
Adrián Bravi è l’autore di “Adelaida” (Nutrimenti, 2024), libro candidato al Premio Strega 2024. L’amicizia con Adelaida Gigli, la storia dell’Argentina e il valore della memoria sono solo alcuni dei temi affrontati nell’intervista, condotta da Beatrice Russo di Giovani Reporter.
Beatrice Russo: Partiamo da una domanda più leggera: come ci si sente a essere stati selezionati nella dozzina semifinalista per questa edizione del Premio Strega? Se lo aspettava?
Adrián Bravi: Sinceramente no, non lo avevo mai contemplato. Anche i libri precedenti che ho scritto non mi sembrava che potessero partecipare allo Strega. Poi è successo, si sono date delle circostanze, c’è stata quella bellissima lettera di sostegno di Romana Petri. È un sogno!
B.R.: Nel Suo libro, Adelaida, parla di Adelaida Gigli, un’artista italo-argentina che è stata anche una sua cara amica. Quando nasce l’idea di scrivere un libro su di lei?
A.B.: Quando ero appena arrivato a Recanati, alla fine degli anni Ottanta, conoscere una persona che era stata la protagonista dell’Argentina degli anni Cinquanta e Sessanta mi sembrava inverosimile. Però, ecco, siamo diventati amici.
Ho cominciato a pensare al libro quando lei è stata ricoverata, non appena ha manifestato i primi sintomi di Alzheimer.
Dovevamo sgomberare il suo appartamento e, dato che c’erano diverse cose che rischiavano di essere buttate via, le ho prese io.
Da quel momento in poi avevo pensato di scrivere qualcosa, ma era sempre doloroso; non avevo mai il coraggio di affrontare quell’impegno che avevo preso in quel momento con me stesso.
Poi, un paio di anni fa, un nipote di Adelaida – figlio del fratello – mi ha sollecitato a scrivere questa storia e mi ha inviato le lettere che Adelaida scriveva sia al fratello che al padre, tutte digitalizzate. Lì ho scoperto un’altra persona, che prima non conoscevo.

L’ho vista nella sua intimità: per esempio, parla di cosa aveva provato quando era scappata dall’Argentina per andare in Brasile. Ecco, quelle lettere sono strazianti: una donna già grande, con una figlia che era certa fosse stata uccisa o, quantomeno, rapita dai militari, costretta ad andare via.
C’è sempre questa immagine di Adelaida che si sente fluttuare in aria come un palloncino che non sa quale sarà il suo destino. Ecco, tutte queste sensazioni mi hanno portato a scrivere questa storia.
B.R.: La peculiarità del Suo libro risiede nel fatto che non si tratta di una biografia convenzionale e asettica; Adelaida è raccontata anche attraverso i Suoi occhi. La storia che Lei scrive inizia nel 1976, col rapimento di Mini, la figlia di Adelaida. Come mai ha deciso di aprire il libro con questo episodio e, soprattutto, con questo personaggio?
A.B.: È una di quelle storie che cominciano in medias res. La vita di Adelaida prima di quel giorno è stata abbastanza tranquilla, anche se molto movimentata. Una vita con delle sicurezze. Quel periodo, non appena si è insediata la dittatura, ha sancito uno spartiacque nella sua vita e da lì lei è cambiata completamente.
A maggior ragione le è cambiata la vita nel momento in cui scompare la figlia. E quindi io ho voluto iniziare da lì perché è in quel momento che c’è una svolta non solo per tutta la famiglia – soprattutto per lei – ma anche per la storia dell’Argentina. Come Mini, molti altri hanno fatto quella fine.
Nessuno si aspettava l’efferatezza assoluta di quel colpo di Stato così violento; perciò, mi è sembrato giusto iniziare da lì.
B.R.: Emerge molto bene come Adelaida e la sua famiglia hanno vissuto il dramma della dittatura. Se posso farLe una domanda un po’ personale, Lei appartiene a una generazione diversa rispetto a quella di Adelaida: come ha vissuto quel periodo?
A.B.: Anagraficamente sto tra i figli e i nipoti di Adelaida, perché io sono nato nel ’63, i figli intorno al ’55 e le nipoti nel ’75. Quando cominciò la dittatura avevo 13 anni, quindi non mi rendevo perfettamente conto di quello che stava accadendo, anche se devo dire che qualche mese prima dell’insediamento dei militari mio padre aveva ricevuto delle minacce, che racconto nel libro.
Quando è arrivato Perón nel ’73 si istituisce la Triple A, l’alleanza anticomunista argentina: sebbene mio padre non avesse niente del comunista, bastava molto poco per rientrare nel mirino della Triple A. Si sono limitati solo a quello, dato che la dittatura non si era ancora insediata: se ci fosse stata, mio padre non ci sarebbe più stato. Quindi, è arrivata la dittatura nel marzo del ’76, e allora io ero un ragazzo.
Non mi rendevo conto della gravità della situazione: vivere in un Paese militarizzato sembrava una cosa normale; vedere in continuazione le macchine dei militari per strada ed essere fermato sembravano cose all’ordine del giorno. Poi ho fatto la scuola durante la dittatura: anche lì, non ci si rende conto che a volte ci sono dei limiti; ad esempio, si studiano dei libri che ti impongono.
Se cresci in un contesto del genere ti sembra normale, ma poi capisci che normale non è. Fino a quando poi a 18 anni ho fatto il militare durante la guerra tra Argentina e Inghilterra, a cui non ho partecipato direttamente perché sono rimasto in caserma a Buenos Aires. Insomma, ho beccato la dittatura in pieno, nel periodo scolastico e durante il servizio militare.
B.R.: Come è cambiata l’Argentina dopo la dittatura cruenta di Videla? Si è parlato tanto anche in Italia dell’elezione di Javier Milei e del video in cui lui difende un numero preciso di desaparecidos, 8.753: c’è chi parla di negazionismo e revisionismo storico, argomenti quasi all’ordine del giorno, purtroppo, e a cui quasi nessun Paese è del tutto immune.
A.B.: Esatto. Devo dire che mi vergogno di avere un presidente così. Basti pensare al fatto che ha presentato il suo libro nel Luna Park, una specie di teatro, quasi uno stadio, e ha cantato come fosse una rockstar. Non mi sembra neanche vero che l’Argentina abbia scelto un personaggio di questo calibro.
Non solo lui, ma anche la vicepresidente Villarruel. Lei è figlia di un militare condannato, anche lo zio è stato condannato all’ergastolo per essere implicato nell’uccisione delle persone; quindi, c’è una tendenza al negazionismo.
Anche se fossero state una o due persone a scomparire, che cosa contano i numeri? Mettiamo che non siano 30.000, ma che siano quella cifra che lui ritiene. È più giustificabile questo? È più giustificabile la tortura? Perché ricordiamoci che i militari non si limitavano ad uccidere.
Praticavano una tortura protratta per anni. Ci sono testimonianze di chi ha visto Mini dopo anni dal rapimento. Allora perché tenere una persona lì, una ragazza di 22 anni, poi? Prima o poi ci saranno nuove elezioni, non so come andrà a finire. Io mi vergogno ad avere un presidente così.

B.R.: Perché si sente la necessità di riscrivere la storia? Quale valore ha per Lei la memoria, uno dei grandi pilastri del Suo libro, e come la si può esercitare ogni giorno?
A.B.: Rispetto alla memoria, io ho scelto di scrivere questo libro anche perché credo che Adelaida rappresenti uno spaccato della storia argentina e non solo. La sua personalità ci porta a fare i conti col passato, con la storia argentina e mondiale.
In lei si concentrano l’esilio, l’impegno politico e artistico, la tragedia, la solitudine, si concentrano tante caratteristiche del secolo scorso e, purtroppo, anche di questo. Quindi, la sua figura mi riporta a una memoria con la quale è necessario fare i conti. Se dovessi scegliere un’icona che rappresenti l’Argentina, sceglierei proprio la copertina con il suo volto.
Allora, perché noi attualmente viviamo questo periodo? Purtroppo, la memoria non è qualcosa che sta lì per sempre, neanche la democrazia. Bisogna guadagnarsele ogni giorno e difenderle in tutti i modi. Per esempio, quando vado nelle scuole, una cosa che ci tengo sempre a dire è che non bisogna dare per scontato il fatto di poter leggere ciò che si vuole, la libertà di opinione e di chiedere qualsiasi cosa. Ecco perché credo che ogni cosa vada guadagnata.
Se ci pensate, non è passato tanto tempo dalla dittatura argentina, solo quarant’anni. Non sono tantissimi. Quindi è una cosa molto attuale e il fatto di potere studiare in Italia e poter vivere in democrazia – per quanto possano essere discutibili certe affermazioni – credo che sia un privilegio che non deve essere dato per scontato.
B.R.: Lei affianca alla memoria l’immaginazione, due armi che – come scrive in Adelaida – non sono tollerate dalle dittature. Quando l’immaginazione può essere utile e non deleteria, cioè quando l’immaginazione rafforza la memoria e non la mistifica?
A.B.: È un terreno un po’ difficile questo dell’immaginazione, che rischia di essere fraintesa. Io facevo riferimento a un’immaginazione più letteraria. Io conoscevo la storia di Adelaida per sommi capi: la figlia era entrata nello zoo, aveva lasciato la sua bambina nelle mani di sconosciuti e si era lanciata nella corsa. Poi c’era un’altra versione, secondo cui Mini lascia la figlia su un prato e due persone sconosciute che vedono la scena la raccolgono.
Però, come sai, sono i dettagli a creare la grande storia, e a me quei dettagli mancavano. In quel caso, ho fatto appello all’immaginazione. Non a un’immaginazione arbitraria. Per esempio, conosco lo zoo, mia madre mi ci portava, quindi lo posso descrivere; posso dire che c’era un venditore di palloncini colorati, posso raccontare com’era la Buenos Aires degli anni ’70 perché ho vissuto lì. Quindi, facendo appello ai miei ricordi, ecco che in qualche passaggio l’ho immaginato perché non avevo quei dettagli che potevano rendere un’idea più precisa del contesto generale.
C’è da dire che l’immaginazione, comunque, è sempre stata un po’ bandita dai militari. In Sudamerica noi abbiamo sempre avuto un rapporto strano con la fantasia. Sappiamo che per tre secoli proprio la finzione era stata bandita in Argentina. Il romanzo vero e proprio in Sudamerica è arrivato dopo molto tempo perché la Chiesa, in particolar modo, non permetteva che arrivassero testi di finzione, altrimenti gli Indios avrebbero potuto scambiare la Bibbia per un testo di finzione. Quindi anche la finzione può essere uno strumento pericoloso.
Allo stesso modo, durante la dittatura sono stati censurati tantissimi libri che riguardavano proprio quell’immaginazione che ti faceva capire ancora meglio la realtà. Come quel libro che immagino che Lorenzo Ismael legga ai ragazzi, in cui si parla di un re che vuole che i cittadini dipingano le case solo di grigio. Questi cittadini, poi, si ribellano e dipingono la città di tutti i colori. È una lettura che ti può far capire molto bene la realtà che stai vivendo.
B.R.: Un tema che mi ha affascinato e che è ricorrente nelle Sue opere è il rapporto tra la lingua madre e quella di acquisizione e di come queste contribuiscano a definire l’identità di un individuo. Adelaida uscirà a breve anche in Argentina, edito da Planeta. Lei ha scritto che la lingua dei sentimenti e delle emozioni più spontanee di Adelaida era lo spagnolo. Allo stesso modo, le vostre conversazioni avvenivano in quella lingua: crede che la traduzione della Sua opera in spagnolo, la vostra lingua madre, possa restituire una versione più autentica di Adelaida?
A.B.: Questo non lo so. Rispetto alla lingua, per me è molto strano scrivere in un’altra lingua. Come sappiamo, la lingua non è solo un corpo grammaticale, ma è anche un modo di vedere il mondo e di interpretarlo. Quindi, per me, è molto strano.
Ormai ho scritto parecchi libri in italiano, mentre in spagnolo ne ho scritto solo uno. Scrivere in una lingua che non è la tua ti pone in una posizione diversa: devi soppesare tutto, non puoi dare nulla per scontato.
Autentica no, autentica non credo perché più autentica è sempre la lingua in cui è stata scritta; certo è che Adelaida letto da un argentino, ti confesso, è ancora un’incognita per me. Ti confesso di aver pensato questo libro per un pubblico italiano. Alcuni passaggi, per un lettore forte argentino, sono scontati. Non lo so, per esempio quando narro l’arrivo di Perón all’aeroporto: tutto questo è molto saputo in Argentina, però in Italia no.
Per certi aspetti mi rivolgevo più a un pubblico italiano che argentino. Però io penso a un lettore forte, ma ormai di lettori forti ce ne sono pochissimi anche in Argentina; quindi, quello che racconto qui potrebbe essere inedito anche in Argentina.

Come dicevamo, la memoria va conservata e là si conserva molto di meno: temo che molti non conoscano le cose che io ritengo scontate per un pubblico argentino.
Quindi, sinceramente, ho un grande punto interrogativo su come verrà accolto questo libro in Argentina. Però l’editore si è mostrato interessato subito dopo l’uscita del libro, quindi penso che funzioni.
B.R.: Trovo interessante anche il tema della dittatura in Argentina e, in generale, nel Sudamerica. Quali libri consiglierebbe a un lettore italiano inesperto, che conosce poco queste pagine di storia?
A.B.: Rodolfo Walsh, tradotto in Italia, andrebbe letto tutto. Lui, appena insediatasi la dittatura, ha scritto una lettera ai generali ed è stato subito ucciso.
Un altro che andrebbe letto è David Viñas, ma purtroppo è tradotto molto poco. Tra i più importanti libri storici, bisogna citare sicuramente anche quelli di Italo Moretti, di cui parlo nella nota del libro. Si trovano in italiano perché è stato un inviato sia in Cile che in Argentina, un profondo conoscitore dell’Argentina. Purtroppo, è morto, ma i suoi libri sono importanti per comprendere la storia dell’Argentina.
Un altro storico importante, che ha più o meno la mia età, è Gennaro Carotenuto, che insegna all’Università di Napoli mi pare, e ha insegnato anche qua a Macerata. Lui ha scritto dei testi molto importanti sulla dittatura argentina, è un profondissimo conoscitore della situazione latino-americana. Spesso viene intervistato. Vi consiglio vivamente di leggerlo.
B.R.: Per concludere, Adelaida è stato uno dei primi libri lanciati dalla collana Greenwich Extra di Nutrimenti, curata da Alessandro Mari, Giulia Caminito e Paolo di Paolo. Come è stato deciso che questo libro rientrasse in questa collana e fosse uno dei primi titoli, e poi, è una collana che è stata presentata come uno spostare più avanti o in modo diverso i confini della narrativa italiana: in che senso può fare questo? Cosa sposta?
A.B.: Credo che la collana intenda cercare voci nuove nella narrativa italiana e mettere l’interesse anche sulla lingua, sul modo di raccontare le cose, prendere in considerazione testi che non appiattiscano la lingua, che non la anestetizzino come sta succedendo ultimamente: a volte sembra di leggere dei testi scritti in italiano ma che sembrano tradotti, oppure già scritti per essere tradotti.
Tutto questo porta a un appiattimento della lingua. Prima di Adelaida avevo pubblicato con Nutrimenti Verde Eldorado (Nutrimenti, 2022), in cui la lingua aveva un suo peso. Io credo che anche quando raccontiamo una biografia dobbiamo fare i conti innanzitutto con la lingua.
Scrivendo questo libro, uno dei miei primi interessi era trovare una voce che raccontasse al meglio questa storia: per farlo devi trovare un ritmo, una cadenza, non puoi farle tutte allo stesso modo; quindi, c’è sempre una ricerca da fare.
Ed è questo che mi interessa soprattutto quando leggo (e scrivo) un libro: che la storia sia una continua ricerca verso una lingua specifica. E, in un certo senso, quindi, che abbia una sua voce propria.
Intervista a cura di Beatrice Russo, con la collaborazione di Davide Lamandini.
Questa intervista ad Adrián Bravi, autore di Adelaida, fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2024.