Mercoledì 8 maggio Roberto Cicala ha presentato in anteprima il suo libro “Andare per i luoghi dell’editoria” (Il Mulino, 2024) alla libreria Vita e Pensiero dell’Università Cattolica di Milano. Alla fine dell’evento, Blu Di Marco gli ha posto alcune domande sul mondo dell’editoria e sul rapporto fra luoghi ed editori.
Le “cucine” d’Italia
Andare per i luoghi dell’editoria (Il Mulino, 2024) è il nuovo libro di Roberto Cicala, professore di editoria libraria e multimediale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Il libro, uscito nelle librerie il 3 maggio, si inserisce nella collana “Ritrovare l’Italia”, che ha già pubblicato alcuni volumi sulle origini del nostro Paese, affrontando varie epoche storiche.
Il saggio non è una carrellata di nomi e luoghi, bensì un ricettario preciso e mai noioso che porta il lettore appassionato alla scoperta delle varie “cucine” editoriali della nostra penisola.
Cicala propone, appunto, un’analogia interessante che mette a confronto l’editoria con la cucina, spiegando che nelle case editrici “si cucinano le parole per renderle le più appetibili e gustose al palato degli ospiti, cioè i lettori, dentro il piatto dei libri” (p. 9).
Di fatto, una casa editrice ha dietro di sé un’équipe che lavora al medesimo fine, un po’ come in una cucina.
Con una scansione geografica che parte dal Nord Italia – dove l’editoria ha più respiro – fino ad arrivare alla punta dello stivale – dove abbondano, in compenso, l’entusiasmo e la curiosità –, l’autore racconta le aggiornatissime storie assieme curiose e appassionanti delle maggiori case editrici, come Mondadori o Sellerio, e di quelle più piccole, dai tempi dello stampatore Aldo Manuzio ai giorni nostri.
Una miniera di storie
L’8 maggio scorso si è tenuta la presentazione del saggio nella libreria Vita e Pensiero presso l’Università Cattolica di Milano. Roberto Cicala è stato affiancato da Edoardo Barbieri, professore presso la medesima università, e Aurelio Mottola, direttore della casa editrice Vita e Pensiero. Tra sorrisi divertiti al ricordo di episodi descritti e spontanei passaggi di microfono hanno raccontato agli spettatori la genesi, lo sviluppo e le curiosità riguardanti il volume, creando all’interno della libreria un’atmosfera confortevole.
Il professor Cicala ha spiegato che il suo libro è sì un viaggio, ma attraverso i suoi luoghi dell’editoria: non propone, dunque, una rigida storia dell’editoria. Come è raro che accada, protagonisti non sono gli scrittori, ai cui itinerari siamo fin troppo abituati, ma le stesse case editrici che, se potessero parlare, avrebbero storie davvero singolari da raccontare.
Ed è proprio questo che viene restituito al lettore, una miniera di storie: non solamente quelle degli editori – gli chef, se vogliamo, di questa cucina – ma anche quelle dei loghi, delle targhe, dei caffè.
“Ritrovare l’Italia”, quindi, attraverso i luoghi dell’editoria, è – per citare, più o meno fedelmente, le parole del dottor Mottola – un imperativo opportuno in quest’epoca di transitorietà e smemoratezza.
L’intervista
Blu Di Marco: Quanto influisce un luogo sulla casa editrice? È possibile che il luogo in cui un editore nasce arrivi prima o poi a modificare l’identità e la “personalità” dello stesso?
Roberto Cicala: Io credo che un luogo aiuti a creare cultura, perché aiuta a vivere in un contesto culturale in cui nascono gli stimoli, si incontrano gli autori… In un certo periodo storico come l’inizio del Novecento fare l’editore a Firenze aveva un senso, piuttosto che essere a Roma con tutti i caffè letterari particolari, perché si poteva incrociare Marinetti che stava progettando la serata futurista del ‘13 al Teatro dell’Opera, piuttosto che D’Annunzio che incontrava Emilio Treves o qualche sua donna giovane e bella.
Quindi c’era un contesto che aiutava anche a immaginare cose; perché il lavoro editoriale è comunque anche immaginazione. Provare a guardare lontano, a guardare oltre: il bravo editore anticipa.
E allora anche in questo lavoro di anticipazione c’è bisogno di vedere chi vive intorno a noi, il contesto, e provare ad andare oltre. Quindi io credo che i luoghi aiutino davvero molto il lavoro dell’editore, ma soprattutto il lavoro di chi vuole fare cultura. In Italia i luoghi sono davvero i più diversi. Capita: dalla grande città con luoghi particolari, ma anche alle piccole realtà.
A Isernia, in Molise, in una fabbrica di pasta, e si tratta di realtà vere, oppure in un piccolo ufficio a Salerno, piuttosto che in una piccola realtà Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro. Oppure a Portogruaro, un posto di grande transito e di grande cultura della bici, nasce una casa editrice che pubblica solo testi legati alla bicicletta. Bellissimo.
B.D.M.: Infatti, pensando alle case editrici, di solito le ricolleghiamo alle grandi città come Milano o Torino. Però, come dice Lei anche nel suo libro, esistono delle piccole realtà. Al giorno d’oggi, che influenza hanno? Qual è il loro ruolo nel panorama editoriale italiano?
R.C.: Bisogna intanto distinguere ciò che è il mercato da ciò che è invece la valenza culturale. Sul mercato contano le grandi capitali; contano i grandi gruppi, e quindi la capitale è Milano, e tutto il resto prende le briciole. Però, dal punto di vista culturale, delle realtà ci sono. Possiamo pensare a un’editoria molto particolare: la casa editrice Tallone, in Val di Susa, che stampa ancora a caratteri mobili ma con grande livello culturale.
Oppure a una piccola realtà vicino a Lecce, i Manni, che hanno la sede vicino all’antica chiesa e riescono a pubblicare cose molto particolari, legate all’avanguardia letteraria. O piuttosto una provincia, che non è in verità provincia ma capitale della Sicilia, cioè Palermo, che però è una provincia d’Italia, è lontano dalla capitale. Lì ci sono varie iniziative, soprattutto in una via dove negli ultimi decenni si sono avvicendate quattro o cinque case editrici, in particolar modo Sellerio. Sellerio ha fatto sì che quella periferia d’Italia diventasse quasi il centro dei gialli, il centro di Montalbano.
Bisogna sempre distinguere tra il mercato, che fa certi numeri, che strozza e non lascia scampo a chi è piccolo, e la cultura, che dà spazio anche a chi è piccolo ma ha delle belle idee. Perché poi, la storia dell’editoria ci dimostra che quando uno ha delle belle idee ed è piccolo può far le cose, ma nel momento in cui le cose funzionano ci sarà il grande che gliele porta via con un contratto migliore.
B.D.M.: Lei dedica tre capitoli del libro a Milano, definita “una capitale da leggere”. Quali sono i fattori che hanno favorito la nascita di così tante case editrici a Milano?
R.C.: Sì, Milano sicuramente è la capitale perché è una città dove ci sono più di 350 editori, c’è il 20% della produzione di tutta Italia. C’è addirittura la metà della produzione di titoli in un anno, 50.000 titoli. Quindi è sicuramente la capitale.
Probabilmente questo nasce nell’Ottocento: al tempo di Manzoni Milano è una realtà imprenditoriale molto avanzata, e quindi anche chi fa cultura vive – si diceva dei luoghi, del contesto che influisce – questa idea imprenditoriale, e dunque l’idea è quella di fare i soldi, anche con con i libri. Quindi qui lo sforzo è molto più forte rispetto ad altre realtà dove ci si poteva barcamenare.
Per esempio i Laterza, a Bari, potevano stare nella loro libreria locale. Poi conoscono Benedetto Croce, e con lui invece si aprono a Napoli, a Roma e poi a tutta l’Italia. Però a Milano vi era questa spinta, e quindi anche all’inizio del ‘900, per tutto il Novecento e tuttora, Milano resta il modello.
Parlavamo di periferie, di Sicilia: pensiamo a tutti siciliani che arrivano a Milano proprio per il modello letterario ed editoriale che aveva, di successo. Verga, naturalmente, ma anche nel corso del tempo Vittorini, con tutto quello che ha fatto a Milano come editor. Pensiamo poi a Consolo.
Già solo questo ci dice molto sul fatto che Milano, alla fine, con la sua forza dei soldi, è riuscita ad attirare anche la cultura. Perché poi il problema, o meglio, non un problema ma un aspetto, una medaglia con due facce, è che il libro è sempre parte mercato e parte cultura, e quindi bisogna cercare di mettere insieme le due cose.
B.D.M.: Secondo Lei esiste una città che, prima o poi, potrebbe strappare il titolo di capitale dell’editoria a Milano?
R. C.: Se le cose vanno così, non credo. Sicuramente l’altra capitale è Roma, però c’è una differenza. Milano è la capitale dell’editoria ed è il luogo dei grandi gruppi: Mondadori, Feltrinelli, GeMS… Roma è una grande realtà, ma è soprattutto un contesto di piccoli editori, di realtà medio-piccole; non c’è il grande gruppo a Roma. Vedo con difficoltà che ci sia qualcuno che trascina tutti, perché comunque ci vuole il grande gruppo.
Nel momento in cui c’è la Mondadori e c’è un mercato anche della scolastica, che è soprattutto da questa parte, seppur con qualcosa su Torino, non vedo prospettive perché un’altra città riesca a vincere. Però ci sono tutte le altre città che hanno una vivacità notevolissima nel loro contesto, quindi le città che anche nel libro descrivo. Bologna, un vero laboratorio, tra Mulino e Zanichelli, che fanno cose davvero splendide. Pensiamo a Venezia, a tutto quello che Firenze riesce a fare ancora. Pensiamo a Napoli, la sua realtà vivacissima.
Io credo che questo sia qualcosa che aiuta non tanto a vincere Milano – è una partita che non si può vincere in nessun modo. Però sicuramente aiuta a creare quella bibliodiversità di cui parlo nel libro e che è la cosa più straordinaria del nostro Paese, in cui l’editoria davvero riesce a dare l’immagine dell’Italia. Un’immagine variegata; si può dire positiva, negativa… Però è così, e alla fine lasciamo a Milano il suo primato di capitale; ma c’è tutto il resto, c’è tanta roba.
B.D.M.: All’interno del Suo libro, Lei usa l’analogia della cucina. Come cambia questa cucina all’interno dell’editoria italiana, tra le varie regioni?
R.C.: La cucina editoriale è sempre uguale, gli ingredienti di base sono sempre quelli, ma poi ognuno ci mette qualcosa di speciale e di proprio, come le varie cucine regionali italiane. Ma la cosa bella è che facendo questo viaggio si scopre che ogni luogo comunque ci mette qualche cosa di suo, di particolare. Facevo riferimento prima al tema della bicicletta, o potremmo mettere altre cose dentro.
Ci sono dei cambiamenti: a Napoli ci sono realtà specializzate nelle curiosità, nelle cose più curiose. Oppure ci sono realtà specializzate nella mafia. C’è una casa editrice bellissima, piccola, a Scampia, Marotta e Cafiero, “pizzo free”, come dicono loro: sono all’interno di uno stabile che si chiama Fabbrica dei Pizzini della Legalità, e dunque producono cose legate al loro territorio e alla mafia, però con una fortissima tensione alla legalità.
Quindi, la ricetta della cucina è sempre quella: gli autori, l’attenzione al testo, l’attenzione alla parola, la cura grafica dell’oggetto… Però poi questi sono ingredienti legati ai contenuti naturalmente. Qualche diversità c’è.
Tendenzialmente è una cucina che rende il libro un prodotto culturale che io credo unico. La cosa bella rispetto ad altri prodotti culturali è questa: il libro è un prodotto che nasce bene soltanto se c’è un lavoro di équipe.
Nella cucina ci sono tante persone che ci lavorano. Sì, può avvenire la situazione particolare del solo autore: hanno stampato Vannacci, o meglio si è autopubblicato il libro, la politica gli ha fatto pubblicità, ma è finito lì.
Non c’è altro dal punto di vista culturale ed editoriale. Invece è molto importante la progettualità.
Ecco, per cucina io intendo proprio la progettualità, e questo io credo sia qualcosa di straordinario. Come dicono le ultime pagine del libro, io credo molto nel lavoro delle giovani generazioni, dei giovani, che sicuramente aiuteranno questa transizione anche tecnologica. Per cui non bisogna avere paura della smaterializzazione del lavoro, dell’intelligenza artificiale, degli algoritmi. Bisogna soltanto saperli usare bene. La mia generazione non si immagina cose particolari, ma sicuramente la vostra sì.
B.D.M.: Ricollegandoci al tema del digitale: ormai l’editoria digitale è diffusissima e utilizzatissima. Un autore potrebbe anche decidere di autopubblicare il suo suo libro senza passare il vaglio di agenti letterari ed editori. Secondo Lei quanto è ancora importante associare un editore a un luogo fisico?
R.C.: Io credo che sia importante associare un editore a un luogo fisico, che è innanzitutto il luogo del libro. Non necessariamente una città – poi è bello raccontare anche la città -, però il libro deve essere innanzitutto un luogo fisico. Credo che io, oggi come oggi, posso realizzare un libro autopubblicandomi, senza quindi utilizzare quella che viene definita la mediazione editoriale (e quindi senza il correttore, il revisore, l’agente…).
Lo posso fare; ma faccio qualcosa che, anche nel momento in cui ha successo, rischia di rimanere un dato che non fa cultura, che non fa cambiamento. Infatti, spesso capita che anche grandi successi di self publishing debbano poi passare da un editore per diventare autorevoli ed effettivamente casi editoriali. Perché altrimenti sono casi a sé, che però resterebbero lì, e soprattutto non riuscirebbero ad avere la tenuta.
La tenuta è possibile soltanto perché è un discorso di progettazione e industria culturale, nel momento in cui ci sono tutta una serie di meccanismi che vengono messi in movimento perché le cose le cose avvengono. Sembra solo un discorso di chi vuole portare acqua al mulino dell’editoria.
In verità, il discorso della distribuzione di tutto questo è molto complesso. Fra l’altro, è quello che prende il maggior numero di quota sul prezzo, per esempio, di un libro. Questo è fondamentale. E si può fare solo nel momento in cui si è dentro un meccanismo editoriale di mediazione tramite un editore.
Intervista a cura di Blu Di Marco, con la collaborazione di Beatrice Russo.
(In copertina Roberto Cicala. Si ringrazia la casa editrice il Mulino per la gentile concessione delle immagini)
L’intervista a Roberto Cicala su Andare per i luoghi dell’editoria è stata realizzata in collaborazione con la casa editrice Il Mulino: