L’attentato al Crocus City Hall di Mosca dello scorso 22 marzo non è il primo caso di terrore in Russia. Diversi attacchi terroristici hanno colpito la Federazione, soprattutto a partire dal 1999. Proprio in quell’anno, infatti, si è verificata una serie di attentati attribuiti a cellule di insurrezionalisti ceceni che hanno poi portato alla Seconda guerra cecena (1999-2009).
La narrazione ufficiale su questa serie di attentati non ha convinto tutti i cittadini russi. Alcuni analisti e liberi intellettuali di quel periodo hanno messo in dubbio la matrice cecena e le cause di questi avvenimenti, così destabilizzanti per il paese.
Masha Gessen, tra questi, nel libro L’uomo senza volto (trad. it. Sellerio, 2012), racconta come il clima di terrore che travolse la Federazione russa e i suoi cittadini nel ’99 abbia facilitato la salita al potere di Vladimir Putin, divenuto presidente il 31 dicembre dello stesso anno.
Ripercorriamo la vicenda seguendo il libro di Gessen.
La strategia della tensione: cronologia degli attentati
A partire dalla fine di agosto del ’99 e per circa tre settimane, Mosca e altre città del Paese sono state colpite da diverse esplosioni. Il primo attentato è avvenuto il 31 agosto in un supermercato affollato nel centro della capitale e ha provocato un morto e una trentina di feriti.
Il 4 settembre, poi, un’esplosione ha raso al suolo un’ala di un edificio a Bujnaksk, nel sud del Paese, non lontano dalla Cecenia, causando 64 morti e 146 feriti. L’attentato però non fu particolarmente sentito dalla popolazione, perché vi abitavano ufficiali dell’esercito con le loro famiglie.
Quattro giorni dopo, nella notte dell’8 settembre, è stato colpito un intero isolato, densamente popolato, il quartiere Piciatniki, nella periferia di Mosca. È stato distrutto un intero edificio di nove piani: “settantadue appartamenti polverizzati” (p. 43), con cento morti e circa settecento feriti (i numeri sono quelli citati nella sentenza del tribunale di Mosca e riportati nel libro, nonostante il Sole 24 Ore indichi 92 e 200).
Il 13 settembre un’esplosione ha raso al suolo un edificio di otto piani, nella periferia di Mosca, dove morì la maggior parte degli abitanti, dal momento che l’esplosione avvenne alle cinque del mattino, in modo tale da colpire più persone possibili. Il bilancio definitivo conta 124 morti e sette feriti (secondo Masha Gessen, mentre il Sole 24 Ore certifica 118 vittime).
Il 16 settembre un camion carico di esplosivo è saltato in aria per le strade di Volgodonsk, una città a sud della Russia, relativamente vicino alla Cecenia, provocando diciannove morti e più di mille feriti.
Il panico e la ricerca di colpevoli
Gessen racconta che il Paese era in preda al panico. I cittadini russi organizzavano ronde di vigilanza, molti dormivano in strada, ritenendo di essere maggiormente al sicuro all’esterno, piuttosto che all’interno della propria abitazione; sospettati innocenti vennero presi di mira dalla cittadinanza, in particolare i ceceni.
“A Mosca la polizia rastrellava giovani ceceni e li tratteneva come sospettati degli attentati”, racconta Gessen (p. 45). La giornalista, avendo documentato dall’inizio alla fine la Prima guerra cecena (1994-1996), sapeva in che stato di privazione avevano vissuto e continuavano a vivere i ceceni; e, nel libro, spiega come inizialmente fosse anche lei convinta della loro responsabilità per gli attentati del ’99. L’accordo raggiunto nel ’96 aveva portato soltanto a un cessate il fuoco.
“La Russia era una nazione in guerra e come tutte le nazioni in guerra riteneva che il nemico fosse disumano e capace di qualunque inimmaginabile orrore”.
Masha Gessen, L’uomo senza volto, p. 46.
Il 22 settembre a Rjazan’, una città a circa 160 chilometri dalla capitale, sotto le scale di un palazzo condominiale, sono stati trovati tre sacchi di esplosivo.
Il giorno dopo ventiquattro governatori del Paese chiedevano in una lettera ufficiale a Boris Eltsin (presidente della Federazione russa dal 1991) di lasciare il controllo del Paese al Vladimir Putin, eletto primo ministro circa un mese prima, il 9 agosto del 1999.
Eltsin era gravemente malato (non alcolizzato, come si credeva) e Putin, prima di entrare in politica, era stato un agente del KGB sovietico e responsabile dei nuovi servizi segreti russi, denominati FSB, e per questo disponeva di notevoli abilità tattiche e strategiche.
La guerra in Cecenia e la presa di potere di Putin
Quello stesso giorno, il 23 settembre, Eltsin ha firmato un decreto segreto con cui autorizzava le forze armate russe a riprendere i combattimenti in Cecenia; decreto che però risultava illegale, dal momento che la costituzione russa non permette l’impiego di truppe regolari all’interno dei confini del Paese.
Poche ore più tardi i bombardamenti su Grosnyj erano ricominciati. Il giorno dopo, 24 settembre, Putin ha firmato, a sua volta, un provvedimento con il quale dava il via libera all’esercito russo a combattere in Cecenia. Il suo decreto non venne registrato, poiché il primo ministro, secondo la costituzione russa, non può dispiegare le forze militari.
Putin si presentò poi alla televisione russa con parole durissime nei confronti dei combattenti ceceni: “Gli daremo la caccia, ovunque essi siano, li distruggeremo. Anche se fossero al gabinetto, li butteremo nel cesso” (cit. l’uomo senza volto, p. 47).
Nonostante i vertici della burocrazia e gli oligarchi considerassero Putin un moderato sulle orme di Eltsin, la differenza tra i due era enorme e lo si poteva già vedere. A differenza del presidente ancora in carica, il linguaggio di Putin era aggressivo, spietato, da capo militare.
“Le dichiarazioni volgari, spesso colorite di un umorismo di bassa lega, sarebbero diventate la caratteristica della tecnica oratoria di Putin” (p. 47).
Eppure, in quel momento di terrore il suo modo aspro, violento e vendicativo riscuoteva consenso; e a partire da tali dichiarazioni, la popolarità di Vladimir Putin iniziò a crescere.
L’uomo senza volto
Fu in quei giorni, un pomeriggio del settembre del ’99, che il direttore di Masha Gessen le confidò che tra i giornalisti circolava voce che dietro gli attentati ci fosse l’FSB.
Questa ipotesi venne divulgata solo alcuni mesi dopo, quando ormai tante cose erano cambiate in Russia.
Il 31 dicembre del 1999 Eltsin si dimise dalla presidenza della Federazione russa, lasciando inevitabilmente il posto a Vladimir Putin, che nelle elezioni del 19 dicembre aveva ottenuto quasi un quarto degli elettori con il nascente gruppo Edinstvo (“Unità”), tanto da risultare il più numeroso nella camera bassa del parlamento.
Putin aveva il sostegno dei vertici, dei fedelissimi di Eltsin; ed erano stati proprio loro a proporre a quest’ultimo di dimettersi. Putin, in quanto primo ministro, sarebbe diventato automaticamente presidente prima delle elezioni, in modo da essere in vantaggio rispetto agli avversari.
Con le dimissioni di Eltsin nell’ultimo giorno dell’anno, considerate le due settimane di sospensione natalizia, gli avversari di Putin avrebbero avuto ancora meno tempo per prepararsi a delle elezioni in cui ora si sarebbero trovati all’opposizione. Per di più, la Russia è un Paese che tradizionalmente segue il suo capo, a maggior ragione quando è in guerra.
Nel tradizionale discorso di fine anno, Eltsin apparve su televisori dei cittadini russi dodici ore prima della mezzanotte, ma non fece il monologo abituale del presidente della Federazione russa. “Oggi nell’ultimo giorno del secolo mi dimetto […] lascio […]. la Russia dovrebbe entrare nel nuovo millennio con politici nuovi, facce nuove, gente nuova, giovane, intelligente, forte, energica […]” (cit. L’uomo senza volto, p. 51), e poi fece la dichiarazione con cui mirava a influenzare ancora di più il consenso verso Putin, presentandolo come il politico preferito dalla popolazione:
“Perché dovrei restare attaccato alla mia sedia per altri sei mesi quando il Paese ha una persona forte che merita di diventare presidente e alla quale praticamente ogni cittadino della Russia ha già affidato le sue speranze per il futuro?” (cit. L’uomo senza volto, p. 51).
I dubbi
Fu solo nel marzo del 2000 che l’ipotesi circolante tra giornalisti e liberi intellettuali russi, secondo cui dietro agli attentati non c’erano terroristi ceceni, bensì agenti dell’FSB, assunse una maggior concretezza, rinforzata da argomenti reali e non solo da vane suggestioni.
Il 24 marzo, due giorni prima delle elezioni, la rete televisiva NTV, di proprietà di Vladimir Gusinskij, mandò in onda un programma televisivo, un talk-show con un pubblico in diretta, dedicato allo sventato attentato nella città di Rjazan’.
L’approfondimento sul caso, organizzato dal programma televisivo, portò a prendere in considerazione elementi contrastanti. L’analisi dei fatti mostra evidenti incongruenze nella narrazione del governo.
Si arriva persino a sospettare che alla base del piano dell’attentato non ci sia l’intento terroristico di una cellula cecena, ma che anzi l’obiettivo primario fosse seminare il terrore tra i cittadini russi per pilotare le elezioni in favore dell’uomo forte del momento, ossia Vladimir Putin.
La cronaca del caso (I): i fatti
Tre sacchi di esplosivo sotto il vano scale di un palazzo condominiale: non era la prima volta che si sventava così un attentato; e fu questa la prima cosa a cui pensò Aleksej Kartofelnikov, di professione autista, mentre stava rientrando a casa, un edificio di dodici piani al numero 14 di via Novosёlova, nella sera del 21 settembre, poco dopo le nove.
I giorni successivi, avrebbe raccontato di aver visto un’automobile fermarsi davanti all’edificio e un uomo e una donna uscire e dirigersi verso l’entrata che portava alle cantine; una terza persona, intanto, era rimasta in macchina ad aspettarli.
I due erano usciti pochi minuti dopo. L’automobile – sempre secondo il testimone – si era poi avvicinata all’entrata delle cantine e aveva scaricato dei pesanti sacchi. Infine, rientrati in auto, i tre individui erano rapidamente ripartiti.
Kartofelnikov aveva cercato di prendere il numero di targa dell’automobile sospetta, che però era in parte – volutamente – coperta da un pezzo di carta.
Tre quarti d’ora dopo arrivò la polizia, e gli agenti ispezionarono la cantina e trovarono tre sacchi da 50 chilogrammi, apparentemente di zucchero. All’interno, però, vennero ritrovati un orologio e dei fili elettrici.
Gli agenti chiamarono i rinforzi e iniziarono immediatamente a evacuare i settantasette appartamenti del palazzo. I residenti uscirono vestiti com’erano, in pigiama, senza nemmeno chiudere la porta a chiave (e questo fu la causa di numerosi saccheggi).
Gli sfollati inizialmente passarono la notte al freddo, in piedi, davanti all’edificio, finché non trovarono rifugio in una sala cinematografica. La squadra esplosivi, nel frattempo, disinnescò l’ordigno e ne analizzò il contenuto: si trattava di esogeno.
Il sistema di detonazione era settato sulle 05:30 del mattino, ad un orario che potesse coinvolgere la maggior parte dei residenti. La quantità di esplosivo avrebbe raso al suolo l’intero edificio, danneggiando anche le strutture vicine. Due giorni dopo, il 23 settembre, accadde l’inevitabile.
La cronaca del caso (II): la versione dell’FSB
Da due giorni in Russia non si parlava di altro.
Kartofelnikov era diventato un eroe nazionale e un leggero ottimismo aleggiava per tutto il Paese: cominciava a farsi strada l’idea che si sarebbe potuto mettere fine a questo periodo di terrore.
Il ministro degli interni Vladimir Rušajlo intervenne durante una riunione indetta dalle principali agenzie stampa russe, riguardo alle esplosioni che stavano sconvolgendo il Paese, sostenendo che nei giorni passati c’erano stati sviluppi positivi: un attentato era stato sventato.
Solo mezz’ora dopo, però, venne smentito da Nikolaj Patrušev, capo dell’FSB: “Non è stato sventato nulla. E non penso che si sia operato in modo corretto. Si è trattato di un’esercitazione di addestramento e i sacchi contenevano zucchero. Non c’erano esplosivi” (pp. 63-64).
Nei giorni seguenti l’FSB chiarì le parole del suo capo: i due uomini erano agenti del Servizio di sicurezza di Mosca e l’esercitazione era stata pensata per mettere alla prova la preparazione nello svolgere le procedure, stabilite dalle norme in vigore, in caso di emergenza.
I funzionari della città di Rjazan inizialmente non collaborarono, ma in seguito confermarono la versione dell’FSB, sostenendo che gli artificieri impiegati avevano scambiato lo zucchero per esplosivo perché la loro attrezzatura di rilevazione era contaminata a causa del costante impiego sugli esplosivi in Cecenia.
Il comportamento dell’FSB, nel caso in cui la versione fosse stata veritiera, non sarebbe sembrato particolarmente strano. I Servizi segreti russi hanno sempre rimarcato una propria superiorità di fronte a tutti gli altri organi e alle istituzioni del Paese.
Tuttavia, perché non avvertirono minimamente il ministro degli esteri? Perché lo esposero al pubblico imbarazzo, mostrando una totale assenza di dialogo tra le istituzioni della Federazione russa? Forse per dimostrare una propria supremazia, persino di fronte a un ministro?
La cronaca del caso (III): i pezzi della storia
“In sei mesi i giornalisti della NTV avevano raccolto e messo insieme i pezzi di questa storia, comprese tutte le contraddizioni, e adesso le presentavano agli spettatori”, riporta Masha Gessen (p. 64). I giornalisti usarono la prudenza del caso.
In particolare, Nikolaj Nikolaev, il conduttore, all’inizio della trasmissione fece una lunga premessa in cui spiegava che con quella trasmissione non si voleva in nessun modo mettere in dubbio la versione dell’FSB, ovvero che a Rjazan’ si fosse trattato di un’esercitazione.
Solo uno spettatore del pubblico – non sapremo mai se lo fece di volontaria iniziativa o se fosse tutto preparato come da copione – si intromise dicendo che era giunto ormai il momento di chiedersi se dietro gli attentati di agosto e di settembre non ci fosse proprio l’FSB.
In ogni caso, il quadro che usciva dall’analisi di fatti e testimonianze lasciava tanti dubbi su ciò che era accaduto a Rjazan’, nonché su ciò che quotidianamente stava avvenendo in Russia da più di un mese.
Inoltre, in trasmissione erano presenti molti dei residenti di via Novosёlova e nessuno di loro pensava si trattasse di un’esercitazione.
“Tutta l’operazione non convinceva ed era stata eseguita in modo maldestro come l’idea di mandare un finto abitante nel pubblico”, sostiene Gessen (p. 65).
Senza, però, voler contraddire in nulla l’autrice, conoscitrice esperta e autorevole delle vicende del proprio Paese, sembra inverosimile che un’agenzia di Servizi segreti possa commettere sbavature così grossolane, per di più mostrando questo atteggiamento maldestro persino in diretta televisiva.
Questa “operazione” mediatica, a partire dalle dichiarazioni di Patrušev, è stata decisa e diretta in modo da mandare un segnale chiaro, per questo potremmo considerarla “volutamente maldestra”: è un comportamento perfettamente in linea con quello di Vladimir Putin, non è importante che una versione possa sembrare piena di contraddizioni e probabilmente falsa, perché quello che conta è che sia imposta dal potere, un potere che tutti devono temere e riconoscere, un potere che decide persino cosa è vero e cosa è falso, a prescindere dalla realtà.
Da queste prime fasi inizia il potere indiscusso di Vladimir Putin, un sistema che nel giro di poco tempo sarebbe arrivato a chiudere giornali, radio, televisioni e a eliminare liberi pensatori.
Ipotesi e conclusioni
“Guardando il programma mi venne in mente la conversazione che avevo avuto con il mio direttore, un anno prima. In appena sei mesi i confini del possibile erano cambiati nella mia mente”, conclude Gessen, “adesso potevo credere che molto probabilmente l’FSB fosse dietro agli attentati che scossero la Russia e che contribuirono a portare Putin al potere” (p. 65).
Quando i Servizi si trovarono sul punto di essere scoperti – dal momento che per trovare i tre individui (“agenti dell’FSB”) che avevano posizionato l’esplosivo erano stati impiegati milleduecento poliziotti, che potevano contare su una descrizione dettagliata dei ricercati –, l’agenzia pensò di far uscire la versione dell’esercitazione, fallace ma sufficiente a evitare che i tre agenti fossero arrestati.
In questa situazione cessò anche la serie di attentati. Boris Abramovič Berezovskij, uomo vicino a Eltsin e parte del suo governo, che inizialmente guardava con interesse alla figura di Putin, prima di morire in circostanze sospette nel marzo del 2013, ammise di essere arrivato alla conclusione che dietro agli attentati del settembre 1999 ci fosse l’FSB.
Berezovskij, intervistato in più di un’occasione da Masha Gessen, finanziò indagini, libri e anche un film sull’inchiesta della NTV. L’FSB stava facendo un “gioco parallelo” a quello di Berezovskij e degli altri sostenitori di Eltsin per far eleggere Putin.
Questo “gioco parallelo” consisteva, per l’appunto, nel terrorizzare i cittadini e portarli all’esasperazione in modo da “unire i russi nella paura e nel disperato desiderio di un nuovo leader, deciso e anche aggressivo” (pp. 66-67). Secondo Berezovskij, il mandante degli attentati non sarebbe stato Vladimir Putin, poiché l’obiettivo era quello di candidare un uomo qualunque scelto da Eltsin, non uno in particolare.
Masha Gessen, comunque, dubita che Putin non ne sapesse niente: quando si era dimesso come capo dell’FSB, fu eletto il suo braccio destro, Patrušev, il quale non avrebbe di certo nascosto il piano al suo precedente capo, a maggior ragione se la riuscita fosse andata a suo beneficio.
Bisogna prendere in considerazione che nel corso del suo governo Putin si sia circondato di vecchi colleghi e sodali dei Servizi segreti, dal KGB all’FSB. Ad oggi, nessuno in Russia può dubitare della buona fede di Vladimir Putin e di tutti gli organi russi del tempo.
La versione ufficiale di Mosca attribuisce la responsabilità degli attentati a una cellula terroristica islamica con base nel Caucaso.
Riccardo Gardi
(In copertina ritratto di Vladimir Putin realizzato da Pavel Sokov per TIME)