
Il 1° aprile Israele ha attaccato e distrutto la sede del consolato iraniano a Damasco. L’Iran ha fin da subito promesso ritorsioni, che si sono concretizzate la scorsa notte, tra il 13 e il 14 aprile. Eppure, il contrattacco di Teheran lascia a desiderare dal punto di vista strategico. Perché non è stato pianificato meglio? Quali conseguenze comporta? Ci aspetta una guerra totale? In questo articolo si cercherà di rispondere a queste e ad altre domande, per fare chiarezza su cosa sta succedendo in Medio Oriente.
1. Perché Israele ha attaccato l’Iran a Damasco?
Il 1° aprile Israele ha attaccato e distrutto la sede del consolato iraniano a Damasco, nel cuore della Siria. L’attacco ha causato 11 vittime, tra cui 7 Guardiani della rivoluzione islamica e il generale iraniano Mohammad Reza Zahedi. Non si è trattato di un caso isolato su territorio siriano da parte di attori terzi. Negli ultimi 14 anni di guerra civile e regionale, la Siria è stata spesso usata come territorio proxy delle altre forze regionali, soprattutto dell’Iran, il quale sostiene il regime siriano di Bashar al-Assad.
Inoltre, in territorio siriano sono presenti alcune basi militari di altri due stretti alleati di Teheran: le forze libanesi di Hezbollah e quelle irachene filoiraniane. Anche Hamas rientra nella sfera d’iraniana: è per questo che Teheran è stata da subito coinvolta nell’operazione israeliana nella Striscia di Gaza. A partire dal 7 ottobre, Israele ha intensificato gli attacchi contro la Siria, al fine di colpire le basi militari della grande famiglia di cui anche Hamas fa parte, e a cui fa capo il regime iraniano.
Anche nel contesto di più di un decennio di attacchi periodici in Siria, quello del 1° aprile si differenzia dagli altri principalmente per due motivi: ha colpito una sede diplomatica e ha provocato la morte di uno degli esponenti di spicco della struttura dei Guardiani della Rivoluzione: Reza Zahedi, appunto.
2. Chi era Mohammad Reza Zahedi?
Mohammad Reza Zahedi faceva parte della Forza Quds, il corpo speciale delle Guardie della rivoluzione islamica che gestisce le operazioni di Teheran all’estero. Non solo ne faceva parte: era l’ufficiale di più alto rango nel territorio arabo del Levante, il “governatore militare” responsabile dell’espansione iraniana nella regione.
Da anni gli era stato affidato il dossier dedicato a Siria e Libano. Si era occupato del rafforzamento di Hezbollah nel sud del Libano alla fine degli anni ‘90, ancor prima del ritiro israeliano nell’area. Dal 2011, con l’inizio della guerra in Siria, si era occupato delle operazioni di Hezbollah e dei pasdaran iraniani nel Paese.
Reza Zahedi era sicuramente la persona che meglio conosceva la posizione iraniana nel Levante arabo, costituendo un collegamento diretto tra Teheran e suoi alleati più stretti. Per questo, dopo l’uccisione del generale Qasem Soleimani per mano statunitense nel gennaio 2020, quello di Reza Zahedi è stato l’omicidio più rilevante per le forze iraniane.
3. Come ha risposto l’Iran?
La continuità storica e l’analisi della situazione post 1° aprile facevano ipotizzare che l’Iran non avrebbe reagito con un’azione militare diretta contro Israele, né tantomeno con un’escalation militare su ampia scala. Quest’ultima infatti, sebbene temuta dalla comunità internazionale, si rivelerebbe controproducente sia per Teheran che per Tel Aviv.
Un conflitto su larga scala metterebbe a repentaglio la stabilità delle strutture di potere di questi attori, che mirano invece a rafforzarle attraverso guerre di logoramento – come quella in corso a Gaza.
Eppure, due settimane dopo l’attacco a Damasco, l’Iran scaglia 200 droni e 250 missili balistici contro il territorio israeliano. Non si è trattato di un attacco a sorpresa. Già dalle ore precedenti i segnali dell’imminenza dell’attacco erano evidenti, come l’annuncio della chiusura delle scuole israeliane per domenica 14 e la chiusura degli spazi aerei israeliano e giordano per i voli civili. Inoltre, dopo il lancio, i droni iraniani hanno impiegato alcune ore per raggiungere il territorio israeliano, lasciando al nemico il tempo di organizzarsi.

I missili, che hanno invece un tempo di percorrenza di una decina di minuti, sono stati prontamente intercettati dall’Iron Dome, il sistema anti-missile israeliano. Nella notte Tel Aviv ha dichiarato di aver abbattuto il 99% dei droni e dei missili iraniani, anche grazie al supporto degli aerei militare statunitensi, inglesi e francesi. Teheran ha però dichiarato di aver colpito il territorio israeliano.
4. L’Iran poteva fare di meglio?
L’attacco iraniano presenta alcuni problemi logistici, il principale dei quali è di natura puramente geografica. Prima di raggiungere l’obiettivo, droni e missili hanno dovuto attraversare la Giordania e almeno uno Stato tra Iraq e Siria.
Mentre gli ultimi due territori sono vicini all’Iran, la Giordania non ha alcuna intenzione di farsi trascinare in una guerra. Ha infatti dichiarato di aver abbattuto droni e missili iraniani. Lanciare l’attacco dal sud di Libano e Siria sarebbe stato sicuramente più efficace, anche per accorciare le tempistiche e lasciare meno tempo al nemico per organizzarsi per recepire l’attacco.
L’Iran non può aver ignorato tutto questo: era sicuramente consapevole dei limiti del suo piano. Allora perché non ha progettato meglio l’attacco, sfruttando le sue basi limitrofe al territorio israeliano? Probabilmente perché Teheran non aveva intenzione di scatenare una guerra, ma solo di avvalersi del diritto di risposta all’attacco israeliano a Damasco. Quello della notte tra il 13 e il 14 aprile non voleva essere un attacco a sorpresa, nemmeno un vero e proprio attacco militare, ma piuttosto una risposta mediatica.
5. Qual era la vera intenzione di Teheran?
L’Iran ha dovuto rispondere all’attacco del 1° aprile per consolidare la sua credibilità interna e regionale. Dal punto di vista interno, la condanna a Israele – il “grande nemico sionista” – è uno dei pilastri della politica del regime iraniano. I Guardiani della Rivoluzione non potevano permettersi di lasciar correre un affronto tale come l’uccisione di Mohammad Reza Zahedi, o avrebbero perso di credibilità. La risposta all’attacco è infatti stata acclamata sia in Parlamento che nelle piazze di Teheran.
Dall’altra parte, il contrattacco costituisce un forte segnale diplomatico, che prova che l’Iran è pronto alla guerra se essa dovesse risultare necessaria. Questa occasione però non si è ancora presentata. La rappresentanza iraniana all’ONU ha infatti dichiarato che “la questione può considerarsi conclusa […]. Tuttavia, se il regime israeliano dovesse commettere un altro errore, la risposta dell’Iran sarà molto più severa”.
Il messaggio è chiaro: l’Iran è pronto a una guerra che non conviene a nessuno scatenare – fermiamoci ora che siamo pari, finché siamo ancora in tempo. L’Iran ha anche invitato gli Stati Uniti a tenersi fuori dalla faccenda: “Si tratta di un conflitto tra l’Iran e il regime canaglia israeliano, dal quale gli Stati Uniti DEVONO ASTENERSI!”.
6. Cosa dice il diritto internazionale?
In questi casi è sempre bene tenere sotto mano il diritto internazionale, che mette ordine su quello che gli Stati possono e non possono fare (almeno in teoria), e aiuta quindi a capire come possa evolversi la situazione. La norma da prendere in considerazione in questo caso è l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che regola la legittima difesa. L’Iran ha infatti dichiarato di aver condotto l’attacco contro Israele in legittima difesa come conseguenza all’attacco israeliano a Damasco.
L’articolo 2.4 della Carta recita che “i membri delle Nazioni Unite devono astenersi nelle loro azioni dalla minaccia o uso della forza contro l’integrità territoriale e indipendenza politica degli altri Stati” – ovvero il divieto di aggressione. Secondo l’articolo 51, in caso di aggressione, lo Stato colpito può rispondere in legittima difesa.
Ci sono però dei parametri per stabilire se si tratti o meno di aggressione. Secondo la dottrina prevalente, si tratta di aggressione quando un attacco comporta la violazione della sovranità interna, dell’indipendenza politica e territoriale di uno Stato, o comunque provoca gravi conseguenze.
Le sedi diplomatiche sono considerate come “pezzi di territorio” fuori dai confini nazionali. L’attacco al consolato iraniano a Damasco, anche se fisicamente avvenuto in Siria, deve quindi essere considerato come un attacco in territorio iraniano. Può quindi essere considerato come un’aggressione: Teheran può avvalersi della legittima difesa secondo l’articolo 51.
Questo non toglie che anche la legittima difesa debba rispettare dei parametri, come quello di immediatezza, che nel caso del contrattacco iraniano possono essere messi in discussione.
7. Quali sono le conseguenze per Israele?
A livello internazionale, il contrattacco iraniano complica i rapporti tra Israele e gli Stati Uniti. Questi ultimi hanno dichiarato di non essere stati coinvolti e neppure informati dell’attacco a Damasco, segnale che intendono prendere le distanze dalla questione.
Biden ha infatti dichiarato che gli Stati Uniti continueranno a proteggere Israele, ma non contribuiranno a una risposta contro l’Iran. In generale, però, il legame tra Washington e Tel Aviv può incrinarsi, ma non spezzarsi. Si tratta di un’alleanza troppo strategica per entrambi gli attori per essere semplicemente messa da parte.
Dal punto di vista interno, le circostanze attuali potrebbero rivelarsi favorevoli per Netanyahu. Se fino a ieri sera la sua popolarità era ai minimi termini, con il rinnovato stato di emergenza il popolo si stringe ancora una volta intorno al suo leader. Per il momento, il premier ha dichiarato che Israele è pronto a difendersi e attaccare. Per attaccare, però, è necessario un cambio di strategia.
Il ritiro delle truppe israeliane dal sud della Striscia di Gaza potrebbe rappresentare proprio questo cambio di rotta. Questa decisione può essere interpretata come la volontà di Netanyahu di attuare una riorganizzazione militare in vista di un allargamento del conflitto. In queste circostanze, Israele avrebbe infatti bisogno di forze schierate nei territori meridionali di Siria e Libano, per rispondere e attaccare l’Iran e ai suoi proxy.
8. Che fine hanno fatto i negoziati?
Sebbene possa sembrare contraddittorio, colloqui di pace e uso della forza non sono concetti antitetici. La violenza può infatti essere sfruttata per accelerare o rallentare i negoziati, o per volgerli a proprio favore. Al momento sono in corso numerose trattative, che portano praticamente tutti gli attori coinvolti a dialogare, sia tra alleati che tra nemici. Questo non vuol dire che i conflitti si congelino fino alla fine delle trattative.
In particolare, per Netanyahu una pausa dell’assedio di Gaza non rappresenta un’opzione. Il leader sta negoziando non solo una pace, ma anche la sua sopravvivenza politica e istituzionale. Internamente, è infatti circondato da procedimenti giudiziari che, nel caso tornasse a essere un normale civile, lo porterebbero molto probabilmente in carcere. Dopo il 7 ottobre ha scelto la tattica della guerra totale contro Hamas, e ora non può più permettersi di abbandonarla.
Quello di Israele è un caso lampante di come negoziati e guerre vadano spesso di pari passo. L’assedio di Gaza resta l’unico potere negoziale nelle mani di Israele, l’unico elemento su cui Israele può fare leva per indirizzare le trattative a proprio vantaggio. Parallela è anche la situazione di Hamas, che può fare affidamento solo sugli ostaggi israeliani per influenzare i dialoghi sulla pace.
Si è così creato uno stallo: da una parte Hamas chiede uno tregua, che Israele non può concedere; dall’altra Israele chiede la restituzione degli ostaggi, a cui Hamas non può acconsentire. Come sbloccare questa impasse negoziale?
Clarice Agostini
(In copertina Il sole 24 ore)
Per approfondire l’argomento, leggi gli articoli del Percorso Tematico Israele e Palestina.