Domenica 14 aprile, l’Oratorio di San Filippo Neri (Bologna) ha ospitato il direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco per la presentazione del suo ultimo libro, “Alla ricerca di Tutankhamun” (Franco Cosimo Panini, 2023). A margine dell’evento, inserito all’interno della rassegna “Libri in Scena”, Alexandra Bastari ha avuto l’occasione di intervistarlo.
“Ho scritto un libro su un faraone di cui non si conosce quasi nulla. Eppure, è il più famoso di tutti”. Ospite domenica 14 aprile al LabOratorio San Filippo Neri per la presentazione del suo ultimo libro, Alla ricerca di Tutankhamun, Christian Greco ha ribadito come la costruzione di un mito storico giochi spesso a cavallo di paradossi simili, scavalcando l’ostacolo della carenza di fonti che da sempre affligge archeologi, egittologi e in generale tutti gli storici dell’antichità.
Christian Greco, una vita dedicata alla storia egizia
Christian Greco, affermato egittologo e direttore del Museo Egizio di Torino dal 2014, ha dialogato sul palco con Daniela Picchi, responsabile della Collezione Egizia del Museo Archeologico di Bologna e segretaria del Comitato Internazionale di Egittologia (CIPEG) dell’ICOM.
Autore di oltre 90 pubblicazioni scientifiche e con alle spalle numerose esperienze di ricerca e di insegnamento all’estero, Greco promuove la realizzazione di mostre temporanee e itineranti, convegni, progetti di inclusione sociale e lo sviluppo di collaborazioni con musei, università e istituti di ricerca nazionali e internazionali.
Un’agenda fittissima di impegni in cui non manca lo spazio per la divulgazione della storia egizia al grande pubblico, iniziata a livello editoriale con la pubblicazione di Tutankhamun. La scoperta del giovane faraone (De Agostini, 2022). Il ritorno sulla figura del faraone più famoso di sempre per i tipi di Franco Cosimo Panini si colloca nell’ambito della celebrazione del centenario della scoperta della tomba di Tutankhamun, un evento spartiacque nella storia dell’archeologia che ha reso Howard Carter, coordinatore degli scavi, l’archeologo per antonomasia nell’immaginario moderno.
Un momento di studi e di ricerche particolarmente fecondo, in cui Alla ricerca di Tutankhamun si è reso necessario per “raccogliere e sintetizzare le conclusioni raggiunte finora, meno certe di quanto vorremmo”, scrive Christian Greco (p. 10), e per riflettere sul significato del concetto di ‘scoperta’, che è “rivelazione del nostro stesso passato e quindi, in un certo senso, di una parte di noi stessi che non conosciamo o che abbiamo dimenticato” (p. 231).
La fama planetaria che tuttora accompagna l’intera vicenda, il flusso di visitatori della tomba e del museo in cui sono custoditi gli oggetti […] e persino la leggenda della maledizione, in un certo senso, hanno fatto in modo che almeno uno dei desideri degli antichi Egizi si inverasse: ovvero che il proprio nome potesse continuare a risuonare, in eterno, nelle bocche dei viventi.
Christian Greco, Alla ricerca di Tutankhamun (pp. 231-232).
Alexandra Bastari: Possiamo considerare Howard Carter il co-protagonista del suo libro. È un uomo che vive un’avventura straordinaria: destinato a fare tutt’altro nella vita – l’illustratore – si ritrova a condurre le operazioni di scavo probabilmente più famose di sempre.
In uno degli ultimi capitoli, lei riporta le parole esatte usate da Carter per descrivere le operazioni di scavo e che sembrano rivelare inaspettatamente una certa frustrazione. Carter parla della sua esistenza e di quella dei suoi colleghi come di un “incubo”. L’eccitazione del momento si mescola alla demoralizzazione. Oggi, invece, il lavoro degli archeologi e degli egittologi come è agevolato dalle nuove tecnologie?
Christian Greco: Mi ritrovo completamente nell’idea dell’incubo e penso che oggi sarebbe ancora peggio. Credo che, se da una parte tutti sognavano di trovare la tomba di Tutankhamun, dall’altra parte ha significato avere a che fare con questioni di sicurezza, pressioni politiche, problemi di narrazione, di turismo: tutti problemi che hanno reso un “incubo” l’avventura di Carter.
Proprio il grande afflusso di turisti impediva a Carter di procedere con gli scavi: mentre l’archeologo, in quello spazio angustissimo, doveva catalogare e studiare gli oggetti, l’agenzia di viaggio di Thomas Cook organizzava continue visite alla tomba, cui prendevano parte anche molte teste coronate. Quando Carter provò a limitare le entrate al solo martedì, si crearono inevitabilmente un po’ di inimicizie.
Poi, Lord Carnarvon [egittologo britannico e finanziatore degli scavi di Carter, ndr.], che aveva bisogno di soldi, ha pensato di “vendere lo scoop” – noi oggi diremmo “la prerogativa delle notizie” – al Times. Errore fatale.
Invito sempre i miei studenti a immaginare cosa sarebbe successo se, per assurdo, durante gli scavi del mausoleo di Augusto, esso fosse stato trovato intatto con tutti i gioielli che avevano accompagnato l’imperatore in vita. E immaginare che cosa sarebbe successo se non lo avessero scavato gli italiani, ma gli inglesi, e le imprese avessero concesso l’esclusiva delle notizie non al Corriere della Sera, ma al Times. Ecco che gli egiziani reagirono allo stesso modo, arrivando addirittura a bloccare lo scavo di Carter.
In una lettera molto dura fu detto a Carter che le leggi “non si discutono”: vi si obbedisce e basta.
Lo stesso Carter non fu certamente acuto quando prese come avvocato Maxwell, che qualche anno prima, nel 1917, aveva tentato di far condannare a morte Morcos Bey Hanna, Ministro dei Lavori Pubblici da cui Carter ora dipendeva. Era chiaro, quindi, che le relazioni non erano delle migliori, e lo scavo venne sospeso.
Non solo: c’è l’invidia dei colleghi, l’incapacità e l’”incubo”, termine che lui utilizza per descrivere la responsabilità costante di dover prendere continuamente una decisione: ad esempio, nel tentativo di preservare un capo in tessuto, c’era sempre il rischio di danneggiare o dislocare le decorazioni con le perline. Per questo, Carter decise di usare la paraffina per fissare le strutture decorative, così da mantenere la loro forma originale, consentendo di documentare il disegno e poi ricostruire le decorazioni nel museo. Questo perché le operazioni di scavo implicavano una scelta.
Oggi sicuramente abbiamo dei mezzi diversi, ma lo scavo ha ancora a che fare con la scelta e la capacità di discernimento e di disamina dell’archeologo.
Le do un esempio: la dottoressa Picchi ha scavato con me a Ṣaqqāra, in una necropoli molto abitata nel Nuovo Regno, ma in cui circa 1500 anni dopo arrivarono gli anacoreti del deserto.
Si tratta di un bellissimo monastero, quello di Apa Jeremiah, che fu scavato da J.E. Quibell agli inizi del ’900. Arrivati qui, questi religiosi prendevano dimora nelle tombe, vivendo separati dal resto della civiltà, ricercando il dialogo con Dio e quindi uccidendo ritualmente tutto ciò che di pagano era rappresentato, come volti, genitali e mani, scrivendo sulle pareti delle preghiere in copto.
A volte si trovano reperti interessanti in queste tombe: mi viene in mente un bellissimo pavimento con degli òstraka in cotto, un luogo dedicato alla preghiera che si è conservato quasi intatto e la cella di un monaco che viveva lì 2000 anni fa, all’inizio dell’era cristiana. Però sappiamo che sotto quel sito c’è anche altro. Ecco allora che bisogna fare una scelta.
Daniela Picchi: Lo scavo è anche distruzione.
Greco: E questo è un grandissimo problema. Non so se ci avete mai riflettuto: l’archeologo non costruisce niente, ma distrugge, quindi deve meticolosamente documentare ciò che trova, perché se quello strato non viene documentato sarà per sempre cancellato dalla memoria. Le parole di Carter sono in realtà delle parole di metodo, con le quali noi tutti abbiamo ancora oggi molto a che fare.
A lui dobbiamo il metodo Carter, un metodo incredibile per l’epoca: lavorò con una squadra multidisciplinare, che impiegò in totale dieci anni a scavare l’intero sito, perché ogni oggetto veniva documentato, fotografato, numerato, restaurato e disegnato. E, fra l’altro, i suoi archivi sono confluiti al Griffith Institute.
C’è però una cosa che non ho detto, ma che è importantissima: i 6000 reperti della tomba di Tutankhamun aspettano ancora una pubblicazione scientifica.
A.B.: Le collezioni di resti umani rinvenute in Egitto appartengono a una cultura della morte diversa dalla nostra, in cui i rituali funebri svolgono una specifica funzione: quella di assicurare il riposo eterno al defunto. Oggi, però, gli interessi di scavo e di esposizione al pubblico dei resti rischiano di minacciare questo tipo di sensibilità religiosa. In Alla ricerca di Tutankhamun lei ha infatti giustamente scritto che il “riposo” di Tutankhamun è stato disturbato nel 2007, con l’esposizione dei resti umani – non protetti dal sarcofago – allo sguardo dei turisti. È possibile trovare un bilanciamento tra questi due tipi di interessi?
Greco: L’esposizione dei resti umani è un qualcosa su cui la museologia internazionale si interroga in maniera molto viva, con sensibilità diverse nel Nord America e nel Nord Europa.
Sono stati però messi dei ‘paletti’. L’International Council of Museums (ICOM), di cui la dottoressa Picchi è un membro attivo in una delle commissioni, ha accolto nel 2004 un codice etico, votato a Seoul.
Gli articoli dal 2.4 al 3 contengono regole precisissime, ed è stabilita in modo chiarissimo quale sia l’etica rispetto ai resti umani.
C’è il problema, però, che sottolineava lei: se è vero che è molto semplice capire come si debba agire in conformità ai principi fondamentali e universali dell’uomo (come il diritto alla sepoltura) nel momento in cui si ha a che fare con una religione di una società tutt’ora vivente, non è la stessa cosa quando si ha a che fare con una civiltà scomparsa.
Se io ho una testa Maori e c’è una comunità di Maori che la riconosce e può dimostrare un rapporto ancestrale con essa, la testa può ricevere una degna sepoltura. Ci sono innumerevoli musei, anche in Italia, che hanno avviato istanze di restituzione. Quando parliamo di materiale archeologico è molto più complesso. Se un Paese decidesse di restituire una mummia all’Egitto, essa non verrebbe sepolta, perché quella religione non esiste più.
I musei devono interrogarsi su come rispettare, da una parte, la dignità universale che riconosciamo a tutti gli esseri umani, come esponenti della stessa specie, tutelare, dall’altra, le esigenze della ricerca. Le cose sono cambiate moltissimo rispetto a vent’anni fa. Ricordo che nel 2001 andai a Leiden a una mostra che si chiamava Fascinating Mummies, in cui, sotto a un pavimento di vetro che addirittura si illuminava mentre veniva calpestato, c’era una mummia: era una sorta di spettacolarizzazione pensata per spaventare il pubblico. Oggi una cosa del genere non si farebbe più: nessuno utilizza più resti umani per pubblicizzare una mostra.
Maria Teresa Panini [proprietaria della casa editrice Franco Cosimo Panini, ndr.] ha dovuto accogliere la mia richiesta di togliere dal bookshop i gadget fatti a mummia, perché in una sala del Museo Egizio di Torino – che si chiama “Sala della Vita” – dichiariamo continuamente al pubblico che i resti umani che lì si trovano appartenevano a delle persone un tempo vive.
Quando è possibile, cerchiamo di avere un approccio più prosopografico e di ricostruire la storia, facendo in modo che il loro nome continui a vivere.
Picchi: La differenza che noi riconosciamo è quella esistente tra i resti umani da contesto archeologico e resti umani da contesto sociale: una differenza fondamentale. Dopodiché, anche a seguito di questa distinzione, a seconda della cultura del Paese con cui abbiamo a che fare esistono approcci nei confronti dei resti umani spesso completamente diversi tra di loro.
Devo dire che in Italia l’approccio ai resti umani archeologici è molto meno complesso che nei Paesi del Nord Europa: pensiamo alle nostre chiese e catacombe. Per noi c’è una certa – perdonatemi la parola – ‘familiarità’, che è diversa da quella esistente in altri Paesi. La cosa fondamentale è il rispetto nei confronti dell’individuo e della sua esposizione.
Quello che si sta cercando di fare è evitare di suscitare un interesse morboso per gli aspetti splatter che ogni tanto si vedono.
I defunti vengono esposti se sono coperti da bendaggi e se c’è dignità nella sua esposizione. Ciò non significa però che non ne dobbiamo parlare, visto che rappresentano un aspetto fondamentale di una civiltà antica che ci ha aperto tante conoscenze.
Personalmente trovo poco rispettoso quello che hanno fatto alcuni musei che hanno pensato di togliere queste mummie da un contesto archeologico e culturale per ritirarle e abbandonarle nei magazzini.
Greco: E, se posso essere esplicito, semplicemente per “togliersi un sassolino dalla scarpa”. In realtà, il nostro Codice Etico ICOM non fa una distinzione fra esposizione, acquisto, ricerca e immagazzinamento dell’opera: cioè, metterla in magazzino non risolve il problema, ma lo rende meno visibile.Rispetto a quello che diceva Daniela, c’è anche un altro punto importantissimo per noi egittologi.
È inutile che ci nascondiamo dietro a un dito: al Museo Egizio abbiamo il corredo intatto di Kha e Merit, l’unico corredo intatto del Nuovo Regno preservato fuori dall’Egitto. Certo, Kha, che era il responsabile delle opere del faraone, e la moglie Merit non avrebbero mai pensato di essere esposti a Torino.
Se io mettessi in magazzino questo corredo priverei i musei della possibilità di eternare quei nomi, cosa che ogni egiziano si augurava avvenisse.
Nella lingua di questa civiltà antica c’è un verbo bellissimo: il verbo “vivere”, che si dice ˤnkh. Poi gli egiziani formavano il cosiddetto causativo aggiungendo una “s”, quindi ˤnkh (vivere) diventa sˤnkh, che significa “far vivere”. Si auguravano di far vivere il proprio nome in eterno, e che esso fosse dotato per sempre di vita come il Dio Sole. Organizzando visite guidate, scrivendo articoli, apponendo le nostre didascalie – per quello parlavo dell’approccio prosopografico –, quando ricordiamo quel nome…
Picchi: …lo facciamo rivivere. Non so se sia un’illusione nostra, un autoconvincimento.
Greco: O un’autogiustificazione.
Picchi: Un’autogiustificazione cui noi crediamo molto perché li rispettiamo profondamente. Il rispetto nei confronti dei resti umani fa la differenza. Non è facilissimo, però speriamo che attraverso il Codice Etico ICOM ogni difficoltà possa essere ovviata.
Greco: Il professor Maurizio Harari, famosissimo etruscologo in Italia, un giorno mi disse: “Del resto, noi archeologi siamo, forse, con coloro che si occupano dell’archeologia funeraria, i più grandi sacerdoti che rispettano e continuano il culto degli antenati”. Io non ci avevo mai pensato, ma in effetti è vero: noi facciamo di tutto nei nostri studi e nelle nostre ricerche per far in modo che il nome, e quindi anche il culto, venga rispettato – tantoché nell’Antico Egitto esistevano regole ben precise su come il culto sarebbe dovuto poi proseguire.
Anche se questa civiltà è andata via via slabbrandosi e ci sono state ibridazioni e trasformazioni – la cultura egizia, così com’era pensata nel 1500 a.C., non esiste più – oggi, forse, sono i musei a preservarne gli ultimi residui.
Jan Assmann [storico ed egittologo tedesco, ndr.] faceva una distinzione tra culture produttive e riproduttive: tra una fase in cui la cultura continua ad essere espressa con creatività sempre viva e una fase in cui questa creatività risulta spenta, ‘morta’, e si può solo guardare indietro per riprodurre cose già esistenti.
Barry Kemp supera un po’ questo concetto, sostenendo che finché noi crediamo nell’agency e nell’influenza degli oggetti, finché fuori da un Museo Egizio ci saranno le file, finché la gente continuerà a leggere i libri e a informarsi, seppur in un modo diverso e trasformato, possiamo dire che l’Antico Egitto continua a vivere.
Picchi: Non chiamiamoli “manufatti” però: gli esseri umani non possono essere chiamati “manufatti” o “oggetti”.
Greco: E, fra l’altro, il Codice Etico ICOM che ricordava prima Daniela parla di “human remains” e “objects of sacred significance”, due espressioni che non vengono scisse. Se noi oggi accettassimo di non esporre tutto ciò che riguarda il sacro e la teologia funeraria chiuderemmo tre quarti dei musei egizi, perché oggi circa il 90% di ciò che esponiamo ha un significato rituale, funerario e sacro.
A.B.: Il grande problema degli egittologi è la carenza di fonti, che impedisce la dovuta e adeguata ricostruzione dei fenomeni storici. Ma alle fonti bisogna anche saper porre le giuste domande: è questa una delle grandi lezioni del metodo storico.
Immagino che siano molte le domande ancora senza risposta o ancora da porre alla storia egizia, ma quali ritenete, ad oggi, le più rilevanti?
Picchi: Dipende dalla nostra fase culturale. Diamo spesso risposte diverse analizzando le stesse fonti ed è successo continuamente. Leggiamo diversamente le stesse fonti anche a seconda del nostro Paese di appartenenza. È molto stimolante. Quello che è difficile è portare a convergenza queste differenze, che sono il prodotto di un flusso culturale che si diversifica a seconda dell’epoca e dei contesti di formazione.
La scoperta della tomba di Tutankhamun è avvenuta in un periodo che noi definiamo “coloniale”, in cui l’Egitto, ancora prima della scoperta della tomba del famoso faraone, cercava di rientrare in possesso del patrimonio archeologico riportato alla luce. La sua scoperta ha dato una grossa spinta in direzione del mantenimento nel Paese di quelle antichità che fino a qualche decennio fa sono state, in parte, ancora concesse agli archeologi.
Dipende tutto dal momento in cui si vive e da come ci si pone nei confronti del passato. La storia non sarà mai identica nella propria rilettura.
Greco: Ovviamente la cultura materiale è la stessa; siamo noi che ci approcciamo ad essa in modo diverso, perché, come diceva Eco, siamo figli del nostro Zeitgeist, dello “spirito del tempo”. Se guardo al corso degli ultimi vent’anni, in cui professionalmente mi sono dedicato all’Antico Egitto, una serie di cose sono cambiate, come l’approccio puramente filologico ed etiologico.
Ho già ricordato Assmann: lui è stato il maestro campione degli studi teologici cui dobbiamo moltissimo. Anche adesso continuiamo a studiare le stesse cose, ma ci poniamo dei quesiti diversi, ad esempio qual era il contesto, chi partecipava alle cerimonie o qual era la struttura socioeconomica dell’Antico Egitto.
Inoltre, un oggetto oggi non viene più studiato solamente attraverso l’approccio artistico della connoisseurship, ma ci domandiamo quali erano le botteghe artigiane, come funzionavano, come venivano finanziate, qual era il flusso economico, di chi erano quelle mani che davano alla luce certi manufatti.
Uno dei problemi dell’Antico Egitto, infatti, è che, a differenza della pittura vascolare attica, dove si scriveva ἐποίησε (epoíēse), il nome del vasaio, ed έγραψε (égrapse), il nome di colui che l’aveva decorato, noi dell’Antico Egitto non conosciamo i nomi degli artisti.
Io appartengo a una generazione che, quando si studiavano i sarcofagi, non faceva mai notare qual era la materia di cui erano composti – che non è semplicemente legno dipinto.
Oggi, invece, la materia ha un ruolo fondamentale, perché anche dalle sole analisi isotopiche dell’argilla possiamo capire da dove proveniva quel materiale e ricostruire le modalità di lavoro.
È questo l’approccio che oggi abbiamo sugli aspetti economico-sociali: ci interessa non solo l’Egitto dei grandi sovrani, ma capire come la società funzionava. Fra vent’anni sicuramente le cose saranno diverse, ed è proprio questa la cosa bellissima della storia e il motivo per cui l’egittologia non morirà mai: la realtà è troppo complessa per dare risposte univoche.
Tra vent’anni gli storici del futuro leggeranno i nostri articoli, li troveranno naïf e superati, e ci saranno nuove domande a partire dalle stesse fonti, cui si cercherà di dare risposta attraverso un approccio completamente diverso.
Intervista a cura di Alexandra Bastari, con la collaborazione di Davide Lamandini e Beatrice Russo.
(In copertina, Daniela Picchi, Christian Greco e Alexandra Bastari durante l’intervista; foto di Giovani Reporter)
L’intervista a Christian Greco è realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e Mismaonda.