
La crisi che attanaglia da tempo gli Stati Uniti, l’unica potenza egemone dalla fine della Guerra fredda, fa sorgere dubbi sulla sua stabilità politico-economica. A partire dalle più tradizionali concezioni di imperialismo, è possibile definire i nuovi rapporti di forza fra le superpotenze emergenti e gli USA?
È possibile suddividere la storia in settori distinti, ma al tempo stesso definiti da caratteristiche comuni? Se si pone la questione da un punto di vista prettamente antropologico, la risposta può essere affermativa.
Nel susseguirsi delle società, in effetti, sembra possibile identificare schemi ricorrenti nei rapporti di potere. Consideriamo il ben noto paradigma della potenza egemone, che produce ripercussioni su due piani fondamentali: quello politico e quello economico.
Il connubio tre le tre potenze costituisce il nocciolo dell’idea di imperialismo, per cui si può far riferimento alla definizione del Conte Benjamin Disraeli, primo ministro del Regno Unito negli anni ’70 ed ’80 del XIX secolo.
Su questo esempio, in seguito, si sono definite le caratteristiche degli imperi coloniali europei del primo Novecento: sfruttamento intensivo delle risorse primarie della colonia e costanti sforzi militari per ottenere benefici in campo economico.

Imperialismo oggi: anacronismo o slittamento semantico?
Nel corso del Novecento, tuttavia, questa idea di ‘imperialismo’ è stata sottoposta a critiche serrate. Termini come ‘colonia’, ‘occupazione’ e ‘sfruttamento strategico’ stridevano non poco con gli ideali di un mondo occidentale votato al liberalismo e alla democrazia.
Possiamo sostenere, dunque, che il concetto di imperialismo risulta ormai anacronistico per descrivere il mondo contemporaneo?
Un’interessante riflessione in merito arriva da Ernesto Screpanti, docente di Economia all’Università di Siena.
Nella prefazione del suo lavoro L’imperialismo globale e la grande crisi (DEPS, 2013), lo studioso propone una sorta di scissione fra ‘imperialismo politico’, ovvero l’imperialismo nella sua accezione tradizionale, e un ‘imperialismo economico contemporaneo’. A proposito scrive:
Mentre in passato il capitale monopolistico aveva interesse all’innalzamento di barriere protezionistiche e all’attuazione di politiche mercantiliste, in quanto vi vedeva un modo per difendersi dalla concorrenza delle imprese di altre nazioni, oggi il capitale multinazionale vota per il libero scambio e la globalizzazione finanziaria.
Ernesto Screpanti, L’imperialismo globale e la grande crisi, p.7.
Screpanti sembra suggerire la sussistenza di due ordini di acquisizione e gestione delle risorse, che hanno plasmato le società umane in momenti diversi della storia.
Di certo, una cosa non è cambiata: l’umanità continua ad essere frammentata, organizzata in comunità e poi in Stati in lotta tra loro per proteggere i propri interessi o espandere le proprie influenze. Ciò che invece è cambiato radicalmente è l’economia o, meglio, il modo in cui l’umanità ha progressivamente perfezionato lo strumento economico.
Un binomio inscindibile
È così che l’economia si è insinuata in qualsiasi ambito della vita: dalla stabilità della politica interna alle relazioni internazionali in ogni loro forma, dai trattati di partenariato con Stati alleati a motivo di frizione o persino aggressione nei confronti dei competitor regionali e globali.
È per tali ragioni che suggerire una distinzione tra una forma di imperialismo economico ed una di imperialismo politico, come sembra fare Screpanti, non terrebbe conto di numerosi fattori comuni ad entrambi. In effetti, il lato economico e quello politico, lungi dall’essere distinti, si possono considerare un binomio inscindibile, dal momento perseguono il medesimo fine: implementare il benessere e la postura economica dello Stato.
Si potrebbe obiettare che esistono ragioni di matrice espansionistico-propagandistica irriducibili alle dinamiche dell’economia; ma non si potrà negare che, ancorché di nature differenti, propaganda e profitto sono correlati da un legame sin troppo evidente per essere trascurato.
La potenza egemone e il fattore economico
I benefici economici portano, per la verità, ad un risultato bifronte. Infatti, la conquista di nuovi territori e l’accesso a nuove risorse possono condurre a un vertiginoso aumento della forza di uno Stato, che ricalibrerà al rialzo le proprie possibilità, soprattutto in ambito logistico, infrastrutturale e di bilancio.
La definizione di nuovi parametri, tuttavia, presuppone che tali standard vengano quantomeno mantenuti.
Nel caso di un’espansione territoriale, però, gli equilibri su cui poggiano i nuovi parametri di stabilità sono precari come un castello di carte. E basta poco perché l’infrastruttura collassi.

Così è accaduto all’Impero romano, caduto per cause molteplici il cui peso relativo è ancora oggetto di dibattito come lo spopolamento, il logoramento interno, l’organizzazione stessa del sistema economico (fondato sulla schiavitù) e le cosiddette invasioni barbariche.
Lo stesso vale per l’Impero spagnolo, che ha visto progressivamente sfaldarsi il proprio predominio commerciale a causa delle continue rivolte nei possedimenti d’oltremare, arterie fondamentali di approvvigionamento economico.
La difficile situazione degli USA
Qualcosa di simile sembra che stia accadendo agli Stati Uniti, l’unica nazione la cui politica possa ancora essere definita imperiale in un’epoca in cui tale assetto, almeno sulla carta, si ripudia come la peste.
In un mondo iperconnesso, multiculturale e spaventosamente dinamico come quello contemporaneo, ciò che era diventato lo stallo alla messicana del secolo scorso, ovvero la suddivisione del mondo in sfere d’influenza, è divenuto quasi una necessità.
La presenza di una potenza egemone, con un relativo numero di antagonisti minori, ha contribuito a mantenere lo status quo, una bolla in cui il cosiddetto ‘mondo libero’ potesse fiorire non tanto a scapito, quanto in semplice contrapposizione al blocco avversario.

Ed è proprio lo status quo o, meglio, le sue possibili evoluzioni, che stanno portando alla crisi dell’egemonia statunitense. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica e, con essa, la scomparsa di un antagonista concettuale, gli americani si sono trovati nella (s)comoda situazione di essere la prima potenza – non però a livello continentale o extra-continentale bensì, per la prima volta, su scala globale.
Washington, dopo essersi data a maldestri tentativi di ‘esportazione della democrazia’, ha di recente compreso di aver costruito un castello troppo alto, che si regge su tre pilastri imbottiti di tritolo: l’Europa, il Medio Oriente e l’Indopacifico.
Si tratta di scenari in cui gli Stati Uniti ripongono asset economico-politici di importanza enorme, ma di cui non possono più occuparsi contemporaneamente: a mettere in difficoltà gli americani, questa volta, sono gli stessi interessi economici su cui essi basano la propria affermazione in campo internazionale.
Quattro teatri globali, molteplici scenari possibili
E il paradosso sta proprio qui: perché ritirarsi sarebbe tanto dannoso per gli americani quanto mantenere i propri sforzi nelle tre regioni, se non di più.
Un passo indietro degli USA porterebbe a conseguenze irreversibili in tutti e tre i contesti geopolitici sopracitati.

Un allontanamento dal teatro europeo allargherebbe le crepe già aperte dalle diverse posizioni all’interno della stessa UE, distribuite in uno spettro che va dal boots on the ground di Emmanuel Macron alla scomoda situazione di chi non può (né tantomeno vuole) rinnegare i propri legami privilegiati con la Russia e Vladimir Putin, come Viktor Orbán.
Lo scenario mediorientale
Un ritiro dallo scenario mediorientale, d’altra parte, avrebbe conseguenze disastrose per Washington — si ricordi la precipitosa ritirata dall’Afghanistan nel 2021 — ma condurrebbe soprattutto ad un aumento dell’instabilità in quella che è una vera e propria polveriera, in cui Israele, l’Iran, gli Stati Arabi e le varie milizie sunnite e sciite stanno stretti come non mai.
Infine, non portare avanti le iniziative di cooperazione con gli alleati nell’Estremo Oriente (Australia, Corea del Sud e Giappone) agevolerebbe scenari a dir poco destabilizzanti. Due su tutti: un’ulteriore peggioramento dei rapporti fra le due Coree e la possibile invasione di Taiwan da parte della Cina, che sancirebbe così la definitiva consacrazione dell’imperialismo cinese anche dal punto di vista militare.
Il ritiro americano da questi scenari si farebbe molto più concreto nel caso in cui le elezioni del prossimo novembre sancissero il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, e con lui delle politiche isolazioniste ispirate al cosiddetto America First che buona parte dell’elettorato conservatore auspica a gran voce.
A tutto ciò si sommi la condizione del continente africano, ricchissimo di materie prime e caratterizzato da Stati giovani, artefici di un considerevole sviluppo industriale ed economico, con cui i diretti competitors degli USA (Cina e Russia in testa) non vedono l’ora di instaurare rapporti politico-commerciali sempre più stretti.

Potenza egemone e declino: esiste una ‘decrescita felice’?
Di fronte a tante e tanto grandi sfide, sembra logico che gli Stati Uniti dovranno stilare un chiaro elenco di priorità geopolitiche. Ma, là dove la presenza americana scomparirà o si ridimensionerà, come gestire il delicato passaggio verso una postura remissiva e inevitabilmente rinunciataria?
La storia più recente non sembra ammettere molte soluzioni. L’unico impero, infatti, che si è ridimensionato senza subire un tracollo totale dal punto di vista economico-politico è quello che, in qualche modo, ha mantenuto stretti legami con i territori un tempo conquistati: l’Impero britannico, che attorno ai propri domini ex-coloniali ha saputo creare la rete del Commonwealth.
Si tratta di legami che, al contrario, gli Stati Uniti non hanno mai voluto, né tantomeno saputo stringere con le aree del pianeta che ora scottano.
Prospettive per la ‘nuova fase’ dell’egemonia statunitense
Scindere i concetti di imperialismo economico e imperialismo militare, l’abbiamo detto prima, è impossibile. L’uno è parte integrante e linfa vitale nonché, in ultima analisi, anche tallone d’Achille dell’altro.
Nelle forme di imperialismo finora intese come ‘tradizionali’, la crisi di uno dei due pilastri è stata determinata da cause esterne, fuori dal proprio controllo (insurrezioni, crisi economiche o attività di Paesi ostili).
Nel caso degli Stati Uniti, i fattori di destabilizzazione sono il vettore per un cambiamento programmatico della propria politica internazionale. Resta da vedere se ‘l’impero del mondo libero’ sarà in grado di reggere l’urto del proprio ridimensionamento.
Matteo Minafra
(In copertina, immagine da Freepik)