Cultura

Cose che (purtroppo) non si raccontano, di Antonella Lattanzi

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L’ultimo libro di Antonella Lattanzi, “Cose che non si raccontano” (Einaudi, 2023), candidato al Premio Strega 2024, tratta esattamente ciò che anticipa il titolo: quello che non si racconta. Nello specifico, quello che non si racconta intorno alla maternità, quando bisogna superare scoglio dopo scoglio nell’estenuante tentativo di avere un figlio, quando non riuscire a portare a termine una gravidanza sembra una condanna e l’intero universo pare esserti contro.


Ciò che non si racconta sulla maternità

Prima a diciotto e poi a vent’anni, Antonella resta incinta, ed entrambe le volte interrompe volontariamente la gravidanza: voleva avere una grande famiglia e tanti bambini, scrive l’autrice, ma solo al momento giusto.

Anni dopo, invece, quando sente il desiderio di avere un figlio con il compagno Andrea, non riesce a rimanere incinta: né calcolando i periodi di fertilità ogni mese, né seguendo le indicazioni del ginecologo rispetto a quando avere rapporti sessuali, e neanche facendosi aiutare da siti e applicazioni che suggeriscono i ‘giorni giusti’ in cui si dovrebbero avere più probabilità di concepire un figlio.

Così, i due decidono di provare con la via della procreazione assistita: da qui si apre al lettore un mondo fatto di medici, monitoraggi, visite invasive, attese infinite, ormoni, punture.

Il mio telefono è pieno di sveglie: io, che sono il disordine in persona, non posso sbagliare niente. Prendo Folidex 400 microgrammi, Deltacortene 5 mg, Seleparina punture 0.3 ml, Progynova compresse 2 mg (1 al mattino, 1 a pranzo, 1 la sera), Pleyris soluzione iniettabile 25 mg (2 punture al giorno), cerotti Estraderm 50 mg (2 ogni 48 ore). Ho dieci sveglie sul telefono.

Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano, p. 24.

Alcune delle cose che non si raccontano. Cose che Antonella non dice a gran parte dei suoi amici e alla famiglia, ritrovandosi a doversi fare iniezioni di nascosto nei bagni pubblici, da sola, terrorizzata di sbagliare qualcosa.

Altre cose che non si raccontano: i dubbi e l’insicurezza rispetto al lavoro. L’ambizione di diventare scrittrice è il motivo per cui, spiega l’autrice, ha deciso di interrompere volontariamente la gravidanza le prime due volte: “non c’è nessuno che ti aiuta a essere una donna ambiziosa e una donna che vuole diventare madre nello stesso tempo” (p. 30).

Poi, di nuovo, le ansie, i pensieri, le angosce quando la procreazione assistita finalmente funziona, ma c’è la possibilità che siano gemelli.

Cose che non si raccontano
Copertina di Cose che non si raccontano, di Antonella Lattanzi (Einaudi, 2023).

Come farei col mio lavoro, se fossero due gemelli? I miei genitori vivono lontani, la madre di Andrea è sempre impegnata. Non abbiamo soldi per pagarci una tata […]. Come faremmo se fossero due? Cosa ne sarebbe del mio lavoro, e dunque di me?

Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano, p. 38.

Buone e cattive madri

Sì, Antonella riesce a restare incinta, e sì, sono due gemelle, ma questo sarà il minore dei problemi.

Cammino e mi dico ma io, perché non sono come le altre madri? Che sono felici felici felici. E dormono i sonnellini pomeridiani dei giusti. Se fosse una gravidanza normale, avrei gli stessi pensieri. Perché in fondo sono solo una madre di merda; o non sono una madre.

Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano, p. 103.

Le due gravidanze interrotte tormentano l’autrice, come se la difficoltà nel restare incinta fosse una sorta di punizione per i precedenti aborti. Oltre al pensiero costante di non meritare la maternità, il lettore assiste anche alla tormentata convinzione della scrittrice di non poter essere una buona madre per le bambine che porta in grembo.

Vediamo i pensieri estremamente crudi, onesti e soprattutto reali di Antonella: l’invidia nei confronti delle altre donne, che invece hanno gravidanze felici; i momenti di rabbia verso Andrea, che spesso lavora e non riesce ad accompagnarla a fare i controlli, per cui lei deve sempre andare da sola; o la speranza – sempre accompagnata dall’ansia e dalla paura – di riuscire a portare a termine la gravidanza in corso.

Anche se questo equivale a sperare che una delle bambine che porta in grembo muoia, perché una gravidanza gemellare significa una maggiore probabilità che entrambi i feti non sopravvivano, data l’età di Antonella (che ha intorno ai quarant’anni) e le complicazioni che ha già dovuto affrontare.

E io – finora non l’ho mai detto a nessuno, nemmeno a me, men che meno ad Andrea –, io, quando il 3 febbraio alle nove ho varcato la porta girevole dell’ospedale per andare a fare l’ecografia e vedere come avevano passato la notte le mie due figlie […] ho pensato: speriamo che se ne sia salvata solo una. Così sarà salva davvero. Per sempre. Un pensiero orribile. Imperdonabile.

Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano, p. 139.

Il lettore entra nel turbinio di terrore, angoscia, incertezza che tormenta Antonella; questa completa esposizione agli occhi del pubblico, questo racconto di ogni passo che ha compiuto, senza edulcorare niente, senza aggiungere filtri, è una dimostrazione di coraggio esemplare da parte di Antonella Lattanzi.

La scrittrice si mostra in tutta la sua umanità, nella sua rabbia, nel suo odio. Ma anche nella sua stanchezza, nelle sue paure, nei suoi sogni irrealizzati e nei momenti di felicità. Nel suo desiderio – in parte orribile, come scrive lei – che una delle sue figlie muoia, ma solo per assicurare una vita sana all’altra.

La violenza sulle donne nel campo sanitario

Si aggiungono complicazioni, visite, interventi, operazioni. Le bambine non sopravvivono e bisogna procedere con il raschiamento o, come definito più freddamente dai medici, la “revisione uterina”. Anche questa operazione va male: Antonella ha emorragie interne, si ritrova in pericolo di perdere l’utero, è necessaria una trasfusione, i valori dell’emoglobina sono al minimo, rischia la setticemia.

Racconta che prima dell’intervento le hanno chiesto se volesse battezzare le bambine morte che portava in grembo e se volesse che le seppellissero nel cimitero dei bambini.

Racconta che, mentre era in ospedale, è entrato nella sua stanza un prete che le ha consigliato di battezzare le figlie e fare una donazione alla sua chiesa: solo così sarebbe rimasta di nuovo incinta entro un anno. Racconta che dopo l’intervento ha dovuto implorare le infermiere di darle dell’acqua, perché loro non volevano.

Racconta che “il giorno dopo il raschiamento, la dottoressa di turno mi ha guardato e ha detto: «Te lo sei meritato che il raschiamento sia andato male». Perché non avevo voluto fare il parto a induzione dei feti morti, e perché essendo un ospedale cattolico io non ero una di loro […] e non meritavo nulla” (p. 147).

Lattanzi rientra così fra alcuni degli innumerevoli casi di violenza nei confronti delle donne da parte del personale sanitario intorno all’argomento dell’IVG. Questa ulteriore testimonianza non fa altro che confermare quanto lo Stato e le autorità reputino di avere diritto di scelta, o anche solo di opinione, quando una donna deve decidere se interrompere o portare avanti una gravidanza.

Cose che si dovrebbero raccontare

La maternità è un tema delicato, che invece viene dato per scontato dai più. Durante i tentativi di rimanere incinta, durante le settimane della gravidanza, subito dopo il raschiamento, Antonella non smette mai di lavorare e puntualmente, durante eventi o interviste, le viene chiesto se abbia dei figli.

Un tipo di domanda erroneamente normalizzata nel nostro contesto socioculturale: non solo viene data per scontata, ma la maternità viene addirittura spinta sulle donne, senza mai considerare che una persona potrebbe avere altre ambizioni, potrebbe non riuscire ad avere figli o potrebbe essere appena stata sottoposta a un’operazione di raschiamento e aver rischiato di perdere l’utero.

Antonella Lattanzi scrive che ci sono cose che non si raccontano perché, se non le dici, è come se non fossero mai successe.

Il punto è che ci sono cose che nessuno racconta, eppure che molte altre persone devono affrontare, spaventate, credendosi sole, convinte di avere l’universo contro.

In Cose che non si raccontano, Lattanzi crea uno spazio sicuro, per l’autrice e per i lettori, in cui si trattano quelle cose che si dovrebbero poter raccontare per condividere dolori, normalizzare esperienze e poter essere apertamente e completamente umani, nel rancore, nello sconforto e nella gioia.

Vittoria Ronchi

(In copertina l’immagine scelta da Einaudi per Cose che non si raccontano, di Antonella Lattanzi; foto di Daniel Jackont)


Questa recensione di Cose che non si raccontano, di Antonella Lattanzi, fa parte della rassegna di Giovani Reporter in attesa del Premio Strega 2024.

Premio Strega.
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