
Paolo di Paolo, romanziere e saggista già finalista nel 2013 con “Mandami tanta vita” (Feltrinelli), è candidato al Premio Strega 2024 con il suo “Romanzo senza umani” (Feltrinelli, 2023, leggi la nostra recensione). Chiara Celeste Nardoianni di Giovani Reporter ha avuto l’opportunità di intervistarlo.
Chiara Celeste Nardoianni: Partiamo da una domanda più leggera: come ci si sente a essere stati selezionati nella sestina finalista per questa edizione del Premio Strega? Se lo aspettava?
Paolo Di Paolo: L’onestà mi porta a dire che per uno scrittore o una scrittrice in Italia la finale dello Strega è già un traguardo; ovvio che la vittoria faccia ancora di più la differenza, ma comunque essere arrivati a questo punto significa già avere un 150-200% in più di vendite rispetto alle settimane precedenti.
È l’unico premio letterario che determina un incremento notevolissimo delle copie vendute, anche solo con la fascetta gialla. Inoltre, in un momento in cui il mercato editoriale è in forte crisi, permette di avere un palcoscenico che consente a un autore di consolidare un percorso, di far conoscere anche retroattivamente le opere precedenti e di raggiungere un pubblico esterno a quello già acquisito.
Sono già stato nella cinquina, nel 2013, a trent’anni (con Mandami tanta vita, Feltrinelli 2013, ndr.). Se io oggi posso scommettere sulla scrittura al punto da farne un mestiere, lo devo alla visibilità che mi ha dato allora il premio Strega.
Romanzo senza umani ha un suo grado di complessità, e grazie a questa candidatura può guadagnarsi un’attenzione diversa rispetto a quella che già aveva, insieme un periodo di tempo più lungo sotto i riflettori. Infatti, il libro è uscito a settembre del 2023, e il fatto che si sia riattivato, a mesi di distanza, è un piccolo miracolo.
C.C.N.: Ora, per entrare più nel vivo del libro, c’è una domanda intorno a cui ruota tutto il romanzo, ovvero “Che cosa si ricordano gli altri di noi?”; se dovesse rispondere in prima persona a questa domanda, cosa direbbe?
P.D.P.: Tutti si ricordano cose di me che io stesso in parte non ricordo o che non ricordo in quel modo. Molti hanno pensato che il tema della memoria fosse legato a un’età anagrafica, addirittura superiore alla mia, e una delle domande più frequenti è stata: “Perché lei a quarant’anni scrive un libro che potrebbe essere scritto da una persona che ne ha 70/80?”.
Qualunque sia l’età in questione, però, il punto non è la conservazione dei ricordi o il bilancio esistenziale, ma è chiedersi che traccia abbia lasciato nelle persone che ho frequentato, sfiorato, amato, disamato. Sta tutto qua.
Qualcuno l’ha anche interpretata come una petizione narcisistica, come se la domanda fosse “che cosa pensano gli altri di me?”, ma io non ho scritto “pensano”: ho scritto “ricordano”. Nel primo caso sarebbe stato tutto schiacciato sul presente, piaci a qualcuno, non piaci ad altri, e basta; ma questo è un eterno problema dell’umano: piacere o cercare di piacere.
Invece, Romanzo senza umani si interroga sulle persone che sono sparite dalle nostre vite, perché erano compagni di classe, oppure persone che abbiamo conosciuto un’estate e poi abbiamo perso di vista. Ecco, la proiezione di me nel tempo che gli altri incamerano non mi potrà mai essere restituita, o comunque può accadere molto difficilmente.
Mi piacerebbe che agli altri restasse di me un’impressione positiva; non sono sicuro che, anche laddove io mi sia impegnato, quello che è rimasto di me è esattamente quello che io credevo rimanesse, e qualche volta è sorprendente, in positivo come in negativo, perché una persona può restituirmi un ricordo che mi riguarda che io non ho trattenuto.
Il romanzo della mia vita, se lo racconto io è una cosa, cambia completamente se lo raccontano gli altri, che siano stati testimoni oculari più o meno coinvolti.
Io volevo parlare proprio di questo: di quanto sia contraddittoria la dimensione del racconto di una vita, se cambi la prospettiva cambia di segno anche il racconto.

C.C.N.: Il protagonista del libro, Mauro Barbi, a un certo punto decide di riallacciare i rapporti con le persone del passato. Vale la pena per lui farlo, da un punto di vista umano e relazionale?
P.D.P.: No, probabilmente no, è un personaggio congegnato con un tratto grottesco. A molti è stato anche un po’ sulle scatole perché è respingente e ti dà la sensazione di inettitudine.
Eppure, quando senti questo per un personaggio, significa che ha fatto il suo dovere meglio rispetto a un personaggio che invece ti piace molto. A una presentazione una lettrice mi ha detto “mi piace come scrive ma ho detestato il suo personaggio”.
Non dico che sia un complimento, ma per me il personaggio ha funzionato proprio perché la signora non l’ha sopportato, perché, quando tu non sopporti qualcuno, significa che quel qualcuno non ti è indifferente; e quell’attrito dice qualcosa a te, di una tua mancanza, di un voler essere, di un non voler essere.
Faccio sempre l’esempio di Madame Bovary, c’è un lettore un po’ ingenuo che dice: “Emma Bovary mi sembra una cretina, non capisco come sia possibile dedicare tante pagine a un personaggio così stupido”, ma non ti rendi conto che Madame Bovary sei proprio tu, tutti noi lo siamo. Non esiste una persona che io conosca che non viva uno scarto disperante tra la vita cosiddetta autentica e la rappresentazione di quella vita.
Se voi pensate oggi all’autorappresentazione che facciamo nei social, non c’è nessuno che somigli veramente a quello che condivide di sé. In quel momento la rappresentazione è dominante perché ti illudi che la tua vita sia qualcosa che, visto da fuori, può suscitare ammirazione, invidia, interesse; cosa che in molti casi non è.
Quindi, Mauro Barbi non fa altro che portare in essere, in modo grottesco, una sorta di spinta che qualche volta abbiamo avuto e che per fortuna abbiamo negato.
Quando ho scritto il romanzo, ho ripreso le mail del 2011 di persone che non sentivo veramente da un sacco di tempo, e mi sono chiesto perché non le sento da un sacco di tempo, com’è che le persone entrano ed escono nella nostra vita. Se mi fossi messo lì a rispondere sarei sembrato veramente pazzo e probabilmente anche molto prepotente, perché dovevo rientrare nella vita di una persona che non sentiva da anni.
Quindi quello che io, e forse nessuno, può e vuole fare perché richiede avventatezza e forse un po’ di follia, il personaggio si incarica di farlo, mettendo in evidenza questa impossibilità di risaldare quei legami che si è perso per trascuratezza, per distrazione, per imperizia, per egoismo, ma anche semplicemente perché spesso la vita ti allontana dalle persone.
E magari vorresti anche trattenere tutti, ma non è possibile. Però, dubito che, a prescindere dal fatto che il mio romanzo piaccia o non piaccia, ci sia una persona nel mondo che non abbia avuto la voglia di risentire qualcuno che non sentiva da un sacco di tempo e magari andare proprio a chiedergli cosa sia successo in tutto questo tempo.
Nonostante questo, non credo che sia impossibile ritrovarsi nella vita, però tante volte la dispersione, la separazione è qualcosa che devi accettare e basta: è inutile fare il Mauro Barbi di turno e riconvocare gli assenti.
C.C.N.: Mauro Barbi per professione si occupa di disastri climatici e questi nel libro vengono accostati ai disastri esistenziali che vive il protagonista. Che tipo di correlazione c’è tra questi due tipi di disastri, quale dei due innesca l’altro, c’è una reciprocità anche proprio in generale al di là della storia di Mauro Barbi?
P.D.P.: Io ero partito da una mia lettura del tutto personale che non era legata a nessun progetto di scrittura che è Storia culturale del clima, di Wolfgang Behringer (Bollati Boringhieri, 2016) dove viene fatta una storia del clima sul pianeta Terra e da cui si deduce che la potenza dello sbalzo climatico, che oggi è determinato da ragioni antropiche, nel corso della storia è stata una costante.
La vita sulla Terra è stata segnata da violentissimi sbalzi climatici, estremi freddi, estremi caldi, che hanno reso la vita su questo pianeta impossibile.
A me affascinava moltissimo l’idea che, come la vita del pianeta è segnata dai disastri, dagli sbalzi violenti, così la vita di un singolo essere umano è segnata dai disastri esistenziali. Le cose che veramente ci hanno segnato nell’esistenza sono state le temperature estreme, la passione d’amore o erotica che fa salire la temperatura, il gelo di certi dolori o di certe separazioni.
Faccio queste assimilazioni tutte giocate sulla meteorologia verso la fine del libro dove dico, la secca della speranza, l’acquazzone tropicale che ti dice qualcosa del desiderio che stai provando, la grandinata dell’umiliazione.
Tutto quello che una persona vive di più forte nella vita è probabilmente assimilabile a un estremo climatico e tra l’altro, anche il libro di Dario Voltolini sempre in lizza allo Strega – il titolo è Invernale (La Nave di Teseo, 2024; qui puoi leggere la recensione di Ludovica Accardi, ndr.) – ma è ambientato nell’estate dell’82 quando muore il padre.
Il clima esterno non necessariamente si adegua al clima interiore; e a volte si finisce per rimpiangere la turbolenza di un rapporto che ti dava la sensazione di essere più vivo di quanto tu non sia sdraiato su un’amaca in una bella giornata neanche troppo calda.
Il clima è per sua natura instabile e anche l’esistenza umana ha queste fondamenta gettate su un terreno profondamente instabile. Mi sembrava che parlare di climi interiori in un momento in cui siamo molto giustamente preoccupati per i climi esterni poteva essere interessante.
Inoltre, in Romanzo senza umani invece di parlare del grande caldo, che è il problema dello sbalzo climatico attuale, io parlo del grande freddo perché credo che la letteratura non debba essere troppo ancella dell’attualità.
Nel libro ho cercato di far riflettere sull’estremo climatico, non in modo diretto parlando dell’attuale situazione climatica ma raccontando l’altro estremo, quello del grande freddo, il cui esito sulla comunità umana è comunque assimilabile. Il punto non è il caldo o il freddo in sé, ma l’estremo caldo e l’estremo freddo perché entrambe queste condizioni non ci consentono di vivere come vorremmo.
C.C.N.: Per tornare invece su Mauro Barbi, utilizza il meccanismo della memoria, ripercorrendo il suo passato, ma anche il passato potenziale; quindi, sia quello che è successo ma anche ciò che sarebbe potuto succedere e che non è successo. Secondo lei questo meccanismo è positivo? Barbi è un personaggio positivo?
P.D.P.: Positivo non direi, è un personaggio molto in chiaroscuro, le cui intenzioni positive non determinano quasi mai effetti altrettanto positivi, perché più che un inetto è un essere umano troppo inadeguato e insicuro della sua capacità di alimentare una relazione, di fare qualcosa che non riguardi lo studio.
Questa dimensione un po’ intellettuale – o intellettualistica – è tipica di certi personaggi (e persone) che hanno destinato le loro energie allo studio, e appena escono da quella zona di comfort si sentono del tutto impreparati. In questo tratto c’è anche una parte di me, benché io non sia uno studioso e non sia ancora un uomo di mezza età: ho spostato il personaggio di Mauro Barbi più avanti sulla linea del tempo e ne ho fatto uno studioso di un segmento minimo della storia moderna.
Anche io, come lui e come molti altri, ho cercato nella scrittura la compensazione a qualcosa che nella vita non mi bastava. Infatti, per me scrivere è stato un modo per sentirmi compreso, non essendo del tutto a mio agio in molte delle circostanze della vita cosiddetta pratica. Per esempio, notavo che quello che agli altri risultava facile, nelle relazioni e nei legami, a me veniva molto più difficile.
Mauro Barbi, quindi, non è un personaggio proattivo o estroflesso; al contrario è molto chiuso e introflesso, ma non per questo privo di emozioni. Un errore che si può fare è assimilare l’incapacità di manifestare le emozioni all’assenza di emozioni: è questo uno dei problemi principali della vita di Mauro Barbi.
Questo si chiarisce nel finale del libro, quando si fa riferimento alle parole che devono scongelare. Ho ripreso questa metafora da La vie de Gargantua et de Pantagruel di François Rabelais, un romanzo di Tardo Cinquecento con al centro la fuga di Pantagruel, in un Paese in cui le parole ghiacciano, e scrive che, se c’è un Paese dove le parole ghiacciano, deve esserci anche un paese dove le parole disgelano.
In questo mi rispecchio molto, perché anche io ho cercato le parole che scongelassero, però se quest’ultime le metti nei romanzi e non le metti nella vita rimane un problema.

Qualche volta ho sperato che qualcuno mi capisse attraverso i romanzi che scrivevo, ma era una pretesa assurda, perché non puoi risolvere o pretendere di risolvere con la scrittura qualcosa che non riesci a risolvere nella vita. Quindi, Mauro Barbi è un personaggio impacciato e in bilico, non è un uomo risolto, però la sua incompiutezza è comune.
Tendo a diffidare molto di questa idea patinata dell’esistenza, molto contemporanea, dove tutto è self help, un vademecum esistenziale, dove se tu segui tutti i punti arrivi a essere il governatore della tua vita. La realtà è che le nostre vite sono piene di inadempienze, di fallimenti, e di alibi che cerchiamo per coprire i nostri insuccessi.
Non è una visione negativa, ma mi sembra un punto di vista più lucido e meno edulcorato rispetto alla costruzione del mito di te stesso che poi naufraga alla prima occasione. La letteratura può incaricarsi di rivelare la tua parte in ombra invece che la tua parte in luce, e questa mi sembra una delle ragioni per cui vale la pena leggere.
C.C.N.: Per rimanere sul personaggio di Mauro Barbi, una delle sue paure principali è quella di mettersi a nudo di fronte agli altri, di scoprirsi, ma questa credo sia anche una paura che accomuna tutti gli esseri umani. Cos’è che non permette a Mauro Barbi di vincere questa paura e cosa potrebbe fare ognuno di noi per cercare di vincerla?
P.D.P.: Questo denudarsi, scoprirsi, potrebbe essere letto sia in termini letterali che metaforici. A un certo punto nel romanzo Mauro Barbi si trova in un paesaggio termale dove si denuda fisicamente.
C’è una tipica componente italiana controriformista, secondo me, che ci abitua, salvo forse proprio le generazioni più giovani, a un senso del pudore così introiettato per cui anche mettersi in costume da bagno per alcuni è traumatico, a prescindere dal fatto di somigliare o non somigliare all’ideale canone.
Devi fare i conti col tuo corpo e col fatto che stai in mezzo ad altri corpi, e non per tutti è una cosa semplice. Io come personaggio stavo in un contesto termale in cui effettivamente la nudità non è nemmeno performativa, performante, sessualizzata.
Ciascuna di quelle persone aveva accettato un codice non scritto, l’idea che noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo. E quando dico di avere un corpo è come se io mi staccassi dal mio corpo, e penso che non sono nient’altro che un corpo nel tempo, che quindi invecchia, che porta i segni del tempo che passa, dell’imperfezione, della malattia; anche lo splendore estetico è qualcosa di passeggero, destinato a sfiorire, ad appassire, e dunque non esiste un corpo che vinca la lotta della sopravvivenza nel tempo.
La difficoltà del denudarsi sta nella difficoltà che abbiamo nel riconoscerci tutti fallibili e difettosi: non ti guardo più come corpo inferiore o superiore, secondo un ideale di attrazione o erotizzazione, ma ti guardo come un essere umano che comunque è nato senza vestiti.
Moravia diceva che i vestiti sono il mondo e con questo intendeva dire che l’abito è un processo culturale che corregge , che ci definisce socialmente. Il modo in cui cominci a mostrarti al mondo non passa dalla nudità, ma la nudità è originaria e anche finale. La fatica che fa Barbi è di accettare questo codice non scritto per cui comprendi di essere difettoso, fallibile e sei un corpo tra corpi.
Oggi apprezzo molto certe istanze legate al contrasto a ogni forma di body shaming perché, quando una società accetta i corpi e le loro differenze, è come se ritornasse a se stessa, riacquisendo una verità primitiva: la verità della differenza anche da un punto di vista genetico ed evolutivo.
Italo Calvino, nella Giornata d’uno scrutatore (1963), fa una riflessione molto interessante. Il protagonista del libro, Amerigo, è in un sanatorio, una struttura nosocomiale in cui sono ricoverate persone con gravi disabilità fisiche e fa questa riflessione: “io sono quello anormale in un mondo che diventa normale in quel contesto, perché prevale quella norma abnorme della difformità”. Tutto, dice Calvino, è una questione di punto di vista: che cosa è normale, rispetto a quale parametro?
Questo è il percorso che prova a fare Barbi, senza arrivando al risultato di effettiva rimozione di blocchi e paure. Per raggiungere questo risultato ti devi denudare, destrutturare, devi cominciare a toglierti questi strati fino ad arrivare a una radice di te che in fondo è anonima, sullo stesso piano di chiunque altro.

In questa nudità si rispecchia una grande libertà dalle questioni sociali e relazionali.
C.C.N.: Passando ora al tema ambientale e climatico di cui parlava prima, secondo lei il suo romanzo può rientrare nel filone di studi dell’ecologia letteraria?
P.D.P.: Sicuramente Romanzo senza umani è stato molto influenzato da La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile di Amitav Ghosh (Neri Pozza, 2017). Al centro di questo saggio c’è l’idea che uno scrittore abbia il compito di raccontare quello che altri non riescono a raccontare. Ghosh sostiene che la catastrofe climatica diventerà persuasiva quando sarà incamerata come coscienza etico-politica. Oggi non è ancora così, perché rimane una questione di interesse solo per le generazione più giovani.
Amitav Ghosh a un certo punto si chiede: “Si può rendere poetico lo scioglimento di un ghiacciaio?”. Io mi sono posto questa domanda ancora prima che nascesse il personaggio di Mauro Barbi.
Inizialmente, avevo un’idea molto vaga di un romanzo che partisse da un paesaggio dilaniato, quello che mi affascinava era provare a descriverlo in modo poetico. Questo ha a che fare con le sollecitazioni che vengono dalla letteratura di stampo ecologista, che si pone l’obiettivo di rendere narrativamente interessante il tema della crisi ambientale.
C.C.N.: Considerato il timbro che è presente nel frontespizio del libro, in cui vi è scritto “questo romanzo non è prodotto da un’intelligenza artificiale” (sul tema, puoi leggere questo articolo), questo romanzo si pone in contestazione con l’intelligenza artificiale?
P.D.P.: Personalmente, non ho nessun tipo di angoscia apocalittica o antitecnologica verso l’Intelligenza Artificiale; non si può rallentare un progresso di conoscenza e di tecnologia, al massimo si può governare l’esito di una conoscenza tecnica o scientifica.
Credo che valga la pena che l’intelligenza artificiale intervenga per esempio in campo biomedico, in particolare nella cura di malattie complicate. In più, porterà un progresso in molti campi, ma in quello della creatività c’è un rischio già in atto, ovvero quello di confondere ciò che è prodotto dall’umano con ciò che è prodotto dal non umano, o in collaborazione con il non umano.
Può produrre risultati creativi che non hanno bisogno praticamente dell’umano, e quei risultati sono facilmente assimilabili o confondibili con risultati della creatività puramente umana.
Ho l’impressione che il timbro che ho messo all’inizio del libro, che adesso sembra una provocazione, tra qualche tempo sarà ammesso, perché sarà necessario distinguere il prodotto dell’intelligenza umana dal prodotto dell’intelligenza artificiale.
Insomma, sottolinea che il libro nasce dalla singolarità umana e che ha un valore specifico dato dal fatto che sia il frutto del mio ingegno, delle mie paure, delle mie ansie e della mia capacità verbale. Quindi, quel timbro non è inserito in maniera giocosa, anche perché il romanzo si intitola Romanzo senza umani: è anche un modo per chiarire che c’è del materiale umano e non umano.
Intervista a cura di Chiara Celeste Nardoianni, con la collaborazione di Vittoria Ronchi.
(In copertina, Paolo Di Paolo da Repubblica)
Questa intervista a Paolo Di Paolo, autore di Romanzo senza umani, fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2024. Per approfondire il tema, leggi la nostra recensione, a cura di Chiara Celeste Nardoianni.