Il 10 aprile Carlotta Bertinelli, Nina Orsini e Ludovica Accardi di Giovani Reporter, sul palco del LabOratorio di San Filippo Neri (Bologna), hanno posto delle domande a Maura Gancitano, nell’ambito di un dialogo sul patriarcato. L’evento è stato sviluppato da Giovani Reporter in collaborazione con Mismaonda.
Carlotta Bertinelli (17 anni): Nel libro Specchio delle mie brame (Einaudi, 2022) sostiene che “non è stato l’intero genere maschile a mettersi d’accordo per impedire alle donne di essere libere, ma è stato l’ordine sociale che – nel momento in cui le donne hanno avuto accesso all’indipendenza – ha iniziato a produrre controimmagini e a cercare di contenere il cambiamento. Le controimmagini vengono prodotte grazie alla paura: paura che i rapporti tra i generi cambino, paura che tutto diventi caotico e incomprensibile, paura di perdere la mascolinità e la femminilità”.
Per lo stesso motivo Simone de Beauvoir ha scritto nel libro Il secondo sesso (trad. Il Saggiatore, 2016) che “essere donna non è un dato naturale, ma il risultato di una storia”. È forse per questo che “una donna libera è l’assoluto contrario di una donna leggera”.
Fin dall’antichità i colori, i giocattoli, gli hobby, addirittura i comportamenti e le emozioni sono catalogati in base al genere. Secondo lei cosa spinge l’umanità ad avere il bisogno, di dividere tutto, definendolo “da maschio” o “da femmina”? La questione delle controimmagini si basa davvero sul terrore del caos o è una questione di prevaricazione e, talvolta, di egoismo?
Maura Gancitano: Prima di tutto, bisogna fare un discorso millenario, molto più semplice di quanto possa sembrare. In origine non c’erano “cose da maschio” e “cose da femmina”, ma le donne dovevano farsi da parte: servivano per la riproduzione o per lo sfogo degli istinti.
Pensate che a livello teologico veniva addirittura detto di stare il più possibile alla larga dalle donne, di restare tra uomini; e abbiamo tantissimi testi che sostengono queste teorie, alcuni dei quali sono stati tradotti per la prima volta in italiano da Chiara Frugoni, che è stata una grandissima medievista italiana.
Per moltissimo tempo le cose più importanti sono state fatte da uomini tra uomini; tuttavia, a volte, in alcune comunità e situazioni le donne usavano quello che Chimamanda Ngozi Adichie chiama “bottom power”. Immaginate Messalina e le altre matrone romane come lei, che cercavano di esercitare potere e di fare politica, ma non potevano farlo in modo diretto: usavano il potere del sesso perché era l’unico modo per avere una certa influenza.
C’è poi un caso estremamente interessante, raccontato da Chiara Mercuri, quello di Maria di Francia: una donna nobile del Medioevo (come Christine de Pizan), che nel suo caso aveva il potere e che in qualche modo ha spinto all’elaborazione della storia della parte del ciclo arturiano dedicata agli amori tra Lancillotto e Ginevra, che è una storia secondo Mercuri molto più moderna di quanto pensiamo.
La questione, quando guardiamo al passato, ha a che fare con questo: le donne dovevano stare da parte, non ci si prendeva cura di loro e venivano associate al corpo come oggetto. Era estremamente raro che il destino di una donna potesse essere diverso da questo.
Ipazia, ad esempio, diventa filosofa e matematica grazie al padre; poi, però, la fanno a pezzi, una volta che in un qualche modo perde quella protezione patriarcale che le permetteva di fare ciò che desiderava. Quindi, in sintesi, veniamo da millenni di donne che non hanno potuto fare quello che volevano, che dovevano nascondersi o trovare altri modi.
Per quanto riguarda gli stereotipi di genere, invece, parliamo di questioni molto più recenti. L’idea del fiocco azzurro e del fiocco rosa, secondo Elena Gianini Belotti, nasce negli anni ’20 del secolo scorso da un’ostetrica bolognese; e associare il colore a un genere è una questione molto più legata al mercato dell’abbigliamento, è molto più moderno di quanto pensiamo.
Nelle arti visive non è mai stato così: c’erano valori simbolici, ma non una vera e propria ragione per cui associamo l’azzurro ai maschi e il rosa alle femmine, è una questione che ha molto più a che fare con il marketing che con altro.
Questi stereotipi (cioè l’idea che ci siano “cose da femmina” e “cose da maschio”) sono diventati così forti quando si è diffusa la paura che fosse minato l’ordine sociale. Al tempo le donne, vivendo nelle città, stavano iniziando a far parte di esse in tutti i sensi. Ci si chiese come si potesse mantenere l’ordine, perché ormai ‘mettevano bocca’ su tutto, fino addirittura a chiedere il diritto di voto – che era una cosa impensabile. Si diffondono allora una serie di discorsi stereotipati, e non è semplice dare una risposta unica al perché di questo fenomeno.
Quando scrivo che non è stato tutto il genere maschile, lo scrivo perché a volte c’è l’idea che un giorno i maschi si siano chiusi in una stanza e abbiano deciso che le donne dovevano essere belle, prima di tutto, ma non avviene esattamente così. In effetti, c’è una certa paura nei confronti di quello che le donne fanno e del loro desiderio di far parte del contesto sociale.
Si diffonde allora una narrazione che dice che ci sono “cose da femmina” e “cose da maschio”, e queste ultime sono le più interessanti e in qualche modo sono legate al potere, mentre le prime sono legate alla cura della famiglia e dei figli. Nel mondo antico i filosofi stavano nell’agorà a conversare: chi lavorava? Chi si occupava del mangiare? Chi si occupava dei bambini? Erano gli schiavi e le donne.
Questo serve a capire che le donne al tempo erano isolate come lo erano altre persone, ad esempio i sordi o chi aveva forme di disabilità, le persone intersex: si trattava di intere fasce di popolazione che dovevano essere nascoste e isolate, tenute fuori dallo spazio sociale. È interessante vedere come per millenni vi era una certa visione delle cose che a un certo punto viene istituzionalizzata, difesa dalla scienza, diffusa con capillarità attraverso i mezzi di comunicazione, al punto che sembra anche senso comune.
Il fatto che ci siano “cose da femmina” sembra qualcosa che tutti noi pensiamo, ma in realtà sono solo discorsi che si sono diffusi a un certo punto della storia e hanno fatto massa critica. E oggi, nonostante ci siano molte alternative, è difficile capire e cercare di creare una versione diversa delle cose, proprio perché la molteplicità di discorsi crea caos.
Nina Orsini (18 anni): All’inizio di Specchio delle mie brame scrive “da piccola volevo essere brutta e diventare una filosofa”, e procede poi a raccontare un’esperienza personale che è un vissuto comune per molte bambine o giovani donne.
Fin da quando siamo piccole ci ritroviamo di fronte una netta distinzione: o siamo belle, o siamo intelligenti, e ci raccontano la storia della prima donna, Eva, che sarebbe origine di tutti i mali dell’universo.
Volevo chiedere a lei, donna filosofa, che lavora in un campo dominato da figure maschili, come sia stato il suo percorso da donna intelligente e bella – o, meglio, che cura la sua apparenza?
Maura Gancitano: Prima di scrivere il libro mi è tornato in mente un racconto che avevo letto alle scuole medie e che mi ha molto condizionata quando ero piccola, un racconto moralista scritto alla fine del Settecento in Francia e poi finito nell’antologia delle scuole medie. Si intitolava Belloccia o Bruttina e raccontava di due sorelle, una bella e una brutta, in cui solo quella brutta, coltivando la propria intelligenza, riesce ad avere una vita felice e soddisfacente.
Mi aveva trasmesso l’idea che ci fossero due possibilità: essere intelligente o essere bella. Sembra un paradosso rispetto a quello che abbiamo detto finora: la società ti dice che devi essere bella e poi in realtà questi racconti moralisti ti dicono di essere intelligente? In realtà ti viene chiesto tutto.
Ti viene chiesto di diventare madre, e di lavorare, e cioè di riuscire a tenere ogni cosa sotto controllo; cosa che è impossibile per ogni essere umano e che crea oggi tantissima ansia e stanchezza, e molto altro.
Mi sono resa conto che per me era molto difficile capire che cosa fosse naturale, cosa avesse a che fare con le mie caratteristiche, e cosa invece fosse indotto.
Mia madre, quando ero piccola e quando ero adolescente, mi diceva “un giorno queste cose ti interesseranno”; ma, in realtà, non hanno mai suscitato in me alcun interesse.
Ci sono cose che adesso effettivamente faccio, ma è per me un “mettere la divisa”, come dice Serena Dandini. Di solito la indosso per non stare a pensare a delle cose che per me sono difficilissime, come abbinare i vestiti. Però, soprattutto nel contesto della provincia siciliana in cui sono nata, un contesto in cui si veniva molto guardati, era estremamente importante tutto questo.
La mia fortuna è stata il fatto che non me ne accorgevo: in questo, essere una persona neurodivergente è stato una fortuna perché non mi accorgevo di certi meccanismi sociali e non mi rendevo conto di essere tanto osservata per come camminavo o come mi vestivo; e questo mi ha dato la possibilità di non vivere così tanto la pressione.
Con la maternità, invece, ho iniziato a percepirmi in modo diverso e a non sentire più così estranee da me certe cose considerate frivolezze femminili.
C’è stato poi un episodio significativo che mi ha aiutato a iniziare la scrittura di questo libro con Einaudi. Ero a Reggio Emilia per un convegno sulla scuola e – non so perché – ho consigliato un brand di trucchi in una storia di Instagram, per via di alcune promozioni. L’ho fatto in modo molto ingenuo: non era una pubblicità, non è una cosa che ho mai fatto e non è una cosa che mi interessa.
Questa storia ha suscitato delle reazioni fortissime nell’ambito di chi si occupa di filosofia in Italia. Dicevano: “non solo questa vuole parlare di filosofia, ora consiglia anche trucchi? O una cosa o l’altra”. C’era l’idea che la mia immagine dovesse rientrare comunque in un certo stereotipo e quindi non potessi parlare di altro.
Ci ho pensato diversi giorni e l’ho voluta raccontare attraverso il format online “Get ready with me”, in cui parlavo dell’episodio mentre mi truccavo. Ho deciso di rivendicare una cosa che non è che faccia così tanto parte di me, però mi sembrava doveroso farlo, visto che sembrava esserci difficoltà a tenere insieme i due aspetti.
È una cosa molto presente ancora oggi: se sei una donna che parla di cultura, di scienza, di questioni importanti, il modo in cui appari viene osservato tantissimo. Che sia trascurata o eccessivamente curata, in ogni caso vieni osservata costantemente; e questo limita tantissimo, è di nuovo un’interferenza. Ad esempio, una ricercatrice italiana di medicina molecolare verrà comunque osservata per come appare: il suo aspetto non sarà un elemento secondario della sua identità e del giudizio su di lei.
Molto spesso, dunque, la tendenza è quella di non essere troppo appariscente, non mostrare troppo, non parlare di certi interessi. Se, però, noi vediamo un filosofo che parla di calcio, non ci sembra una cosa strana, perché in un certo senso si occupa di “cose da maschi”.
Se invece fosse una scienziata italiana a parlare della sua passione per le borse, questa cosa farebbe abbassare o no la credibilità nei suoi confronti? Probabilmente sì. Il problema è questo, e ne ho voluto parlare perché mi sono resa conto che era un limite anche per me.
Non so cosa avrei fatto in un mondo diverso, in una società diversa, e se non avessi letto quel racconto. Però la sensazione che ho condiviso con molte persone è proprio il fatto che abbiamo ancora quest’idea di dover scegliere, quando in realtà le posizioni sono tantissime, soprattutto quando parliamo di corpi.
Non ci si può puntare su uno schema a due dimensioni, è qualcosa di molto più complesso di così, perché poi in fondo non ci sono due persone che occupano lo stesso spazio. E, quindi, questa molteplicità dovrebbe essere qualcosa di cui non avere paura. Invece, ne abbiamo paura quando ci riguarda, e la giudichiamo se riguarda qualcun altro.
Ludovica Accardi (17 anni): Nel video Femminismo non è il contrario di Maschilismo, sostiene che il femminismo si sviluppi come fenomeno sociale, come una lotta ormai tanto radicata da vantare un’ampia letteratura accademica. Dunque, se è studiato così tanto, come mai ancora nel 2024 ci sono dei giovani che portano avanti una mentalità sessista?
Maura Gancitano: Un articolo di qualche settimana fa dice che le donne in Italia stanno assumendo posizioni sempre più progressiste, mentre i ragazzi si stanno spostando verso l’ala conservatrice. Le donne vanno a sinistra e gli uomini a destra, soprattutto nel caso dei giovani adulti. Questa cosa ha una lunga serie di ragioni complesse, ma proviamo ad analizzarle.
Molto spesso si ha paura di cercare di capire cosa è accaduto, il perché è avvenuta questa cosa, paura di essere equivocati o male interpretatati. Sarebbe importante, invece, poterne parlare sinceramente. Perciò, nonostante tutta la letteratura, tutti i dati, tutti gli studi che tu possa portare, la percezione è che il femminismo sia il contrario di maschilismo.
Ieri è stata pubblicata la mia intervista alla Stampa in cui parlavo del lascito solidale, cioè di quelle persone che nel momento della morte decidono di donare quello che hanno, che sia tanto o poco, a organizzazioni, associazioni, fondazioni; quindi, un gesto di cura, di solidarietà, di collettività.
Ecco, secondo i dati il 70% di queste persone è di genere femminile. Perché? Quello che io sottolineo sempre in questi casi è che non si tratti di una questione biologica, ma di una questione culturale.
Dovremmo cercare di capire perché la cura è ancora considerata una questione femminile, il motivo per cui ci sembra normale che le donne siano quelle che si prendono cura, mentre gli uomini no. Questo non dovrebbe essere un discorso di parte, ma collettivo.
Poi, abbiamo ancora l’idea che gli uomini non provino emozioni. I miei amici maschi sono persone estremamente emotive e spesso fragili, ad esempio. Non è vero che non ci sia una vita emotiva maschile: anche questa è un’idea, uno stereotipo, che per esempio rende molto più difficile per un uomo fare un percorso di psicoterapia.
Mi è capitato da poco di parlare con uno psicoterapeuta, Michele Mezzanotte, che mi diceva che più del 90% degli uomini che diventano suoi pazienti vanno in studio per un problema sessuale. Quello è il motore che li spinge.
Se ci sono altre questioni, e ci sono sicuramente, l’uomo pone grandissime resistenze perché vengono considerate questioni a cui non fare attenzione, per cui sembra di essere troppo deboli, perché in quanto uomo certe cose non posso discuterle, magari non ho proprio le parole per esprimerle. Dunque, io non punterei tanto il dito sui giovani.
Esiste una simpatia per il fascismo estremamente preoccupante, anche nei ragazzi preadolescenti. Porto l’esempio di una classe delle medie in cui un ragazzino di origine ebraica doveva sopportare il saluto fascista di tutti gli altri maschi della classe durante gli intervalli. Cose simili mi sono state raccontante in tanti altri contesti.
Il fenomeno esiste, ed è un dato di fatto. Quello che dovremmo capire è se si tratta di una reazione e come si può rispondere. Secondo me non bisogna reprimere o umiliare, ma educare. Dovremmo capire perché c’è questa attrazione, perché questa simpatia, perché una repulsione totale nei confronti dei discorsi che facciamo qui ora. Anche perché non sono discorsi che, per come mi pongo e la vedo io, escludono il genere maschile, anzi.
Quanto può essere arida un’educazione che ti dice che tu non provi emozioni, che non sei in grado di prenderti cura di qualcun altro, che non sei in grado di amare e provare tenerezza, che non hai empatia? È un’educazione tremenda. È talmente forte quella costruzione dell’identità per cui gli uomini spesso vengono educati a corazzarsi, ma sotto quella corazza c’è un individuo estremamente fragile, che spesso risponde con aggressività quando sta male.
Quindi, secondo me, c’è moltissima paura di cambiare tutto questo e anche di mostrare le proprie vulnerabilità. E poi oggi ci sono pochi modelli: paradossalmente, abbiamo più modelli femminili alternativi rispetto a modelli maschili di riferimento. Quindi, è un momento in cui se l’uomo prova a mettersi in una posizione di rischio, a parlare di sé, a liberarsi di una certa virilità che deve dimostrare costantemente – chi altro può essere? Che altro può fare? E se poi lo ridicolizzano?
E dovremmo considerare la cura non più una questione femminile ma una capacità umana da coltivare. Mi auguro che oggi soprattutto ci siano degli uomini che siano consapevoli di questo, che possano parlare ad altri uomini; perché è chiaro che io posso parlare fino a un certo punto, e ne parlo sempre senza capire fino in fondo che cosa vuol dire essere un uomo.
Secondo me la cosa importante è avere il coraggio di parlare delle vulnerabilità maschili, anche di riderne, ma di farlo seriamente. Perché ci sono delle questioni che io personalmente ho scoperto negli ultimi anni grazie a dei miei amici che me le hanno raccontate e di cui io non ne avevo minimamente idea.
Mi rendo conto che si tratta di qualcosa che per me è altro, di un tipo di educazione che è diversa da quella che ho ricevuto. Capisco la difficoltà nel non avere punti di riferimento e anche nel conforto che può dare una dimensione estremamente conservatrice e in opposizione ai discorsi che abbiamo fatto stasera. La capisco, però non la condivido, e non credo che sia utile soprattutto per quegli uomini e per quei ragazzi.
Intervista di Ludovica Accardi, Carlotta Bertinelli e Nina Orsini.
Cura editoriale di Valeria Zaffora.
(In copertina Carlotta Bertinelli, Nina Orsini, Ludovica Accardi, Maura Gancitano e Sara Nizza; immagine di Mattia Belletti)
10 aprile 2024. “Il patriarcato: un dialogo con Maura Gancitano” è un evento a cura di Elettra Dòmini e Davide Lamandini, in collaborazione con il LabOratorio di San Filippo Neri, la Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna e Mismaonda; sul palco Maura Gancitano e Sara Nizza.
– Stesura dei testi di Alice Maria La Morella, Gioele Marangotto, Sara Nizza e Federica Pasquali.
– Domande aggiuntive di Ludovica Accardi, Carlotta Bertinelli e Nina Orsini.
– Progetto grafico di Stefania Berehoi e Barbara Mengoli.
– Fotografie di Mattia Belletti e Floriana Soranna.
– Riprese e montaggio di Riccardo Armari.
Un ringraziamento particolare a Mariangela Pitturru e Alice Rosellino.
L’evento “Il patriarcato: un dialogo con Maura Gancitano” è stato realizzato in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e Mismaonda.