L’ha fatto davvero: Parigi ha confermato la sua decisione di escludere dalle Olimpiadi le atlete francesi che portano l’hijab. Una bella contraddizione rispetto all’impegno della nazione a realizzare i primi giochi a parità di genere – oltre che una violazione dei trattati internazionali sui diritti umani.
Precedenti pericolosi
Nonostante le polemiche, non si tratta di una novità per la Francia. La decisione francese di vietare l’hijab alle Olimpiadi è solo il punto di arrivo di una lunga serie di misure che hanno proibito il velo nelle scuole, quello integrale negli spazi pubblici e i costumi da bagno come il burkini nelle piscine e nelle spiagge pubbliche.
E Parigi non è l’unica: Olanda e Belgio hanno intrapreso un percorso islamofobo analogo, vietando alle donne di coprirsi il capo nelle funzioni pubbliche. Si tratta di norme spacciate per neutrali, ovvero contro il simbolismo religioso in generale, ma che nascondono un chiaro carattere discriminatorio, e colpiscono in modo sproporzionato le donne musulmane.
Il precedente più rilevante nel contesto francese è l’abaya ban, una misura recentemente introdotta che classifica come “simbolismo religioso” l’abito lungo e non aderente tipico dell’abbigliamento musulmano. Gli studenti e le studentesse non possono indossarlo nelle scuole pubbliche; cosa che fa di questo divieto una profonda limitazione per le ragazze musulmane.
In questo caso, il razzismo e l’islamofobia fungono da “pezze” per il fallimento dei servizi statali: con un sistema di educazione nazionale in crisi, quasi 2.000 studenti senza una casa, un deficit di quasi 3.000 insegnanti e salari sotto la media OECD, il Ministero dell’Educazione francese ha ben deciso che la sua priorità è dire alle giovani donne razzializzate come vestirsi.
Dov’è il femminismo?
Dove sono le femministe (bianche) in tutto questo? Perché il femminismo europeo non difende le studentesse francesi come ha preso le parti delle donne iraniane che protestano contro la polizia morale? Dopo la morte di Mahsa Amini innumerevoli figure di alto profilo – politiche, attiviste e celebrità – hanno espresso la loro solidarietà pubblicamente e sui social media. Qual è la differenza questa volta?
L’obbligo di coprirsi è più ingiusto e pericoloso di quello di scoprirsi? Siamo in Europa e non in Iran? A supporto delle proteste iraniane c’è la libertà fondamentale delle donne – se non poi di tutti e tutte – di scegliere riguardo al proprio corpo, incluso come scoprirlo.
Perché questo diritto non si applicherebbe alle donne che vogliono, invece, coprirlo? Non staremo forse, ancora una volta, scegliendo di sostenere solo le cause che si allineano alla nostra visione del mondo?
L’abaya ban e la polizia morale iraniana non sono poi, almeno nella loro essenza, così diverse: costituiscono casi di misoginia operata dallo Stato nel tentativo di controllare le decisioni delle donne.
Quando si tratta di donne musulmane che scelgono di indossare abiti coprenti, però, chi lotta contro la discriminazione di genere non sembra preoccuparsi di sostenere il diritto di decidere per la propria persona. Vediamo due giustificazioni (o meglio luoghi comuni) a sostegno di questa scelta:
1. Coprire il proprio corpo è sintomo di misoginia e oppressione, mentre scoprirlo equivale alla libertà.
Oppressione e libertà non dovrebbero essere dettate dal modo di vestire, ma da quello di prendere decisioni. Che sia la religione e il marito, oppure lo Stato e un femminismo bianco che crede di sapere cosa sia meglio per tutte le donne del mondo, sempre di obbligo si tratta.
Mona Eltahawy si è spinta ad affermare che le femministe bianche sono “i soldati semplici del patriarcato suprematista bianco”. Forse un po’ too much, ma sicuramente il femminismo deve ricordare che, come ogni corrente di principi, deve sempre guardare al contesto in cui è inserito, per riconoscere le peculiarità geografiche e culturali a cui si applica.
2. Coprirsi potrebbe nascondere eventuali minacce: è una questione di sicurezza.
Sì, ma attenzione a non confondere l’abaya con il niqab: in questo caso a essere vietata è semplicemente una lunga veste di tessuto leggero, che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani. Inoltre, il divieto non si riferisce a qualsiasi tipo di veste, ma proprio a quella tipica dell’abbigliamento musulmano. Coincidenze?
Quindi, anche se la motivazione della sicurezza potrebbe avere una sua generale rilevanza, non può essere applicata al contesto dell’abaya ban. Il carattere razzista e islamofobo di questa misura è quello contro cui il femminismo dovrebbe lottare.
Femminismo selettivo
Non si tratta di misure isolate e sconnesse. Il divieto dell’abaya in Francia, la polizia morale in Iran, ma anche la limitazione del diritto all’aborto negli Stati Uniti e la proposta di registrazione obbligatoria delle sex worker in Olanda: fa tutto parte di uno sforzo generale per imporre e controllare la figura femminile.
Se le donne e chi si identifica come tale costituiscono una categoria particolarmente discriminata, le donne razzializzate lo sono in misura ancora maggiore.
Se il tuo femminismo si attiva solo quando vedi qualcuno lottare per la tua visione del mondo no, non sei femminista. Se volti le spalle a chi oppone resistenza al sistema di cui fai parte no, non sei femminista. Se confondi i valori fondamentali dei diritti e delle libertà umane a quelli particolari legati a cultura e tradizione, indovina?
No, non sei femminista. Opporsi alla polizia morale iraniana ma non esprimersi riguardo all’abaya ban francese significa usare il femminismo come pretesto per sostenere il sistema di oppressione di cui si beneficia. E questo no, non è femminismo.
Clarice Agostini
(l’immagine di copertina è stata sviluppata con il supporto di Open Art AI)