
Giovedì 9 maggio Paolo Boccagni ha presentato il suo libro “Vite ferme” (Il Mulino, 2024) alla biblioteca Salaborsa di Bologna. A margine dell’evento, Davide Lamandini gli ha posto alcune domande sulla condizione dei migranti in Italia e sulle loro “vite ferme” all’interno di quella casa-parcheggio che è il centro di accoglienza.
Davide Lamandini: Il suo libro è una raccolta di storie di persone – raccontate attraverso il filtro delle stanze in cui hanno vissuto – che contribuiscono a costruire un’unica storia di migrazione. Come sono state scelte le storie di Vite ferme?
Paolo Boccagni: Ho scelto le storie principalmente attraverso un percorso cumulativo. È naturale che con certe persone si leghi più che con altre, e negli anni ho accumulato racconti, scambi, note di campo. Questo mi ha facilitato nel mettere da parte – e poi raccontare – un certo numero di storie.
Non siamo in una logica di rappresentatività, anzi, si tratta di storie tutte importanti, tutte vere, alcune più accessibili di altre, per ragioni di interazione personale, lingua, volontà.
Del resto, la persona può essere più o meno disponibile a parlare con te, può accoglierti e parlarti della sua vita o sbatterti la porta in faccia, ed entrambe le reazioni sono assolutamente legittime.

Quello che ho visto nel tempo è che ragionare per camere e luoghi abitati, dove potevo essere ospitato più volte nel corso delle settimane, poteva essere un chiave analitica interessante per parlare con la gente e della gente a partire dagli spazi in cui vivono.
Nelle loro stanze sono entrato da semplice ospite: una volta per chiacchierare, una volta per vedere una partita, una volta per prendere un bicchiere di tè, una volta per non fare nulla.
D.L.: Nel libro ha scelto di raccontare un universo di micro-storie che in genere rimangono sotto silenzio, quando si pensa o si scrive del grande tema delle migrazioni di questi tempi; tema che di solito si preferisce trattare come macro-storia, come se tutti i migranti, tutte le loro storie, tutte le loro vite fossero un’unica storia. Ecco, in realtà, questo affresco così apparentemente unitario si sfalda non appena lo si vede da vicino, lo si conosce, lo si vive. Pensa che la macro-storia dominante in fatto di migrazioni in un qualche modo oscuri – e quindi neghi – le micro-storie dei singoli individui, di cui essi sono protagonisti?
Paolo Boccagni: La macro-storia è importante per avere un quadro di come cambiano nel tempo le dinamiche di cooperazione tra i diversi Paesi, per capire cosa cambi e come, ma per natura sua sta sui grandi numeri. E sui grandi numeri, le categorie collettive non possono dare conto dell’esperienza dei singoli, delle famiglie, delle specifiche comunità o delle reti che si portano dietro.
Da questo punto di vista, l’esperienza dei singoli è un modo per arrivare alle condizioni di vita delle persone che hanno una storia di migrazione alle spalle, spesso anche piuttosto sofferta e violenta, ma che oltre a questo – nel caso di Vite ferme – sono ragazzi di vent’anni o poco più, con una loro vita e una vasta gamma di interessi e aspettative che si possono avvicinare soltanto a livello di micro-storia.
In altre parole, per chi fa un lavoro etnografico, si tratta di trovare modi e canali rispettosi, avere pazienza e conoscersi: è questione di abituarsi a passare del tempo insieme.
D.L.: Il centro di accoglienza in cui sono ambientate le storie è un luogo fermo, immobile, transitorio per definizione, è un centro che annulla ogni inizio e ogni conclusione di ogni viaggio. Lei lo definisce “centro di accoglienza per ragazzi” (p. 16) – e i ragazzi, nel libro, hanno tutti tra i 20 e i 25 anni. Lo spazio di cui si parla è uno spazio di medietà, spesso sacrificato rispetto alle storie di inizi (cioè, il viaggio per arrivare) e di conclusioni (cioè, la nuova casa). Qual è la differenza tra casa-rifugio, casa-parcheggio e casa-prigione nei centri di accoglienza in Italia – se ce ne è una – per come li definisce nel libro (p. 262)?
Paolo Boccagni: La differenza c’è ed è legata al fatto che l’immaginario più diffuso tra le persone che hanno a cuore le condizioni di vita e le prospettive dei migranti è probabilmente quella della casa-prigione; cosa che certe volte coincide con i vissuti di chi ci sta dentro, nella misura in cui ti senti intrappolato. Stai lì e non sai per quanto ci devi rimanere, non sai se avrai la possibilità di passare a una condizione migliore, in certi casi non sai neanche cosa fare.
Poi, per comprendere meglio la situazione, dal mio punto di vista è mediamente più corretta la categoria di casa-parcheggio: per un certo periodo di tempo ti metto lì perché la legge mi dice che hai diritto a questo trattamento.
Tuttavia, ti riduco al limite, ti rendo il più possibile invisibile, ti metto ai margini, e allo stesso tempo – in quanto istituzione politica e società ricevente – non faccio nulla per fare in modo che tu da quel parcheggio possa uscire in una condizione migliore rispetto a quella in cui ti trovavi quando sei entrato.
Semplicemente, ti lascio lì, e se tu non hai capacità, opportunità, reti e contatti tuoi, da qui a qualche anno sarai esattamente in quello stesso margine, sarai la stessa persona incapace di integrarti che ho deciso che sei prima ancora del tuo arrivo.
D.L.: Nella conclusione del libro scrive che “nulla è concluso” (p. 259) e che quindi non c’è bisogno di una conclusione. Dunque, cos’è la stanza che verrà su cui chiude il saggio e come ci possiamo approcciare alla questione se non c’è una fine?
Paolo Boccagni: La stanza che verrà è il bisogno, l’aspettativa di trovare comunque uno spazio abitato, uno spazio tuo e idealmente più privato e sotto controllo rispetto a quello del centro in cui sei stato per anni, senza sapere molte volte se troverai o no questa cosa, né quando. La necessità c’è, le circostanze esterne, il lavoro che trovi, i contatti che hai sono un grande punto interrogativo.
Io nel libro arrivo fino al punto in cui la persona esce dal centro: quello che succede dopo, e che tipicamente è un percorso abitativo abbastanza accidentato, porta nove volte su dieci le persone a restare nella condizione in cui sono.
Cioè, molte volte, a prescindere dal fatto che si trovi o meno il permesso di soggiorno, c’è il rischio di forte marginalizzazione, ma è altamente improbabile e infrequente che la gente rinunci a tutto e torni al punto di partenza, se non è costretta a farlo.
Poi, varia molto in base alle singole esperienze: ma la macro-storia ci dice che tra i migranti forzati c’è un portato di fragilità in media molto più alto, pesante e duraturo dei migranti per lavoro, per quanto tenga la differenza.
Dunque, ci possiamo aspettare che dopo facciano più fatica, sapendo che tutto quello che riguarda l’accoglienza il più delle volte si limita a operare finché non hai un permesso di soggiorno. Quel giorno finisce la vulnerabilità giuridica, mentre resta la vulnerabilità sociale.
Intervista a cura di Davide Lamandini, con la collaborazione di Elettra Dòmini.
Un ringraziamento particolare a Valentina Tosti.
(In copertina il centro d’identificazione ed espulsione di via Corelli, a Milano; fonte: Redattore sociale)
L’intervista a Paolo Boccagni su Vite ferme è stata realizzata in collaborazione con la casa editrice Il Mulino: