Cultura

Il sistema penale dopo Cesare Beccaria – I 260 anni di “Dei delitti e delle pene”

Dei delitti delle pene

“Dei delitti e delle pene” del giurista e filosofo Cesare Beccaria compie 260 anni nel 2024. In occasione della ricorrenza, vale la pena ricordare alcuni dei più importanti concetti formulati in questa operetta brevissima che ha rivoluzionato il diritto penale nel cuore del Settecento europeo.


“Se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità” (p. 62): questa dichiarazione di intenti si colloca nel cuore del ventottesimo capitolo di Dei delitti e delle pene, opera che consacrò il marchese e giurista Cesare Beccaria agli onori imperituri che ancora oggi gli tributiamo.

Conta poco più di un centinaio di pagine, vergate nei primi mesi del 1764, data spartiacque nella storia del diritto penale: Dei delitti e delle pene seppellirà per sempre il violento sistema repressivo e sanzionatorio di Antico Regime, inaugurando un nuovo modo di pensare alla legge, alla pena, al crimine e a chi lo commette.

Questo fortunatissimo “libriccino”, come lo definiva Alessandro Manzoni, celebre nipote dell’autore, compie 260 anni. È l’occasione giusta per recuperare alcuni concetti formulati dal noto intellettuale milanese che hanno cambiato per sempre il volto del diritto penale.

Dei delitti delle pene
Il frontespizio della prima edizione di Dei delitti e delle pene (1764). Foto: Finarte.

Chi era Cesare Beccaria, autore di “Dei delitti e delle pene”

Nato a Milano nel 1738 da una famiglia della piccola aristocrazia, Cesare Beccaria si laurea in giurisprudenza a Pavia nel 1758. Tornato nel capoluogo lombardo, inizia a frequentare gli ambienti delle Accademie, entrando in contatto con il circolo cosmopolita dei fratelli Pietro e Alessandro Verri, animatori e fondatori dell’Accademia dei Pugni e del periodico Il Caffè.

Accademia dei Pugni
Un dipinto di Antonio Perego, intitolato L’Accademia dei Pugni, seconda metà del XVIII secolo (Foto: Wikipedia). 

È probabilmente l’influenza dei Verri e l’aria grondante di spirito illuministico della loro Accademia a spingere il giovane Cesare (ventisei anni appena) a elaborare un programma di riforma della società e del modello giudiziario del suo tempo.

Il territorio del milanese era diventato un teatro di scontro politico tra la monarchia austriaca e il patriziato cittadino, pervicace oppositore del processo riformatore e accentratore asburgico. Cesare fa parte di quel gruppo di giovani studiosi e intellettuali che vogliono offrire i propri servigi al sovrano austriaco, nella speranza di vedersi insigniti di qualche incarico prestigioso.

Così, quando impugna la penna, Beccaria decide di aprire una breccia in uno dei campi più problematici dell’epoca: quello della giustizia penale.

Tanti sono gli obiettivi che il giovanissimo giurista si prefigge con la stesura di Dei delitti e delle pene: delegittimare il potere arbitrario dei giudici, mostrare l’inutilità e la crudeltà del modello inquisitorio, liberare il diritto penale da ogni influenza morale e religiosa e fondare una modernità giudiziaria imperniata sull’empatia per i dolori umani provocati dalla malvagità dei potenti.

Con la sua opera vuole dimostrare che un sistema penale più giusto deve essere anche meno potente e ridurre la forza e l’arbitrio dei magistrati. Ma per farlo è necessario partire da alcune definizioni cruciali: quelle di legge, pena, contratto sociale, diritto di punire, crimine e criminale.

Dei delitti delle pene
Cesare Beccaria (Foto: Wikipedia).

Cosa sono le leggi?

Beccaria colloca l’origine delle leggi nel cosiddetto “contratto sociale”, vale a dire in un patto stipulato tra uomini liberi, che scelsero di cedere una porzione della propria indipendenza in cambio di leggi che garantissero loro sicurezza e libertà.

La libertà di cui godevano prima della genesi della società (libertà naturale), infatti, era resa “inutile dall’incertezza di conservarla”.

In assenza di leggi a proteggerli, gli uomini possono subire le violenze arbitrarie di terzi, che impediscono loro di realizzare i propri fini: massimizzare il piacere, rifuggire il dolore e raggiungere la felicità.

Inoltre, il fatto stesso di sapersi potenzialmente vulnerabili a future violenze, anche senza averle mai subìte realmente, distrugge la libertà, perché impedisce agli uomini di agire in maniera spontanea.

Dei delitti delle pene
Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene: la giustizia personificata respinge il boia, con in mano tre teste, e una spada (Foto: Wikipedia).

Liberi finalmente di compiere qualsiasi cosa non sia contraria alle leggi, i cittadini devono preoccuparsi solo delle sanzioni previste in caso di infrazione: le pene.

Il diritto sovrano di punire e la pena

La pena altro non è che la conseguenza ovvia dell’infrazione di una legge.

È un mezzo per difendere l’ordine sociale minacciato dal delitto.

Le leggi fissano le pene per i crimini compiuti. Riunite in un codice fisso e scritte in un linguaggio comprensibile al volgo, esse non devono venire interpretate arbitrariamente dal giudice – divieto che si rifà al principio della separazione dei poteri già fissato da Montesquieu.

Il lavoro del magistrato consiste semplicemente nel seguire un “sillogismo perfetto”: data l’autorità della legge (premessa maggiore) e data un’azione conforme o no ad essa (premessa minore), il giudice deve stabilire se l’accusato merita la condanna o l’assoluzione.

Dei delitti delle pene
Un monumento a Cesare Beccaria alla Pinacoteca di Brera, Milano (Foto: Wikipedia).

Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 16

Una sanzione che deriva dalle personalissime valutazioni del giudice o che supera il limite fissato dalle leggi è pertanto una pena arbitraria e ingiusta. Ma quando una pena può dirsi davvero giusta? E quando è sia giusta che utile?

Lo scopo delle pene

Nel dodicesimo capitolo di Dei delitti e delle pene, Beccaria definisce il fine delle pene all’interno del principio utilitaristico: poter finalmente godere della sicurezza e delle libertà necessarie per raggiungere la felicità.

Il fine [delle pene] dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 31

Le pene sono degli ostacoli politici che impediscono agli uomini – naturalmente dispotici – di orientarsi verso azioni criminose.

Coloro che hanno scelto di riunirsi in società lo hanno fatto per preservare le loro libertà e rimuovere tutti gli ostacoli (quali le violenze, i soprusi, i delitti) che si frappongono fra gli uomini e i loro fini. Affinché ciò sia possibile, servono provvedimenti di sicurezza pubblica capaci di impedire ai colpevoli di fare nuovi danni e in grado di ridurre la quantità complessiva della violenza nella società: le pene.

Nessuna condanna, tuttavia, può essere disumana o crudele; nessuna società civile può contemplare l’uso della tortura e della pena di morte. Gli stessi contraenti – dice Beccaria – hanno già compiuto un enorme sacrificio cedendo una parte dell’originaria libertà goduta per garantirsi una vita in società protetta dalle leggi, all’interno della quale ricercare la felicità e rifuggire il dolore.

Visto l’enorme sforzo e la fatica, avranno acconsentito solo a piccole rinunce, quelle davvero necessarie, e stabilito di assoggettarsi al minor male possibile. Non avranno certamente – continua Beccaria –  deciso di rinunciare alla propria vita.

Se il contratto sociale è espressione dell’insieme delle volontà particolari, quale contraente avrà mai lasciato al sovrano l’arbitrio di ucciderlo?

La tortura: un retaggio del sistema inquisitorio

I capitoli centrali di Dei delitti e delle pene mettono in discussione il modello inquisitorio, un paradigma repressivo di ascendenza medievale messo a punto all’interno dei tribunali ecclesiastici, ma ben presto utilizzato anche dai tribunali secolari per la sanzione di alcuni crimini considerati eccezionali, come la lesa maestà divina e la falsa monetazione.

La sua severità penale si basava sulla sproporzione tra crimini e castighi, sulla confessione strappata all’accusato tramite la tortura e sulla pena di morte, un supplizio che doveva essere, allo stesso tempo, esemplare, espiatorio e intimidatorio.

Il processo inquisitorio veniva formalmente attivato dalla mala fama, ovvero da una diffusa e spesso anonima notizia del crimine che consentiva al magistrato di procedere alle indagini anche senza la presenza di un accusatore (inquisitio per fama denunciante).

Per infliggere la sentenza era necessaria, tra le altre cose, la confessione personale dell’imputato, spesso estorta attraverso la tortura. Innocente o meno, la tortura serviva ad ogni modo a ‘purgare’ il sospettato, colpevole di essere stato colpito dalla mala fama.

Tomás de Torquemada
Tomás de Torquemada, il terribile inquisitore dell’Inquisizione spagnola (Foto: Wikipedia).

Due sono gli argomenti su cui poggia la battaglia di Cesare Beccaria contro la tortura (capitolo sedicesimo). In primo luogo, è una modalità di estorsione della verità di dubbia efficacia: è assurdo e inutile chiedere all’imputato di essere sia accusato che accusatore di se stesso, perché chiunque, per sfuggire al dolore fisico, sarebbe pronto ad affermare il falso pur di frenare l’agonia.

L’innocente, infatti, sarebbe clamorosamente disposto ad accusarsi di un crimine non commesso pur di sottrarsi al male fisico presente. La tortura è volta a misurare solamente la capacità fisica o morale di sopportare un dolore, “quasi che il criterio di essa [della verità] risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile” (p. 38).

Tortura
Uno dei tanti possibili metodi di applicazione della tortura (Foto: History.com).

Ma è il secondo argomento a inaugurare il nuovo linguaggio della procedura penale:

[…] o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 38

Nell’accezione giuridica del termine, colpevole è solamente colui che è stato dichiarato tale dall’atto performativo di un tribunale.

Contro la pena di morte: il fattore pedagogico del tempo

In Antico Regime, la visione dell’ultimo e finale supplizio aveva lo scopo di educare e intimidire il pubblico radunato sotto le forche patibolari, proclamando agli occhi di tutti il diritto di vita e di morte che risiedeva nelle mani del sovrano.

Atto di inusitata crudeltà, la pena di morte è per Beccaria un mezzo inutile e non reversibile; non dissuade il delinquente dal commettere il delitto, ma “indurisce” il criminale nell’odio.

Gli uomini sono esseri sensibili che progrediscono “lentamente verso il bene”, tramite “l’abitudine” e “l’educazione”.

Gli spettacoli atroci del patibolo impressionano solo per un breve periodo di tempo, prima di essere dimenticati.

Dei delitti delle pene
Una traduzione inglese di Dei delitti e delle pene del 1793, con un commento di Voltaire (Foto: AbeBooks.fr).

Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 63.

La pena di morte dovrà essere sostituita piuttosto dall’estensione nel tempo di una pena moderata che mantenga la sua funzione sociale di intimidazione, come quella dei lavori forzati, pena reiterabile e con una maggior efficacia deterrente. Nessuno, infatti, preferirà il vantaggio di un delitto sapendo di rischiare di perdere totalmente la propria libertà e di vivere anni nella schiavitù e nel dolore.

È la vita senza libertà, infatti, ad essere la pena massima, una vera tortura: la morte della vita civile.

Il criminale è anche un peccatore?

Arrivati a questo punto, chi è davvero il criminale per Cesare Beccaria? E che cos’è un delitto?

Il crimine è un’azione contraria “a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico” (p. 24). Esso è spogliato di tutta la tradizionale retorica religiosa: non è un peccato, ma un’infrazione originata da profonde cause sociali, quali la povertà e le ineguaglianze, spesso alla radice dei furti.

Mentre in età moderna molte azioni erano qualificate come delitti principalmente sulla base di considerazioni morali o religiose (come l’adulterio, la sodomia, il suicidio e l’eresia), Beccaria sostiene che nessun comportamento può essere punito, nella sua dimensione di infrazione religiosa, dalla giurisdizione civile dello Stato.

Il magistrato civile e quello ‘celeste’ hanno competenze chiare e distinte: la colpa teologica non è delitto e Stato e Chiesa sono due sfere coesistenti che viaggiano in autonomia, e che nelle loro valutazioni applicano due concezioni differenti di giustizia.

Prigioni inglesi
Le prigioni inglesi del XVIII secolo (Foto: History Extra).

Se i teologi giudicano la malizia o la bontà intrinseca all’atto, gli uomini dello Stato lo giudicano in base alla sua utilità o al danno che arreca alla società, principio che esclude la presa in considerazione della limpidezza morale della persona che compie il danno.

L’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, p. 22.

Il criminale altri non è se una triste vittima dell’esasperazione e del risentimento sociale, incline alla trasgressione di importanti norme morali e sociali a causa della sua incapacità di vedere davanti a sé prospettive di miglioramento. Per essere distolto dalle sue malevole intenzioni, il criminale deve essere convinto che il rispetto delle leggi sia più vantaggioso del delitto e che le gerarchie sociali non siano fissate una volta per tutte.

Efficace è quell’ordinamento penale che ricorda agli uomini che il ruolo della legge è quello di proteggere e favorire il diritto di ciascuno al miglioramento della propria sorte e al raggiungimento del benessere sociale.

Ripensare oggi a Dei delitti e delle pene

Mente illuminista allenata a pensare in termini di princìpi e asserzioni ferme, Cesare Beccaria porta il diritto penale alle soglie del mondo moderno recuperando le definizioni di alcuni importantissimi concetti. Leggi, pene, crimine, peccato: sono solamente alcuni dei termini che Beccaria colloca entro una cornice esatta di significato.

La legge non è variabile nel tempo e nello spazio, ma una norma certa e stabilita, redatta su supporto scritto e che disciplina le dinamiche di vita sociale. E la giustizia non è la retribuzione del male con il male, ma il “vincolo necessario per tenere uniti gli interessi particolari” (p. 13), e che in virtù della sua natura non può mettere in discussione il diritto alla sicurezza, alla libertà e alla vita.

Un intervento su Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, a cura di Philippe Audegean, professore di Filosofia politica.

Beccaria ci ha costretto a pensare al profondo (e spesso problematico) rapporto di concatenazione tra il principio di utilità (a cosa servono le leggi e le pene?), il principio di legalità (ogni attività dei pubblici poteri deve trovare fondamento in una legge) e il paradigma dei diritti umani (come il diritto alla vita).

A 260 anni dalla sua pubblicazione, Dei delitti e delle pene ci invita a considerare attentamente il potenziale trasformativo della giustizia nella costruzione di una società più rispettosa dei diritti umani, in cui il fulcro del sistema repressivo sia orientato non verso il delinquente, ma verso il delitto stesso e la comprensione delle radici profonde dei comportamenti devianti.

Alexandra Bastari

(In copertina, immagine tratta da Rai Scuola)


Le citazioni sono tratte da Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene. Con una raccolta di lettere e documenti relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del Settecento, Einaudi, 1965.


Il sistema penale dopo Cesare Beccaria – I 260 anni di “Dei delitti e delle pene” è un articolo di Alexandra Bastari. Clicca qui per altri articoli dell’autrice.

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