“Challengers” (2024), l’ultimo film di Luca Guadagnino, segue lo sviluppo dei rapporti fra i tennisti Tashi Duncan (Zendaya), Art Donaldson (Mike Faist) e Patrick Zweig (Josh O’Connor), al centro di un triangolo di amore, rivalità e rancore che evidenzia la complessità dei sentimenti umani quando entra in gioco la competizione – ricorrente nello sport, come nelle relazioni.
Una storia in tre, un amore a tre
Scena 1: presente presente. Il match finale del Challenger di New Rochelle (New York), nell’agosto del 2019, vede scontrarsi i tennisti Art Donaldson e Patrick Zweig.
Tashi Duncan li osserva dagli spalti.
Scena 2: presente-passato, ossia gli eventi delle due settimane precedenti alla finale, per capire come i protagonisti siano giunti a New Rochelle. Art è un tennista professionista che, dopo una carriera di successo, sta iniziando a perdere fiducia nelle proprie capacità sportive.
La moglie e coach Tashi lo iscrive a un torneo di seconda categoria in cui può incontrare avversari di livello inferiore, nel tentativo di fargli aumentare l’autostima con qualche vittoria facile.
In contemporanea, anche Patrick giunge a New Rochelle: è un tennista ormai poco conosciuto, anche se da ragazzo ha partecipato a diversi tornei più acclamati ed esclusivi, e ora ha un disperato bisogno di soldi.
Scena 3: passato passato, tredici anni prima, quando i tre protagonisti si sono conosciuti, e oltre: emergono la profonda amicizia fra Art e Patrick ventenni e il cambiamento che li travolge quando conoscono Tashi, al tempo una giovane tennista prodigio.
La relazione fra i tre culmina in un grave infortunio al ginocchio subito da Tashi durante un torneo organizzato a Stanford, dove frequenta il college insieme ad Art. Direttamente e indirettamente, questo incidente modifica le traiettorie delle vite dei personaggi e interrompe le due grandi relazioni del film: quella di Tashi con il tennis e quella di Art e Patrick.
(Solo) una questione di relazioni
Art, Patrick e Tashi comunicano più con gli sguardi che con le parole; anche perché, quando parlano, spesso fraintendono, di solito non capiscono, sempre si illudono. E in genere, comunque, parlano di tennis.
Quel tennis che a un primo sguardo superficiale è il centro di Challengers, ma solo in apparenza: in realtà, si tratta di un film che non parla di tennis; e questo perché il gioco è soltanto lo sfondo, leggero e inconsistente, su cui si innesta il tema che Guadagnino vuole raccontare, ossia le relazioni: meglio, le differenze tra le persone e tra le relazioni che queste sono in grado di tessere fra loro.
È una storia d’amore moderna, in cui Tashi domina la scena e controlla Art e Patrick, prima ragazzi e poi uomini, che non fanno altro che correre dietro a una pallina da tennis e rincorrere la stessa donna per tutta la vita. Art e Patrick, Patrick e Tashi, Tashi e Art: più volte, senza soluzione di continuità; anche perché non esistono altri personaggi e non abbiamo modo di conoscere i tre se non uno in funzione dell’altro.
I loro sono personaggi immaturi, incapaci di affermarsi individualmente: ogni mossa, ogni cambiamento, ogni decisione compiuta esiste perché esiste uno degli altri, in positivo come in negativo.
Poco dopo la metà del film Art e Tashi si rivedono in un diner, dopo tre anni dal loro ultimo incontro: in mezzo l’infortunio della ragazza, la lontananza, il tempo passato. Sembra una vita intera.
“Art”, Tashi si ferma un attimo e lo fissa negli occhi, “non mi hai detto se sei ancora innamorato di me”. Lui incrocia il suo sguardo: “chi non lo sarebbe?”. Ecco, l’amore in Challengers è questa scena, ed è un amore che non contempla la parola “fine”.
Cosa resta di… Tashi?
Eppure, se i due ragazzi si innamorano di Tashi subito, fin dalla prima volta che la vedono, e da quel momento non riescono a non pensare a lei, dall’altra parte la situazione è molto diversa, perché lei è già “impegnata” – per così dire.
L’unico vero amore della sua vita è il tennis, e forse è proprio attraverso il tennis che ama Art e Patrick; è la stessa Tashi a dirlo all’inizio, quando incontra gli altri due: “il tennis è una relazione”. Patrick e Art, invece, si amano di un amore vero e purissimo, e proprio per questo devono allontanarsi e passare dall’odio per tornare ad amarsi. Il tennis è il vero “quarto incomodo” di questa relazione-non relazione a tre.
Nella scena iniziale vediamo gli sguardi di tutti e tre i personaggi subito prima dell’abbraccio finale: Patrick e Art si guardano a vicenda; Tashi, dagli spalti, guarda entrambi, guarda la partita, il gioco, guarda il vero tennis.
Nel momento clou del film (che vediamo all’inizio, non sapendo niente, e poi di nuovo alla fine, una volta capito tutto), ogni personaggio guarda ciò che per la sua vita è veramente importante e in un certo senso non c’è più, perché entrambe le vere relazioni del film – quella di Tashi con il tennis e quella di Art con Patrick – sono destinate a non essere.
Dalla stessa scena del diner: “pensavi che tipo mi uccidessi dopo l’infortunio?”, chiede Tashi con un sorriso amaro – sa benissimo che qualcosa dentro di lei è morto, e questo la uccide ogni giorno. Perciò torna da Art: non ha nessun altro, e anche il tennis non c’è più.
Una storia di detti (e di non detti)
In Challengers Guadagnino “gioca la sua partita” quasi del tutto sulla comunicazione non verbale, caratteristica in primis dello sport al centro del suo film. Nel tennis non si parla: ognuno sta dal suo lato della rete, solo, distante dal proprio avversario; si comunica a gesti, a cenni, a sguardi.
In tutte le sequenze che mostrano i set della finale a New Rochelle, Art, Patrick e Tashi restano distanti, una sugli spalti e gli altri ai lati opposti del campo, e non riescono a comunicare a parole.
Lo spettatore si trova in mezzo a un triangolo di sguardi che si cercano, a volte si incrociano e a volte si mancano, dove ogni gesto è studiato per mostrare cosa stia succedendo realmente al di là del silenzio scandito dai rumori sordi della pallina colpita dalle racchette e dai versi di sforzo dei due sfidanti.
E, in modo analogo, anche l’unica altra partita della pellicola che vede sfidarsi Art e Patrick: la finale degli US Open, dove i due tennisti hanno conosciuto Tashi e il vincitore ha ottenuto il numero della ragazza.
Guadagnino mostra solo un frammento di questa partita, fondamentale nella trama di Challengers. Patrick fa punto, Tashi lo sta guardando dagli spalti. Lui si gira e i due si scambiano un’occhiata. Art, dall’altra parte del campo, osserva Tashi, e la guarda guardare Patrick. Lei non si volta verso Art e la partita va avanti.
Non viene mostrato il resto del match; questa sequenza di sguardi è sufficiente per dedurre il vincitore – sia della partita che di Tashi, almeno per quel momento – e il film stesso sembra accontentarsi di comunicare con lo spettatore per mezzo di gesti, senza bisogno di spiegazioni o discorsi superflui, proprio come i suoi protagonisti.
La sera prima (con qualche spoiler)
Con l’alternanza fra il terzo e ultimo set della partita e gli avvenimenti della sera prima, la storia si avvia verso la conclusione, e si svela così tutto ciò che è successo nei tredici anni precedenti al match con cui si è aperto, e ora si chiude, il film.
Questo set incarna il climax delle relazioni fra i personaggi – dopotutto, si è detto, “il tennis è una relazione” –, reso da una molteplicità di movimenti di macchina che accompagnano lo spettatore nella crescita di tensione e che culminano con il match point.
Intanto, il passato-presente si avvicina a questo presente presente. La sera prima del match, nella loro camera d’hotel, Art confessa a Tashi che vuole ritirarsi dal tennis – esattamente come aveva predetto Patrick. Poi, in vista dell’incontro del giorno dopo, le chiede di confermargli che non ha alcuna importanza quale sarà il vincitore, comunque vada la partita.
Tashi, piangendo, gli dice l’unica cosa che gli può dire: “se non vinci domani ti lascio”; non ha alternative, perché il ritiro di Art significherebbe perdere l’unico legame che le resta con il suo vero amore. E questo nessuno può accettarlo, anche se significa uccidere l’altra persona.
Poi, dopo aver aspettato che l’altro si addormentasse tra le sue braccia, scrive a Patrick, esce di notte dall’hotel e si fa venire a prendere in macchina. L’obiettivo è chiedergli di perdere volontariamente il giorno dopo, per ridare ad Art fiducia nelle sue capacità. Ma è anche un modo per uscire dalla prigione – e dalla noia e dall’abitudine – che è diventata il loro rapporto.
Challengers di Luca Guadagnino: il finale
Il giorno dopo, nella finale, si alternano diverse inquadrature soggettive, dal punto di vista di Patrick e di Art, rese con una macchina a spalla che dà un effetto di movimento e che simula le prospettive dei singoli personaggi, per farci vivere in prima persona il loro triangolo di sguardi.
Con la battuta di servizio del match point, la sequenza di inquadrature si fa più frenetica, la camera segue prima la prospettiva della pallina che, scaraventata da un lato all’altro della rete, incontra alternativamente la racchetta di Patrick e quella di Art.
Poi, la prospettiva si alza e il campo viene inquadrato dall’alto, dove il gioco prosegue, la pallina scatta da un giocatore all’altro, e i due continuano a rispondersi, instancabili. La tensione aumenta quando entrambi si avvicinano alla rete, il gioco si fa sempre più veloce, finché Art vede la possibilità di fare punto.
Salta in aria per battere l’ultimo colpo, nella foga della schiacciata finisce oltre la rete, dall’altra parte del campo. Patrick lo vede: non risponde al colpo, ma afferra Art al volo e i due crollano in un abbraccio sulla rete. Tashi esulta dagli spalti: quello era il buon tennis che voleva vedere.
Guadagnino si serve dei tre set della partita per simboleggiare i tre periodi di vita raccontati in Challengers: Patrick vince il primo, ed è lui a “vincere” Tashi quando sono giovani; Art vince il secondo, ed è lui a sposare e “vincere” Tashi da adulti; infine, tutti e tre vincono il terzo: Patrick e Art si ritrovano a vicenda, Tashi ritrova il vero tennis. Insieme.
E, in un qualche modo, è un ritorno all’inizio di tutto.