Ciascuna di esse è chiamata con una variante del nome Bastiat, un apparente riferimento all’economista libertario Frédéric Bastiat.
L’interesse per il libertarismo di destra – corrente politica che promuove la libertà individuale ed economica, la sacralità della proprietà privata e la riduzione del governo a funzioni minime – coinvolge soprattutto Stephan Marsan, che ha utilizzato copie del romanzo La rivolta di Atlante (1957), testo di Ayn Rand considerato fondativo del libertarismo americano, come oggetti di scena in alcuni store statunitensi.
Brandy Melville, inoltre, possiede anche un sotto-marchio chiamato John Galt, personaggio chiave all’interno del romanzo in questione, definito da molti dipendenti come “la bibbia” del brand.
Nella seconda indagine, Kate Taylor ha fatto invece luce su una chat aziendale (“Brandy Melville gags”) utilizzata dai membri del quadro direttivo come spazio di comunicazione informale.
Oltre a messaggi di auguri in occasione di festività e compleanni, la chat è stata sfruttata per scambi di battute e commenti altamente misogini, razzisti e antisemiti.
Tra i messaggi inviati, una foto ritraeva una maglietta piegata in modo tale che le lettere riuscissero a comporre il nome “Hitler”; un’altra, invece, raffigurava un corpo femminile emaciato con una fascia su cui era scritto “Miss Auschwitz 1943”.
Al momento, l’amministratore delegato Stephan Marsan ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni, nonostante le richieste dei produttori e del pubblico di rispondere alle accuse mosse dal documentario.
Brandy Melville è un marchio di moda ancora cult
Nonostante le controversie siano iniziate già qualche anno fa, Brandy Melville è ancora un marchio di successo: stando ai dati raccolti dal Wall Street Journal, il fatturato delle vendite annuali è passato dai 169.6 milioni di dollari nel 2019 ai 212.5 milioni nel 2023.
Anche tra le più giovani l’estetica Brandy continua ad essere un’icona fashion, complice la fascia di prezzo medio-bassa dei capi di abbigliamento (la stragrande maggioranza intorno ai 20 dollari) e il successo delle strategie di marketing, basate soprattutto su partnership pubblicitarie con personaggi famosi, da Ariana Grande a Madison Beer.
Sebbene lontana dalle strategie di inclusione attuate ormai ampiamente diffuse nel settore della moda e indifferente alle critiche sollevate attorno agli aspetti etici dell’azienda, Brandy Melville continua a mantenere una certa rilevanza all’interno di una community giovanile che vive in un mondo dove social network, video motivazionali, consigli di stile e inviti a “romanticizzare la propria vita” influenzano la percezione di sé e gli ideali di bellezza delle nuove generazioni.
Lo dimostrano i numerosi life vlog e haul a tema Brandy Melville che ogni settimana vengono caricati su piattaforme come YouTube, dove giovani ragazze descrivono la loro esperienza lavorativa all’interno degli store e offrono al proprio pubblico una panoramica dettagliata sui prodotti del marchio recentemente acquistati.
Insomma, la Brandy-mania è ancora uno stile di vita in cui condensare il sogno americano delle nuove teenager, attraverso la creazione di un’immagine pubblica facilmente integrabile nella selettiva cultura di Internet.
Fin troppo selettiva, al punto da nascondere sotto il tappeto la presenza di pratiche aziendali riprovevoli e le conseguenze della promozione di modelli estetici esclusivi. Tra queste, un conto piuttosto salato da pagare: il prezzo della propria salute fisica e mentale.
Alexandra Bastari
(L’immagine in copertina e quelle non citate all’interno dell’articolo sono tratte dal documentario Brandy Hellville & The Cult of Fast Fashion)