Il percorso verso l’apertura al suicidio assistito in Italia passa attraverso gli interventi della Corte costituzionale, che di recente si è nuovamente pronunciata in merito. Che cosa cambia con la nuova sentenza e quali sono le criticità?
La sentenza Cappato e la legge 219/2017
In Italia si inizia a parlare di fine vita molto tempo prima della venuta della sentenza Cappato: basta pensare all’intricatissima vicenda di Eluana Englaro e a quella di Piergiorgio Welby, che certamente hanno assunto un ruolo nel processo legislativo che ha avuto come esito la legge 219/2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento, il cosiddetto testamento biologico.
La legge riguarda il rifiuto dell’accanimento terapeutico: si tratta di casi in cui l’evento morte occorre a seguito della sospensione dei trattamenti sanitari. La storia di Fabiano Antoniani, che ha come riflesso giuridico la sentenza Cappato, è un po’ diversa. Dopo un gravissimo incidente d’auto, Antoniani rimane cieco e tetraplegico.
Dopo anni di sofferenze Antoniani, soprannominato Dj Fabo, decide di recarsi in Svizzera per accedere al suicidio assistito con l’aiuto dell’Associazione Luca Coscioni.
Marco Cappato, tesoriere dell’associazione, accompagna Antoniani in Svizzera; una volta tornato in Italia, si autodenuncia perché aiutare qualcuno a togliersi la vita costituisce reato secondo l’articolo 580 c.p., che recita:
chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni.
L’ordinanza 207/2018, in attesa del Parlamento
Da questa vicenda processuale nasce una questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte, che emette un’ordinanza nel 2018, il cui contenuto verrà confermato da una sentenza nell’anno successivo. Il cuore del problema sta nel fatto che l’articolo 580 c.p. sanziona l’aiuto al suicidio in termini generali, senza condizionare l’intervento penale ad alcun requisito.
Il giudice che pone la questione alla Corte ritiene che ci sia violazione di alcune norme della Carta costituzionale, in particolare dell’articolo 2, che afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo; e dell’articolo 13 relativo alla libertà personale, che letto unitamente con l’articolo 32 assicura al soggetto piena libertà nella scelta dei trattamenti sanitari allo scopo di tutelare la propria dignità.
La Corte, con la prima ordinanza, concorda in linea di massima con le perplessità del giudice rimettente, ma si astiene dal dichiarare la parziale incostituzionalità della norma, con lo scopo di sollecitare un intervento del legislatore.
È la prima volta che la Corte utilizza questo escamotage processuale, e lo fa sostanzialmente per due ragioni: da un lato si tratta di una norma di diritto penale, materia su cui, in virtù del principio di legalità, deve occuparsi il Parlamento, organo democraticamente eletto e maggiormente rappresentativo; dall’altro abbiamo una materia particolarmente delicata, che non solo richiede delle valutazioni giuspolitiche, che non competono alla Corte costituzionale, ma necessita anche di una proceduralizzazione ben precisa.
È evidente che legalizzare uno strumento come il suicidio assistito presuppone un investimento di risorse da parte dello Stato che non può certo essere previsto da un organo come la Corte costituzionale.
Il contenuto della sentenza 242/2019
La Corte lascia undici mesi di tempo entro cui il Parlamento dovrebbe attivarsi, ma il termine decorre senza che nulla venga disposto. A quel punto la Corte è costretta a intervenire: non è accettabile che un soggetto venga condannato in forza di una norma in contrasto con i principi costituzionali.
Dunque, con la sentenza 242/2019 la Corte enuclea una causa di non punibilità, per la quale l’art. 580 c.p. non si applica quando ricorrano tutti e tre i requisiti previsti dalla Corte:
- il soggetto aiutato deve essere affetto da una patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili;
- il soggetto deve essere in grado di prendere decisioni libere e consapevoli;
- il soggetto deve essere mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Dal momento che la situazione di Fabiano Antoniani soddisfaceva tutti i requisiti, la condotta di Marco Cappato non era più sanzionabile.
Questa sentenza si presenta come dirompente perché costituisce una breccia importantissima nell’ambito del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione in fatto di trattamenti sanitari.
Che ruolo ha la nuova sentenza della Corte?
La scorsa settimana la Corte costituzionale ha emesso una nuova sentenza in materia di suicidio assistito.
La questione posta, questa volta, aveva ad oggetto uno dei requisiti che la Corte aveva individuato nella sentenza Cappato, e in particolare quello per cui si richiede che il paziente sia mantenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Secondo il giudice rimettente, si presentavano dei profili di incostituzionalità relativamente, tra gli altri, all’articolo 3 della Costituzione: ci sarebbe un’irragionevole disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente identiche.
Scrive il giudice:
la condizione in parola discriminerebbe, dunque, i pazienti tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale e i pazienti – quali, ad esempio, i malati oncologici o affetti da patologie neurodegenerative, come nel caso di specie – che non possono accedere, per le caratteristiche accidentali della loro patologia, a tali trattamenti, ma che sono parimente irreversibili e costretti a patire sofferenze intollerabili, esponendosi ad un’agonia altrettanto se non più lunga.
La Corte rigetta le questioni poste dal giudice a quo, ma nel rigetto fornisce un’interpretazione estensiva di quelli che lei stessa aveva definito “trattamenti di sostegno vitale”. Scrive la Corte:
[…] il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero [essere, nda] apprese da familiari o caregivers che si facciano carico dell’assistenza del paziente.
È evidente quanto sia notevole la portata di questa sentenza. Se prima la nozione di trattamenti di sostegno vitale era intesa in senso stretto (si pensi ad un respiratore artificiale), ora si può ricomprendere anche la continua assistenza in ambito casalingo che sia assolutamente necessaria per il mantenimento in vita del soggetto.
Pertanto, il bacino dei potenziali destinatari della prestazione si allarga apprezzabilmente.
Com’è regolato il suicidio assistito in Italia?
Possiamo dire che, in Italia, il suicidio assistito non sia regolato. Esistono senz’altro le sentenze della Corte costituzionale che depenalizzano la condotta di chi aiuti un soggetto malato in modo irreversibile a porre fine alla propria vita, ma non esiste una normativa che regoli l’istituto.
La Corte, nella prima ordinanza, scriveva:
una regolazione della materia […] è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: come, ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo ‘processo medicalizzato‘, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al Servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura.
La sostanziale paralisi del Parlamento in materia pone diverse criticità, a partire da chi debba prendersi carico economicamente della prestazione. Alcuni pazienti, infatti, sono riusciti ad ottenere una parziale o totale copertura dei costi da parte del Ssn; altri hanno pagato in autonomia organizzando delle raccolte fondi.
Storicamente, in alcuni casi la Corte costituzionale si è fatta carico della responsabilità di porre degli avanzamenti in tema di diritti civili nell’ambito dell’ordinamento. È evidente che anche in questo caso abbia cercato di riempire i vuoti di un legislatore che pare essere sordo di fronte alle richieste della società civile. Il problema che si pone, come si accennava, ha a che fare con la divisione dei poteri e con il funzionamento della democrazia.
Da un lato abbiamo un organo, la Corte, che dovrebbe avere un potere negativo, quindi di eventuale annullamento di norme che abbiano profili di incostituzionalità, trasformatosi nei fatti in un organo creatore di diritto, che si appropria di un potere a tal punto positivo da introdurre un nuovo istituto.
Dall’altro lato abbiamo un Parlamento, composto di persone democraticamente elette, che dovrebbe avere il monopolio sulle scelte di politica criminale e sulle valutazioni politiche. Si tratta di un organo che dovrebbe dare delle risposte alle richieste della società civile, di fronte a cui risponde politicamente, e che invece si mostra in tutto il suo fastidiosissimo silenzio.
Manca una legge sul suicidio assistito e il fine vita
La prima ordinanza è stata pubblicata il 21 novembre 2018: sono passati quasi sei anni e si sono successi quattro Governi.
Da allora, i malati terminali di questo povero Paese hanno la speranza di poter decidere della propria vita e della propria morte, senza essere vittime delle lungaggini di un procedimento iper-burocratizzato perché non regolato, di non doversi fare carico delle spese per poter accedere ad una prestazione sanitaria, e di non dover fare i conti con il paternalismo di uno Stato che vuole decidere per loro.
Sara Nizza
(In copertina, immagine da Simona Granati/Corbis e Getty Images)
A che punto siamo con il suicidio assistito? – La nuova sentenza della Corte costituzionale è un articolo di Sara Nizza che parla di suicidio assistito. Clicca qui per leggere altri articoli sul tema.