Il 5 maggio, al teatro Menotti di Milano, ore 21:00, andrà in scena l’ultimo dei dialoghi della rassegna La Scatola di Archimede, condotta da Massimo Polidoro: La conversazione, che ha come titolo “La salute è circolare e passa per l’ambiente”, avrà come ospite Ilaria Capua, virologa e Senior Fellow of Global Health alla Johns Hopkins University. Nei precedenti incontri sono saliti sul palco Telmo Pievani, Elisa Palazzi, Valentina Bosetti e Ugo Bardi. Per l’occasione, Davide Lamandini ha avuto modo di scambiare due parole con Massimo Polidoro.
Davide Lamandini: In cosa consiste la rassegna di eventi della Scatola di Archimede? Da dove è nato questo nome e cosa significa?
Massimo Polidoro: La Scatola di Archimede è prima di tutto un omaggio a Piero Angela, mio amico e maestro, che una cinquantina di anni fa ha scritto La vasca di Archimede (Garzanti, 1975) [prende il volume dalla libreria per farlo vedere, ndr.], un libro in cui si cercava di capire il presente e il futuro del nostro pianeta, sulla base delle scelte del presente.
Le previsioni di allora erano abbastanza preoccupanti per quanto riguardava l’inizio del nuovo millennio: andando avanti così, senza prendere le dovute precauzioni, si diceva che ci sarebbero state delle conseguenze negative in molti ambiti, dalla giustizia sociale alla demografia, fino ai cambiamenti climatici – che non si chiamavano ancora così.
Oggi, a cinquant’anni di distanza, vogliamo fare il punto: capire cosa si sia fatto, se si è fatto qualcosa, e in che situazione ci troviamo. L’idea di Piero era proprio questa.
La vasca di Archimede era una metafora per dire che, proprio come il principio di Archimede – che afferma che un corpo immerso in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto uguale al peso del volume del fluido spostato – allo stesso modo, in una società come la nostra, la cultura e le scelte portano a delle inevitabili conseguenze. Non tenerne conto è follia.
Abbiamo ripreso questa metafora: l’idea è di avere ogni volta un esperto che parla di un tema diverso; e, poi, riprendendo sempre la lezione di Piero, abbiamo deciso di esporre queste tematiche in maniera accessibile e piacevole: non basta essere rigorosi dal punto di vista scientifico, che è comunque fondamentale, ma bisogna anche essere accattivanti.
D.L.: Perché avete sentito l’esigenza di portare la scienza a teatro?
M.P.: Partiamo da un presupposto: le scelte che si fanno in ambito scientifico riguardano tutti. Proprio come diceva Piero, il fatto di vivere in una società che è profondamente scientifica e tecnologica, e non riconoscere che anche la scienza fa parte della nostra cultura, è uno dei grandi problemi contemporanei del nostro Paese.
Si pensa sempre che la scienza sia qualcosa di lontano, di esterno, di contrario alla cultura, quasi un’attività manuale. Ed è un danno che ci fa restare indietro come Paese, che ci costringe ad andare al seguito di altri, perché investiamo poco nella ricerca, nella formazione, nell’informazione.
L’idea di portare la scienza a teatro rientra in questo disegno più ampio: per me, il teatro è un luogo caro. Mi è sempre piaciuta l’idea di andarvi non solo come spettatore, ma anche per svolgervi delle attività.
Volevo portare degli esperti, dei ricercatori, degli scienziati, che sanno fare ricerca e allo stesso tempo sono in grado di parlare al grande pubblico, e fare con loro delle conversazioni su tematiche che riguardano il nostro mondo per chiedersi insieme dove siamo e dove stiamo andando.
Poi, al di là delle conversazioni – che sono studiate per essere accessibili –, ci sono altri momenti, che sembrano non c’entrare nulla con la scienza, ma che aiutano a rendere il tutto più fruibile. In fondo siamo a teatro, no? [sorride, ndr.]
In scena, oltre a me e all’ospite di turno, ci sono Nadio Marenco, un fisarmonicista straordinario, che introduce i temi e accompagna le conversazioni, Francesco Lancia e Chiara Galeazzi, che ogni volta trovano un angolo particolare per riassumere in una conclusione umoristica i temi emersi nel corso del dialogo.
D.L.: E così la vasca è diventata una scatola?
M.P.: Non potevamo portare sul palco una vera e propria vasca [ride, ndr.]; quindi, abbiamo pensato di mettere in scena una scatola rossa, dalla quale io di volta in volta estraggo degli oggetti che ci servono da spunto per avviare la conversazione: può essere – ed è stato, negli scorsi appuntamenti – una bilancia, un libro, della sabbia, un termometro…
D.L.: Il prossimo incontro, il 5 maggio – l’ultimo della Scatola di Archimede – sarà dedicato alla salute interconnessa e avrà come ospite Ilaria Capua. Negli ultimi tempi ci siamo resi conto che non ci sono solo gli esseri umani su questo pianeta, o meglio che non ci dobbiamo preoccupare solo della salute degli esseri umani; in questo senso, parliamo di “salute circolare”. Da dove viene il tema?
M.P.: Quando è uscito La vasca di Archimede non si parlava ancora di “salute circolare”, è vero; però, già dalla fine degli anni Sessanta stava maturando l’idea di una salute globale, inserita in un contesto naturale.
Questo termine, molto recente, serve a capire che la nostra salute non riguarda soltanto noi, ma anche l’ambiente, la natura, vegetale e animale; e, infatti, molto spesso quello che succede agli animali poi succede anche a noi, e la pandemia è un ottimo esempio da questo punto di vista.
Ilaria Capua (sito ufficiale) è una virologa dal curriculum internazionale, lavora alla Johns Hopkins University, ha avuto una cattedra universitaria in Florida e ora è tornata in Italia. Al fianco della ricerca e delle lezioni, ha deciso di dedicare una parte considerevole del suo tempo alla divulgazione, perché si è resa conto di quanto siamo indietro come Paese, e di quanto abbiamo bisogno di capire la scienza.
Così, ha deciso di tenere lezioni e corsi soprattutto per le scienze umane, per le scienze sociali e per chi si occupa di politica internazionale; e lo stesso fa con la divulgazione – ad esempio, anche lei di recente ha portato in teatro un suo spettacolo [Le parole della salute circolare, 2024, ndr.].
Ne abbiamo bisogno non solo perché poi si tratta di prendere decisioni singole che riguardano il futuro, ma anche perché i ragazzi di oggi magari diventeranno i politici di domani, e se ora capiscono come funziona il mondo che ci circonda, magari in futuro le loro scelte saranno più informate rispetto a quelle compiute dai loro genitori.
D.L.: Qual è stata la risposta del pubblico ai primi quattro incontri?
M.P.: Abbiamo sempre avuto il teatro pieno; e non è una cosa scontata, visto il tema. Sicuramente vengono anche persone che non sono abituali frequentatrici del teatro, che magari in questa occasione lo scoprono come spazio di cultura. E poi hanno partecipato tanti ragazzi, magari incoraggiati dagli insegnanti, o perché erano interessati agli argomenti trattati.
D.L.: Il dialogo con Ilaria Capua chiude questo ciclo di cinque incontri. Ha intenzione di mettere in programma una nuova stagione della Scatola di Archimede, magari in autunno?
M.P.: Dopo questa risposta è difficile non farlo. All’inizio era una scommessa, ci siamo detti “proviamo”, ed è andata benissimo.
Un incontro che è saltato per miei motivi personali, ma che spero di recuperare nella prossima stagione, aveva come tema l’esplorazione spaziale e l’idea di un ‘pianeta B’. I biglietti di quello spettacolo erano andati esauriti praticamente subito, e i ragazzi erano tantissimi. Lo abbiamo dovuto annullare, ma lo riprogrammeremo.
Tra l’altro, in parallelo a questa serie di incontri, quest’anno ho voluto portare a teatro uno spettacolo su Charles Darwin (link al sito del teatro Menotti), intitolato Il mistero di Darwin, per spiegare come sia nata la teoria dell’evoluzione.
Lo spettacolo è veramente ricco: sono novanta minuti di monologo, in cui fingiamo di tornare nello studio di Darwin: in scena è presente un vetrata spettacolare che affaccia sulla campagna inglese, dove pian piano diventa notte; e poi ci sono i tavoli, le carte, la lavagna con i suoi disegni, tante cose che mi danno di volta in volta il pretesto per leggere le lettere o i commenti di Darwin.
L’obiettivo è raccontare la nascita di questa idea formidabile: come è stato possibile che un uomo dell’Ottocento abbia avuto un’intuizione che nessuno aveva avuto prima e che ancora oggi tanti faticano a capire. Del resto, penso che questo sia uno dei problemi principali: tantissimi oggi non sanno neanche cosa sia e ne parlano a vanvera.
Con Il mistero di Darwin abbiamo fatto sei date al Menotti, e ancora una volta il teatro è sempre stato pieno. Quindi, dalla prossima stagione teatrale puntiamo a farlo girare per l’Italia.
Intervista a cura di Davide Lamandini
(In copertina la Scatola di Archimede; un ringraziamento particolare a Eleonora Doci e Vania Ribeca)