Quello mafioso è un fenomeno articolato. Si tratta di un argomento complesso, spesso visto attraverso pregiudizi o luoghi comuni scaturiti da una cattiva narrazione. La mafia non è una, non è uguale ovunque, ma presenta differenze che vanno al di là del luogo in cui si sviluppa. Non è neanche una semplice organizzazione criminale: è un credo, uno stile di vita, una società con regole precise. Proviamo ad analizzare la situazione della ‘Ndrangheta calabrese.
Gli inizi
La mafia calabrese nasce come organizzazione intorno alla fine dell’Ottocento, ma le sue radici risalgono al secolo precedente.
Già alla fine del Settecento in Calabria si era formato un gruppo di criminali detti “gli spanzati”: oltre a omicidi, furti e violenze, si occupavano di traffici e affari economici. Non si trattava ancora di droghe, piuttosto di merci agricole molto richieste come agrumi, oli, grano, liquirizia ed essenze varie.
Tutto cambiò con l’avvento del latifondo nella seconda metà dell’Ottocento; scelta politica che aggravò irrimediabilmente la situazione socio-economica del territorio, seminò il malcontento tra i contadini e diede vita al brigantaggio.
Fu questa la culla della criminalità organizzata, finanziata dagli stessi feudali. Non passò molto tempo che la ‘Ndrangheta iniziò a interessarsi direttamente alla politica, influenzando le elezioni del 1869 a Reggio Calabria: a partire da questo primo episodio il fenomeno iniziò a destare preoccupazione, ma al tempo si sapeva ancora troppo poco…
La fortuna della ‘Ndrangheta va ricercata proprio nell’alone di mistero che i suoi membri riuscirono a crearsi intorno: presero spunto da organizzazioni segrete come la massoneria, dalla quale ripresero valori e ritualità; rimasero così sconosciuti per molti anni, riuscendo a radicalizzarsi e a proliferare in tranquillità.
Dal mito al culto
Non si tratta dunque solo di criminalità: alla base di tutta l’organizzazione stanno valori che vanno ben oltre il culto del denaro e del potere. Nell’ombra, c’è una vera e propria cultura, a tratti religiosa, che fa da colonna portante all’intero fenomeno.
Nasce tutto dal mito di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre cavalieri spagnoli che nel Seicento furono costretti a lasciare la patria dopo l’uccisione di un nobile che aveva stuprato la loro sorella; non un semplice assassinio, bensì un delitto d’onore. I tre sbarcarono sull’isola di Favignana e vi rimasero per 29 anni, dove stabilirono le regole di una nuova società segreta. Poi, Osso rimase in Sicilia e fondò la mafia; Mastrosso andò in Campania, e lì fece nascere la camorra; Carcagnosso diede vita alla ‘Ndrangheta in Calabria. Una leggenda tramandata tra i malavitosi regala un senso più grande alle organizzazioni, qualcosa che vada oltre la semplice violenza e criminalità.
Tuttavia, non basta certo una storia a rendere possibile una tale radicalizzazione di pensieri, a spingere così tante persone a prenderne parte; non si commettono estorsioni e uccisioni in nome di un semplice mito.
È il culto religioso a fare la differenza, un credo che prende spunto dal mondo cristiano e ne crea uno parallelo. Gli stessi Osso, Mastrosso e Carcagnosso facevano riferimento a tre figure religiose che potessero aiutarli nella formazione di nuove società segrete: ne consegue che i mafiosi in Sicilia sono devoti a San Giorgio, i camorristi alla Madonna, gli ‘ndranghetisti a San Michele arcangelo. L’organizzazione riesce così a spingersi oltre lo spicciolo delle cose materiali, si innalza a valori ultraterreni, riesce a trovare un senso che coinvolge non semplicemente i vizi degli uomini, ma l’intero spirito. E così, se non c’è mito senza culto, non c’è culto senza rito.
Dal culto al rito
Entrare a far parte della ‘Ndrangheta non è semplice, non è possibile a chiunque. Vi sono due strade differenti: o per rapporto familiare o per buona parola. In entrambi i casi l’affiliazione non è una stretta di mano o la firma di un qualche documento, ma è qualcosa di molto più grande: avviene attraverso dei riti.
Nascere in una famiglia ‘ndranghetista presuppone l’entrata del bambino all’organizzazione; prima inizierà a operare solo dopo i 14 anni, età minima di affiliazione, ma dovrà fin da subito essere riconosciuto come membro del clan.
Per riuscire in questo il neonato, chiamato “primo fiore”, viene messo di fronte a un coltello e a una grande chiave d’epoca: il primo a simboleggiare la ‘Ndrangheta, la seconda la sbirraglia. Il bambino dovrà scegliere quale toccare, come simbolo di un presagio futuro; toccato il coltello il nascituro poteva essere considerato mezzo dentro e mezzo fuori. Un’usanza pittoresca, che in alcuni casi viene sostituita con un’altra tradizione, un po’ più “mite”.
Uno dei capi della cosca va a far visita al neonato portando con sé una forbicina per il taglio delle unghie; un semplice gesto che viene considerato come prima forma di affiliazione.
Il resto degli affiliati viene invece reclutato dai “picciotti”, figure di più basso rango dell’associazione. Solo chi fa già parte della ‘Ndrangheta può portare altre persone al suo interno, e ne avrà piena responsabilità per i primi periodi. Un errore del nuovo arrivato comporta conseguenze per entrambi.
Dopo un periodo di osservazione e superata la prova di affidabilità, tutto può avere inizio con il giuramento. Il nuovo arrivato dovrà promettere fedeltà alla cosca di affiliazione, ma non solo: lo fa direttamente all’Arcangelo Michele, figura protettrice degli ‘ndranghetisti, con quello che viene chiamato patto di sangue. Bisogna pungersi un dito o un braccio con ago o coltello, in modo da versare il sangue sull’immagine del santino, e infine darle fuoco su un lato.
Non è un gesto da prendere alla leggera, e lo ricordano le parole del capo della cosca durante il rito: “come il fuoco brucia questa immagine, così brucerete voi se vi macchiate di infamità”.
Uno stato nello Stato
Miti, culti e riti non bastano però a rendere possibile l’efficacia e lo sviluppo del fenomeno ‘ndranghetista per come lo vediamo oggi. Servono a renderlo solido, grande, radicato, ma non efficiente. Per questo motivo, oltre a costruire una specifica cultura, è stata ideata meticolosamente anche una struttura. I codici che si tramandano non definiscono soltanto i riti, ma anche delle regole per la buona gestione dei territori e delle persone affiliate.
Alla base vi sono veri e propri nuclei familiari, che agiscono ognuna su un territorio ben preciso; nella stessa zona può operare più di una famiglia, senza che questo scateni dei problemi: si crea l’entità della Locale. Ogni Locale ha un capo che ha potere di vita o di morte su tutti, un contabile per gli affari economici e un crimine che decide i regolamenti dei conti con le altre locali.
Con il tempo però le stesse Locali hanno iniziato a organizzarsi tra loro in modo verticistico creando così la Santa, una entità che nasce in risposta alla necessità di gestire i fondi della Cassa per il Mezzogiorno del 1950. Si trattava di un finanziamento voluto dal Governo De Gasperi utile allo sviluppo economico del meridione, che finì però per causare molti più problemi una volta caduto nelle mani delle mafie. Con l’arrivo dei grandi traffici di droga che interessavano tutto il territorio calabro la Santa si dimostrò un’enorme risorsa organizzativa.
Per riuscire nella gestione perfetta e capillare del territorio ogni persona affiliata ha un preciso ruolo, con compiti ben precisi. È interessante sottolineare il modo in cui questi ruoli vengono definiti e come avviene l’avanzamento di grado: sono la gravità dei crimini commessi e gli anni scontati in carcere a stabilire il valore dell’affiliato. Con questo sistema gli anni in carcere da una pena si trasformano in merito; un assassinio diventa forma di vanto e riconoscimento; condurre una vita all’insegna del crimine significa essere uomini d’onore, devoti a un credo malsano, al di sopra di ogni morale ed etica.
Informarsi per combattere
Conoscere le caratteristiche della ‘Ndrangheta è importante. La narrazione che abbiamo su questo fenomeno è tendenzialmente semplicistica; mentre riconoscere le particolarità delle singole associazioni a delinquere ci permette di dare loro una forma, inquadrandole in qualcosa di più specifico rispetto a semplici criminalità organizzate.
È significativo porre l’attenzione sul fatto che siamo a conoscenza di queste informazioni solo grazie alle testimonianze di pochi pentiti nel corso degli anni e all’interpretazione dei codici scritti che sono stati trovati; nulla è certo, tutto è in costante mutamento; è dunque difficile riuscire ad avere un quadro chiaro.
Informarsi però può fare la differenza. Conoscere e raccontare il mondo della mafia nei suoi aspetti più caratteristici può forse aiutarci a combattere questo grande problema, che interessa ognuno di noi.
Valeria Zaffora
(In copertina uno striscione di una manifestazione. Foto da Archivio Fotografico Immagini del Novecento)
Bibliografia: Gratteri, Nicola; Nicasio, Antonio. La malapianta (Mondadori, 2011)