Cultura

“L’età fragile” di Donatella di Pietrantonio e l’arte di ricostruire sé stesse

L'età fragile copertina articolo

Una valanga irrompe nella nostra vita e il tempo si ferma. Come possiamo ricostruire noi stesse dopo una frana? È questa la domanda intorno a cui ruota “L’età fragile” (Einaudi, 2023), il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, candidato al Premio Strega 2024 e già vincitore del Premio Strega Giovani (leggi la nostra intervista). Al centro della vicenda, Lucia e Amanda, madre e figlia, che tentano di rinascere dalle loro stesse macerie, sostenendosi con la dolcezza delle loro fragilità.


La storia narrata: un fatto di cronaca?

In L’età fragile di Donatella di Pietrantonio, sono stati i lupi; d’altronde, chi potrebbe essere il responsabile della morte di due ragazze nel territorio abruzzese del Dente del Lupo, che contiene questi animali feroci fin dal suo toponimo?

È questa la prima spiegazione che la piccola comunità locale vuole darsi, una volta rinvenuti i corpi esanimi delle sorelle Tania e Virginia Vignati, in vacanza al campeggio ai piedi del torrione roccioso.

Ma il tragico evento viene subito riconosciuto come stupro e omicidio. Il rassicurante paesino che avrebbe giurato di essere il posto più sicuro al mondo, dove tutti gli abitanti si conoscono e si vogliono bene, si ritrova da un giorno all’altro protagonista di un caso di cronaca nera, di visibilità nazionale.

Così, la realtà diviene evidente a tutti: il male non inquina solo le grandi città, ma può insinuarsi anche lì, in quel luogo che i suoi cittadini credevano incontaminato e immune dalla violenza.

L'età Fragile 2
Copertina di L’età fragile, di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi, 2023).

Per ammissione dell’autrice stessa, l’episodio raccontato prende ispirazione da un fatto di cronaca degli anni Novanta, avvenuto sulla Maiella, nell’Appennino abruzzese, che coinvolse tre ragazze: Diana Olivetti, Silvia Olivetti e Tamara Gobbo.

L’età fragile, di Donatella Di Pietrantonio: una storia familiare

A narrare la vicenda è Lucia, che all’epoca dei fatti aveva vent’anni ed era la migliore amica di Doralice, l’unica ragazza sopravvissuta alla mattanza. “Poteva succedere anche a me”, dice infatti fra sé e sé la donna.

Oggi quel passato sembra sommerso, un brutto ricordo. Ma questa storia è la dimostrazione che il passato non si può cancellare, e che continua a produrre effetti anche nel presente. Infatti, Lucia ha una figlia di nome Amanda, che dopo essersi trasferita a Milano per l’università, con le chiusure predisposte dalla pandemia, torna a casa, chiudendosi in un silenzio e un’apatia che preoccupano la madre e che le fanno pensare: “forse sto perdendo mia figlia” (p. 39).

Ed è proprio questo malessere della figlia a indurre Lucia a ripercorrere quei terribili giorni della sua giovinezza, dopo i quali il Dente del Lupo non è più stato il luogo spensierato delle sue estati, ma per sempre un teatro d’orrore.

Nonostante questa memoria infausta, la vicenda insegna che, a un certo punto, è necessario fare i conti con il proprio passato, se si vuole davvero rielaborare un trauma.

Una violenza che si dirama nel tempo e nelle generazioni

In questo romanzo la violenza sembra un patrimonio genetico che si trasmette di generazione in generazione. In effetti, in questa storia le donne non riescono a salvarsi da una società che le vuole docili, sottomesse, senza grandi pretese.

Sebbene Tania, Virginia e Doralice abbiano pagato il prezzo più alto, un destino di violenza si dipana in un unico filo che tiene unite tutte le donne del romanzo e attraversa le epoche storiche. Infatti, il padre di Lucia: “voleva un figlio e sono nata io. Mia zia è uscita dalla camera e gli ha detto: però non ti incazzare” (p. 32).

D’altronde, anche la madre di Lucia ha vissuto una vita completamente sottomessa alla volontà del marito, che l’ha pretesa madre, moglie e lavoratrice: “[…] mia madre si è dovuta ammalare per riposarsi. Prima il suo sposo non le ha dato tregua, la voleva uomo in campagna e femmina in casa” (p. 21).

Amanda, la figlia di Lucia, è tornata spenta dalla città che doveva aprirle le porte del Paradiso della giovinezza. Qualcuno le ha mollato uno schiaffo una sera che stava tornando a casa da sola, per poi rubarle la borsetta.

Anche la Dottoressa Grimaldi, che al tempo condusse le indagini, si ritrovò sotto una lente d’ingrandimento per tutta la durata dell’inchiesta, per il solo fatto di essere una donna e di ricoprire una carica che, proprio per il suo genere, ad alcuni faceva storcere il naso.  

“In aprile la Grimaldi è andata tre giorni a Ischia, non è sfuggito ai cronisti. Due ragazze assassinate senza pietà, una famiglia distrutta e lei si prendeva una vacanza sull’isola, a processo ancora aperto. Che coraggio, hanno scritto” (p. 149).

Reagire a una violenza, ma come?

Dolorice sconta la colpa di essere sopravvissuta al massacro. A lei la pena di rivivere ancora quella notte, raccontandola ai giudici, alla corte, e di trattenerla per sempre, vivida, nella sua mente.

Questo libro ci invita a chiederci come si possa sopravvivere a una violenza, quali siano gli strumenti spendibili, e dove si trovi il coraggio di non farsi schiacciare dal dolore, ma di trasformarlo in un’energia positiva. Dovremmo chiederlo alle survivor, le sopravvissute a episodi di violenza di genere.

La storia narrata ci spinge anche a chiederci quale sia il miglior modo per stare al fianco di una survivor, come si possa sostenerla e supportarla. Lucia, infatti, rimpiange di non essere riuscita a stare vicina all’amica Doralice, come avrebbe voluto, ma soprattutto di non essere stata capace di trovare le parole giuste per confortarla.

Probabilmente non esistono parole capaci di restituire atrocità come queste, la lingua non può dare la misura di una violenza tanto efferata, e di certo, da sola, non può lenirla. Ma, forse, possiamo partire da quelle più semplici, più immediate, per mostrare il nostro sostegno.

Oggi Lucia si sente di essere stata, ancora una volta, inadeguata a curare le ferite delle persone che ama di più. Dopo lo schiaffo del rapinatore qualcosa in Amanda si è rotto.

Per questo Lucia si rimprovera di non essere stata vicinia alla figlia come avrebbe dovuto, di non aver trovato, ancora una volta, le parole giuste e di aver pensato che: “in fondo non era successo nulla di grave” (p. 47).

Le narrazioni mediatiche dei femminicidi

Questo libro descrive un certo tipo di giornalismo sensazionalistico, che invece di fare delle inchieste e utilizzare un linguaggio adeguato ai temi che affronta, tende a scivolare in luoghi comuni. Erano gli anni Novanta del secolo scorso, quando la narratrice ci racconta dei giornalisti che incalzavano la superstite Doralice con domande tendenziose, una volta uscita dalle udienze del processo.

Nelle testate, infatti, la survivor diventa “la cerbiatta” (p. 127) e l’assassino “il mostro” (p. 138), come se raccontassero la favola di Cappuccetto Rosso e non una vicenda di violenza.

Questo linguaggio inappropriato e offensivo, ancora oggi, inquina l’informazione italiana (non solo a livello locale), riducendo la complessità di un fenomeno sociale a delle figure stereotipate e rassicuranti. La vittima e il carnefice ci piace immaginarceli così: lei giovane ingenua caduta in una trappola, e lui un mostro dai connotati bestiali.

Queste categorie ci aiutano ad assolverci e a instaurare una distanza tra noi e quello che è successo, per farci sentire cullati dalla certezza che “no, a noi non potrebbe mai succedere”. Di Pietrantonio rielabora queste categorie, le stempera, le sfuma.

Doralice non è solo una vittima che subisce, è anche la ragazza coraggiosa che si presenta a ogni udienza e lucidamente ricostruisce ciò che è successo quella notte, come in una perizia chirurgica. Ed è anche la donna che a un certo punto si emancipa dal paese e decide di ricostruirsi una vita in Canada. L’assassino, invece, Vasile Hirdo, “non era cattivo” (p. 132), era un ragazzo immigrato senza una famiglia alle spalle, vittima anche lui di un’esclusione sociale.

Questo non va a depotenziare la gravità dell’assassinio, ma aiuta a trovare una logica, una razionalità dietro ad atti come questi che troppo spesso, ancora oggi, ci vengono descritti come raptus illogici e improvvisi.

Chiara Celeste Nardoianni

(In copertina l’immagine scelta da Einaudi per L’età fragile, di Donatella Di Pietrantonio; foto di Diana Lyovkina/Arcangel Images)


Questa recensione di L’età fragile, di Donatella Di Pietrantonio, fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2024. Per approfondire, leggi anche la nostra intervista a Donatella Di Pietrantonio.

Premio Strega.
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