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Il teatro come assedio – Intervista a Michelangelo Ricci

Michelangelo Ricci

Michelangelo Ricci è un poeta, musicista, drammaturgo e regista, fondatore della compagnia del Teatro dell’Assedio. Giorgio Ruffino ha dialogato con lui sul suo percorso e i suoi progetti futuri, riflettendo su cosa significa fare teatro oggi.


Giorgio Ruffino: Come mai nasce il Teatro dell’Assedio e cos’ha di diverso rispetto alle altre compagnie teatrali, secondo te?

Michelangelo Ricci: Il Teatro dell’Assedio nasce più di trent’anni fa da un’esigenza comune di alcuni artisti giovani e ribelli che pensavano che il teatro dovesse porsi in una dialettica abbastanza severa sia col pubblico sia con la scena teatrale. Il sintagma “dell’assedio” deriva dal periodo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, quando cominciavano le guerre jugoslave.

Il nome ci era parso interessante non solo per la sua dimensione storica, ma anche per l’idea che porta con sé: il regista e la compagnia assediano il testo, che a sua volta assedia il pubblico, e viceversa. È l’idea della resistenza e persistenza.


G.R.: In campo teatrale, qual è il tuo più grande ispiratore?

M.R.: Come tutto, anche questo dipende dalle fasi della vita. Per esempio, quando è nato il nostro gruppo, il nostro principale ispiratore è stato Beckett. Poi, però, il gruppo si è modificato: uno dei due fondatori che mi avevano affiancato è uscito, mentre l’altro è venuto a mancare. Così, ho seguito una strada legata a un altro tipo di teatro, quello di Brecht.

Inoltre, a dire il vero, quando avevamo cominciato, il primo vero nome che ci eravamo dati veniva da una battuta di Ubu re, “le candele verdi”. È questa la triade stellare che ci è parsa interessante. Tuttavia, solo una volta siamo usciti con questo nome, il nostro debutto l’abbiamo fatto così. Poi, per i restanti 33-34 anni, ci siamo chiamati il Teatro dell’Assedio.

Michelangelo Ricci
Michelangelo Ricci (Foto di Giuseppe Zidda)

G.R.: Quale dovrebbe essere, secondo te, il ruolo del teatro all’interno della società? È una domanda dovuta al fatto che oggi il teatro nella società italiana contemporanea occupa un ruolo marginale rispetto al passato.

M.R.: Bisogna chiarire una cosa. Il termine “marginale” non ha niente a che fare col teatro, nel senso che, secondo me, il teatro è un luogo di incontro; quindi, se si incontrassero anche solo dieci persone non sarebbe comunque marginale. Marginale è l’importanza dell’evento, è mettere in scena uno spettacolo anche con decine di migliaia di persone che non suscita nessun tipo di risposta interiore in loro.

La cultura non è marginale se entra dentro gli esseri umani e li mette in discussione, per cui il teatro diventa marginale quando si appiattisce su figure televisive oppure in uno stereotipo tipico del teatro borghese che è quello delle riserve economiche comunali, statali, regionali, che vengono date a dei gruppi che non hanno cognizione dell’esperienza teatrale come fatto di vita, come costruzione di vita.

Poi, è vero, ci sono gruppi che hanno ricevuto dei finanziamenti e che hanno grandissime qualità ma, secondo me, il teatro deve far incontrare le persone, creando dei luoghi di aggregazione sia nella costruzione degli spettacoli che nello spettacolo stesso. La funzione del teatro è l’incontro e la modificazione, quindi deve rendere attive tutte le parti. Questo è il teatro. È l’unica forma artistica in grado di farlo, perché le altre forme usufruiscono di altri mezzi come il foglio o la tela, mentre il teatro ha dalla sua parole, musica, suoni, azioni sceniche, visioni sceniche. È questo il vero teatro.


G.R.: Quindi pensi che il panorama teatrale si sia appiattito e imborghesito?

M.R.: Guarda, anche qui bisognerebbe capire bene cosa significa “imborghesirsi”. Io non lo uso come stilema degli anni Settanta, ma come dato storico: dopo la Rivoluzione francese la nostra società è diventata borghese. Che sia nazista o queer è borghese.

Si tratta di una costruzione economico-sociale che deriva da fatti storici. Il fatto che il teatro però si accolli una dimensione di partecipazione implica che deve proporre qualcosa nella modificazione. Quando e se propone è teatro; quando non lo fa non lo è, è un ripiego.

Se mi chiedi del panorama italiano, ci sono tanti grandi artisti che lavorano e faticano ma che poi, nel sopruso economico della nostra epoca, si affiliano ad assessori, meccanismi, progetti insulsi come “il progetto sul fiume”, “il progetto sull’evento storico”. Questo meccanismo è una macina, un tritacarne che ha ridotto il teatro a un elemento non più partecipativo, innovativo e modificante dell’interiorità degli spettatori e degli artisti che lo fanno: esso diventa un rito di poco conto.

Quello che importa è la partecipazione delle generazioni, delle idee… Un giovane normalmente non va a teatro, a meno che non venga portato dalle scuole ad assistere a spettacoli selezionati da loro stesse e così via.

Il teatro è diventato un oggetto economico-politico a uso degli assessori d’Italia, il che è triste e avvilente. Ha abbruttito il panorama teatrale italiano. Noi, però, non ci ascriviamo ad essere questo. Assediati e assedianti.


G.R.: Credi sia possibile quindi fare un teatro apolitico oppure no?

M.R.: Non è solo il teatro a essere politico, è che tutto è politico, come ci insegnano. Ciò che ti fa ridere è politico, ciò che ti fa perplimere è politico, il modo in cui rispondi a tuo figlio e a tua madre è politico.

È la cultura a essere politica. La politica è un sottoprodotto della cultura, nel senso che è semplicemente il mezzo tecnico con cui ci si relaziona e si scelgono metodi per poter modificare, finanziare, organizzare una società: è il concetto culturale che crea la politica.

La politica è un oggetto della cultura, ma questo rapporto è stato sovvertito nel teatro borghese contemporaneo: si fa politica e nel mentre dicono “e poi è venuto il momento culturale” oppure “non dimentichiamoci della cultura”. Non ci dimentichiamo della cultura, già dimenticare è un elemento politico-culturale.

Io non scinderei in questa fase storica la politica dalla cultura, perché proprio la confusione generata dalla suddivisione ha impoverito le due cose, che due non sono. È come se una fosse il colore, poi si decide come stenderlo.


G.R.: Secondo te la politica è diventata un po’ teatrale nel suo essere?

M.R.: Lo è sempre stata. L’inscenamento è alla base della politica, è parlare di qualcosa, rappresentarlo. Infatti, se noti, tutte le forme parlamentari o dittatoriali di qualunque tipo allestiscono una scena e si devono rappresentare in una qualche forma.

Il teatro è il motore della società, è il cerchio con cui i primordi si incontrano, parlano e si spiegano. E nello spiegarsi fanno politica e allo stesso tempo teatro, perché inscenano gli accadimenti.

Continuo a fare teatro perché è una delle cose fondanti dell’essere umano, non esiste niente di più antico del teatro.


G.R.: Mi ricordo che una volta avevi infatti criticato la storia del teatro.

M.R.: Non ho criticato la storia del teatro: secondo me, è proprio impossibile fare una storia del teatro. Il teatro, in quanto azione, non può essere mai riprodotto perché avviene solo in quel momento. Si può fare storia della letteratura teatrale, storia delle tecniche teatrali e tante altre storie, ma non quella del teatro, in quanto la sua essenza consiste nel momento in cui ci sono due persone, di cui una inscena e l’altra guarda.

E questo è irriproducibile, perché è l’esperienza. È storicizzabile nel senso della critica. Ecco, storia della critica teatrale è qualcosa che ha molto senso.


G.R.: Senti che le nuove generazioni sono attratte dal teatro?

M.R.: Molto, ma da sempre. L’amore per il teatro non cessa mai. Il teatro è sempre piaciuto a tutte e a tutti. Io ho fatto teatro nelle carceri, nei manicomi, nei centri di accoglienza, in qualunque luogo in cui ci sia la disperazione peggiore o la felicità maggiore, dagli asili alle scuole superiori. Ho avuto delle esperienze meravigliose con ragazzi di 13-15 anni, di 8 o 4 anni.

Nessuno si chiama fuori dal teatro. È solo che l’organizzazione politica vuole che il teatro non sia ciò che è, che non metta in crisi e in discussione la società, e nel fare questo utilizza degli stilemi e dei modi che allontanano soprattutto le nuove generazioni. Ma se ti incontri con la forza di un laboratorio, di uno spettacolo, di una tensione e di una volontà di chiara matrice teatrale nel senso che cercavo di spiegare prima, non c’è mai un fallimento, è sempre amato.

Se tu dici a un giovane di andare a teatro a vedere degli spettacoli, obbligandolo a stare seduto, a comportarsi bene, e proibendo ogni espressione personale, è chiaro che un ragazzo di periferia già incazzato con la vita non desidererà mai andare a teatro. Se invece lo inglobi, lo fai vivere dentro al teatro, lui lo riconosce immediatamente come strumento di espressione e di liberazione perché di fatto lo è, ed è per questo che è occupato dalla bassa politica.

Michelangelo Ricci
Foto di Giuseppe Zidda.

G.R.: Domanda un po’ personale: sei soddisfatto dell’esito dell’ultimo spettacolo, Dall’alto dei cieli bombe, portato in scena a Bologna?

M.R.: Molto, un laboratorio straordinario come non mi capitava da tanti anni, pieno di tensioni, di critiche, di visioni, modalità diverse, messe in discussione. È stato faticoso anche per me, ma sicuramente avvincente per chi l’ha fatto. I ragazzi del laboratorio hanno restituito la loro esperienza con una lettera molto importante scritta a noi dell’Assedio.

L’esperienza dello spettacolo è stata importante perché doveva accadere in questo momento di guerre. Non è che non ci fossero prima, ci sono sempre le guerre. Però quelle attuali ci espongono a conseguenze forse inaspettate, per cui molti giovani che hanno preso parte a questa esperienza le sentivano in maniera molto forte.

Allo stesso modo, veniva sentita in maniera molto forte l’idea di sopruso che questa società ci inculca come modus operandi: dobbiamo imporci sugli altri per diventare ricchi, per essere agiati, per non finire nei guai, per creare la nostra famiglia… Dobbiamo per forza creare un meccanismo di contrapposizione e di violenza.

Ci viene insegnata e imposta la violenza – soprattutto economica – e questo è avvertito dalla sensibilità comune, al punto da spingere chi partecipava al laboratorio a elaborare degli scritti, ma anche a partecipare fisicamente a delle canzoni e a delle cose che avevo scritto negli anni precedenti o per quell’occasione.

Lo spettacolo è andato poi molto bene perché siamo riusciti a coinvolgere più di mille spettatori in due giorni, un successo straordinario per un laboratorio come il nostro. Abbiamo usato delle tecniche che abbiamo affinato negli anni e che ci hanno permesso di creare un luogo partecipativo gratuito, ma di vero e proprio lavoro teatrale: i partecipanti si sono occupati di costruire il pubblico, la promozione e le scene che hanno poi smontato e restituito, nella misura delle diverse possibilità.

Non è che tutte o tutti hanno fatto tutto, ma hanno fatto molto e in maniera notevole, per cui mi piacerebbe portare avanti questo laboratorio e arricchirlo con esperienze diverse.

Michelangelo Ricci
Foto di Giuseppe Zidda.

G.R.: Come ti è venuta l’idea per quest’ultimo spettacolo che, direi, è una forma a metà tra la manifestazione e il musical?

M.R.: Questa è una formula che io utilizzo ormai da oltre vent’anni. È una formula di visione della scena che si muove attraverso parole, canzoni, musiche, tensioni coreografiche, pantomime variegate. In questo caso abbiamo usato di tecniche diverse: episodi pittorici, quindi performance, body art. Abbiamo mescolato tutte queste forme per farle entrare dentro la rappresentazione.

Ovviamente, ho fatto anche spettacoli puramente di parola, ma questa modalità è sicuramente quella che è più nelle mie corde, oltre a essere la più semplice da realizzare in un laboratorio. Semplice, nel senso che la persona può andare in crisi per il fatto che si deve suonare, cantare, ballare, recitare e, al contempo, può pensare di non saper fare niente.

E quel “non so fare niente” è un elemento facilitatore. Lo so, pare strano, ma facilita il fatto che ognuno può fare ciò per cui si sente maggiormente portato. In un certo senso, si livella lo stato d’ansia da parte di tutti.

Poi, ovviamente, entra in campo la mia esperienza che mi permette di manipolare in senso positivo – almeno, io lo ritengo così – gli elementi emotivi e le frustrazioni per riportarli sul palco come vittoria della propria affermazione, del proprio essere, del proprio modo di esistere, della propria fisicità. Ognuno ha un problema rispetto a sé stesso. Ecco che si comincia a giocare.


G.R.: Parlerai ancora delle guerre nelle tue prossime opere?

M.R.: Sì. La cosa più importante è un festival che ho inventato l’anno scorso, si chiama Vincanta. Si tiene a Vinca, paese che ha subito la strage nazifascista nel ‘44 in cui hanno ucciso 173 persone trucidandole, dando loro fuoco, squartandole, lanciando i bambini per aria. Si tratta di una di quelle super efferatezze della “magica” storia del fascismo italiano. A partire da questo accadimento, faremo un discorso sulla pace e quindi sulla guerra.

Nei miei prossimi impegni porterò un grido di rabbia per questa guerra. Io ho chiaro che a un giovane di vent’anni essere comandato da Putin o da Zelensky non ha nessuna importanza se la sua fine è comunque morire con la testa piantata nel fango. Sono solo menzogne di governi, di Stati e manipolazioni dell’Onu. Quest’ultimo era un grande tentativo di salvarci dalle guerre e invece è diventato un altro dei dialoganti. Allora, dopo entra la NATO che fa i suoi giochi, poi entrano le forze del demonio…

Parliamo di guerre efferate, terribili, pensa a quello che sta succedendo ora a Gaza: non c’è una narrazione, non c’è un motivo. Dicono che il motivo sia l’attacco del 7 ottobre, ma ci sono anche gli attacchi precedenti. Alla fine, poi, è sempre il momento che serve a qualcuno per fare il suo massacro, per le sue esigenze e per i suoi meccanismi.

Ecco, questi governi continuano a proporci dei massacri, perché c’è sempre un bisogno economico feroce che riguarda il modello in cui noi viviamo, oltre ai modelli precedenti, come quelli religiosi. Se c’è qualche prelato che si schiera contro la guerra mi fa sempre piacere che lo dica, certo è che sarebbe bello passare anche ai fatti.


G.R.: Lo hai già accennato prima, ma quali saranno le prossime produzioni del Teatro dell’Assedio?

M.R.: Essenzialmente, ora abbiamo in programma il nostro festival Vincanta, che faremo ad agosto nei giorni precedenti alla commemorazione della strage. Per ora il nostro impegno creativo è tutto rivolto lì. Poi, noi siamo una compagnia molto complessa: al nostro interno ci sono altre compagnie con cui facciamo altre produzioni, quindi abbiamo varie tournée.

Intervista a cura di Giorgio Ruffino.

Editing di Federica Pasquali, con la collaborazione di Beatrice Russo.

(In copertina Michelangelo Ricci)

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