L’uscita del documentario firmato Netflix “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio” (2024) ha riacceso i riflettori sul terribile delitto di Yara Gambirasio. La docuserie ha creato grande scalpore, non solo per la delicatezza del tema in sé, ma anche per aver dato molta visibilità all’attuale condannato per l’omicidio della giovane: Massimo Bossetti. Dagli episodi è emersa una nuova versione dei fatti, che getta ombra sulla gestione, ma soprattutto sull’esito delle indagini.
I fatti di Brembate di Sopra
Yara Gambirasio scompare nel nulla la sera del 26 novembre 2010. La tredicenne esce dalla palestra dove praticava ginnastica ritmica verso le 18:45 con l’intento di raggiungere casa sua, situata a meno di un chilometro da lì.
Non arriverà mai a destinazione; spaventati, i genitori diedero l’allarme la sera stessa. Le ricerche non si fermano per tre mesi, sotto l’occhio di un’intera nazione sconvolta e di una famiglia distrutta per la perdita, ma ancora speranzosa di ritrovare Yara viva.
Senza corpo, non c’è certezza di omicidio, ma non cessa nemmeno il limbo di agonia che vede i giorni scorrere e la speranza affievolirsi.
Le prime piste percorse dalla polizia, quella di Mohammed Fikri e quella del figlio del boss del narcotraffico dirigente della Lapov, azienda per cui il padre di Yara aveva lavorato, si rivelano fallimentari.
In una fredda mattina di febbraio, tre mesi dopo la sparizione, il suo corpo viene trovato martoriato e privo di vita, lasciato senza alcuna dignità in mezzo a un campo. Morta, non solo per le ferite subite ma anche per il freddo, Yara si è abbandonata stringendo negli ultimi respiri i fili d’erba che la circondavano.
Ignoto 1
Il ritrovamento del corpo non sembra agevolare le ricerche, nemmeno quando le indagini rivengono un residuo di DNA sugli slip della giovane: Ignoto 1. Ignoto come l’identità dell’uomo a cui appartiene quel campione. Serviranno anni, test a tappeto a decina di migliaia di cittadini e la decostruzione di un intero albero genealogico per giungere a un nome: Massimo Bossetti.
Il comportamento ambiguo dell’indagato, le bugie e i tentativi di scappare e coprire la sua presenza in quelle zone sembrano confermare la tesi. Infatti, grazie alla corrispondenza del DNA nucleare e all’aggancio del suo telefono alle cellule di Brembate, Bossetti riceve la condanna all’ergastolo oltre ogni ragionevole dubbio per il rapimento e l’omicidio di Yara Gambirasio.
Dalla docuserie, tuttavia, emergono numerosi quesiti sulla totale colpevolezza di Bossetti e sull’atteggiamento spesso non limpido della PM che dovette gestire il caso. Il DNA pare non essere così inconfutabilmente collegabile a Bossetti; inoltre, la scomparsa di tutti i campioni, e quindi l’impossibilità di ripetere nuovi test, mette la PM in una posizione non neutrale.
Infine, le cellule telefoniche a cui si aggancia il telefono dell’accusato coprono mezza cittadina e vi è una totale assenza di collegamento tra Yara e quello che si presume essere il suo assassino.
I media nel caso Yara
La stampa e la televisione giocano sempre un ruolo fondamentale durante l’investigazione di un crimine. L’informazione è lecita e necessaria per permettere all’opinione pubblica di avere un quadro quanto più chiaro possibile della situazione del Paese e dello svolgimento delle indagini.
Tuttavia, la diffusione indiscriminata di prove e possibili sospettati può, talvolta, creare un opinionismo irrazionale e un giustizialismo su base emotiva e illogica.
Il caso di Brembate di Sopra fu uno dei peggiori esempi di gestione di un delitto da parte dei media italiani.
Per i mesi e gli anni successivi al ritrovamento della piccola Yara vi fu un bombardamento costante di informazioni, spesso non verificate, che confusero l’opinione pubblica, già in preda a una sorta di isteria collettiva dovuta alla gravità di quanto successo.
La famiglia della giovane fu presa d’assalto da giornalisti, microfoni e telecamere fin dal giorno della scomparsa, sebbene avesse esplicitamente detto di non voler rilasciare dichiarazioni e di voler tutelare la privacy degli altri figli. Ci si chiede dove stia il limite tra l’informazione e la spettacolarizzazione del dolore di una famiglia, come fosse un feticcio da dare in pasto al pubblico.
Nell’occhio del ciclone
Per quanto riguarda la controparte, gli errori furono altrettanto gravi. Venne diffuso un video falso in cui il furgone che si supponeva appartenere a Bossetti, grazie a un montaggio fatto dalla polizia, sembrava passare più e più volte davanti alla palestra la sera del rapimento. In realtà, il veicolo passò una volta sola e un perito della difesa smentì che appartenesse all’indagato.
Ci fu il medesimo modus operandi anche quando, dopo un controllo al pc dell’accusato, trapelò che Bossetti e la moglie accedessero a siti pornografici. Le ricerche furono etichettate all’istante come pedopornografiche, sebbene non fosse così.
La moglie di Bossetti, inoltre, subì una gogna mediatica per la decisione di rimanere sposata con il ‘mostro’ che aveva ucciso una tredicenne, decidendo di credere al marito invece che alla magistratura. L’opinione pubblica spesso emette la sua sentenza prima della corte, e togliersi di dosso quel giudizio è pressoché impossibile.
L’occhio del ciclone in cui è finito questo caso ha, come spesso accade, dato più importanza all’aggressore e al modello a cui doveva corrispondere, piuttosto che alla vittima, ai fatti e alla giustizia.
E se non potessi più fidarmi di nessuno?
L’obiettivo dell’articolo non è sindacare sul giudizio dato a Bossetti. La serie, sicuramente di stampo innocentista, però, ha fatto emergere dettagli inediti e una versione alternativa di una storia che si pensava (e sperava) essere conclusa.
Ma, nell’ipotesi in cui il documentario avesse ragione e Bossetti fosse davvero vittima di un errore – o della necessità di un capro espiatorio da parte della magistratura -, questo non andrebbe a minare le basi su cui si fonda la giustizia del nostro Paese?
Fa più paura l’idea di un ‘mostro’ a piede libero o sapere che non ci si può fidare delle istituzioni che dovrebbero arrestarlo?
L’intendo della docuserie è proprio questo: smuovere le coscienze e mettere lo spettatore davanti alla possibilità che la verità sia difficile da svelare e non sia sempre possibile trovare una risposta, nemmeno alle cose più terribili.
Ovviamente, la speranza è che, se Bossetti fosse davvero innocente, la causa dell’equivoco sia stata un errore umano e non la malafede del sistema. Ciò che resta certo, però, è che Yara non c’è più, due famiglie sono ora distrutte, e ancora oggi non si può mettere un punto alla vicenda.
Gaia Marcone
(In copertina, immagine tratta dalla copertina della docuserie Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, disponibile su Netflix)
“Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio” – Al popolo l’ardua sentenza è un articolo di Gaia Marcone. Leggi qui altri articoli dell’autrice!