Domenica 7 aprile 2024, presso l’oratorio di San Filippo Neri (Bologna), si è tenuto il sesto appuntamento della rassegna “Omaggi”. Ospiti della serata gli attori Alessio Boni e Marcello Prayer che, in un concertato a due, hanno portato sul palco le poesie di Alda Merini. A margine, Sara Nizza ha avuto l’occasione di intervistare Alessio Boni.
Quella che è andata in scena domenica sera al San Filippo Neri non è una canonica lettura di poesia: è un rincorrersi molto lirico e coinvolgente di suoni poetici. L’impatto è forte, un po’ disorientante, ma dopo i primi attimi lo spettatore viene completamente trascinato nella rappresentazione.
Sara Nizza: Quando e dove nasce l’idea di portare Alda Merini a teatro?
L’idea è nata per una situazione molto anomala: ci chiamarono dal comune di Mirandola, dodici anni fa, quando c’è stato il terremoto; gli sfollati erano fuori in tende, in attesa di sapere chi sarebbe potuto entrare e chi non sarebbe più tornato nella propria casa completamente sgretolata dal terremoto. E c’era questa tendopoli con un palco al centro. Avevano invitato parecchi artisti, anche cantanti… e in quell’occasione mi chiamarono.
Siccome con Marcello ci conosciamo dai tempi dell’accademia, abbiamo iniziato a fare questi concertati a due. Ci siamo chiesti cosa potessimo portare: certamente non qualcosa di divertente perché noi non siamo comici; tra l’altro, bisogna stare attenti a far ridere in un momento di dolore, con persone che sotto le macerie hanno perso un figlio, un padre o un nonno. Quindi cosa porti? Dei pezzi tragici? Fai Shakespeare? Non sapevamo cosa portare, volevamo proporre delle poesie perché sembrava la cosa più attinente per animi così doloranti.
Allora ci è venuta in mente Alda Merini. Noi la amavamo, la conoscevamo e l’avevamo studiata: lei è riuscita a sublimare tutto il dolore e la cattiveria ricevuti – anche da parte di una certa intellighenzia della nostra Italia – e li ha resi un mantello disteso per noi, un mantello d’amore verso il prossimo, verso la parola, verso gli intenti, raggiungendo, secondo me, dei vertici di una poesia viscerale che ci tocca tutti quanti.
Penso alle figlie che le sono state strappate quasi dal grembo perché non era ritenuta una madre idonea; è stata sbeffeggiata prima che potesse essere pubblicata seriamente, anche un po’ ridicolizzata negli ultimi anni della sua esistenza, a mio avviso, presa un po’ così, come un fenomeno da baraccone da mettere di qui e di là, per fare un po’ “la pazza della porta accanto”, come le piaceva definirsi.
La sua poesia non è elitaria, non è settaria; ci sono dei poeti che, se non vengono studiati, non si comprendono: Alda Merini è una donna che tocca anche la sensibilità di mia madre che ha fatto la quinta elementare; questa è la sua forza, la sua potenza. Parte dalla fogna dell’essere umano e arriva alla sublime poesia, attraversa tutto. Ecco perché ci piace Shakespeare, perché parte dai becchini che parlano mentre scavano, dai vermi che passano attraverso lo scheletro e poi arriva alla sublime poesia di Amleto che parla con Orazio. Ecco perché ci piace Molière, perché fa questo: attraversa tutto l’animo umano.
Joyce non piace a tutti perché è troppo alto – posto che Joyce è un genio – ma non può arrivare a tutti: devi avere una conoscenza per poterci arrivare. È come se ti scagliassi davanti la Guernica di Picasso tutta d’un colpo senza che tu abbia fatto un percorso per capirla: non la capisci, anzi, ti dà fastidio; invece, se hai fatto il percorso la capisci, è come il taglio di Fontana. E invece no, per lei non c’è bisogno, è come Puccini, che era tanto bistrattato, ma le sue tre opere più importanti sono le più rappresentate al mondo.
S.N.:Assume un valore diverso per voi portarla a teatro in occasione della ricorrenza del centenario dalla nascita di Franco Basaglia?
Di recente sono stato a Trieste, dove c’era la sezione dell’ex manicomio in cui Basaglia aveva lavorato, e ovviamente mi è venuta in mente Alda Merini. Hanno un nesso molto particolare.
Fosse stato per lui, tutte quelle persone sarebbero state libere fin dall’inizio e si sarebbero utilizzati altri strumenti, non gli elettroshock. Alda Merini ne ha subiti quarantasei – in una traccia, che abbiamo trovato studiando tredici anni fa, lo dice proprio lei –; noi abbiamo scelto quarantasei poesie, ed è la durata giusta della lettura, come se ne avesse dettato lei il tempo.
Quindi si, ha sempre una particolarità quando c’è una ricorrenza, perché le ricorrenze ti fanno ricordare delle cose, come quando perdi un caro e quel giorno per te ha un valore.
Credo che Basaglia abbia fatto una grandissima rivoluzione; tuttora il suo esempio, soprattutto a Trieste, è molto forte, da lì parte una fucina incredibile. Lei della legge 180 in qualche modo ha usufruito, anche se non era segregata, ha fatto dentro e fuori per vent’anni; era considerata folle solo perché non era compresa.
È molto difficile comprendere, perché la poesia parte dall’animo umano, quindi è una definizione che appartiene a un altro, è una considerazione di un altro. La poesia, come ti dicevo prima, è qualcosa che gli intellettuali, che sono dentro una certa cricca, prendono e considerano alta o bassa a seconda del loro modo e gusto di sentire e di vedere il verso; quindi è stata bistrattata, non è stata considerata, non è stata compresa, non è stata capita per anni e lei continuava a scrivere nonostante questo.
Alda Merini quando aveva l’istinto diceva la poesia, la traduceva, la buttava su carta ed era quella che rimaneva nel libro di poesie; c’è gente che per scrivere una poesia ci impiega dei mesi: la risistema, la smussa, aggiunge, toglie; lei era come posseduta. Mi è dispiaciuto non averla conosciuta. Mi è capitato di parlare con persone a lei vicine, come Aldo Colonnello e Giuliano Grittini, il suo fotografo, e loro mi dicevano che lei entrava proprio in trance e trascriveva.
S.N.: Lei, in passato, ha detto che questo concertato potrebbe farlo solo con Marcello Prayer. Quindi, in che modo è una rappresentazione diversa da una semplice lettura? E che ruolo gioca la vostra formazione con Orazio Costa?
Noi abbiamo lavorato sul coro, ti spiego pragmaticamente in cosa consiste la coralità. Noi lavoravamo tutti sull’Amleto, conoscevano l’“essere o non essere”; abbiamo centinaia di migliaia di ore di registrazione nell’archivio dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.
Ognuno proponeva il suo “essere o non essere”; poi – noi eravamo in diciotto – ci metteva a semicerchio e io, ad esempio, facevo il direttore d’orchestra, e gli altri, insieme, facevano il mio “essere o non essere”. Chi più focoso, chi più fluido, chi più melenso, tutti e diciotto lo provavamo; e tu ti senti forte delle altre diciassette energie che hai attorno, ti senti più sicuro quando lo fai.
Infatti il cantante da solo fa un salto enorme quando esce dal coro e diventa un grande cantante, altrimenti si richiude nel coro perché lì si sente forte; anche nell’opera, ti senti più sicuro perché sei contornato dagli altri, dalle altre energie. Infatti provavamo ed eravamo più forti, eravamo posseduti, in un certo qual modo, dalle altre diciassette energie. Noi abbiamo studiato così per tre anni, quindi l’alternativa è farlo con altre persone, come Gigi Lo Cascio o Fabrizio Gifuni, che hanno fatto il mio lavoro.
Marcello è un mio carissimo amico, siamo rimasti insieme. Noi ci ascoltiamo, sappiamo chi parte: parto io con la prima battuta, poi lui si accoda; noi jazziamo, sentendoci affiancati l’un l’altro. Una volta Marcello all’ultimo non ha potuto, quindi l’ho dovuto fare da solo: mi sono sentito una nullità, orfano e completamente senza energie, mi sembrava di essere un cane totale perché ero abituato con lui; se ne avessi altri due attorno saremmo ancora più potenti.
Questa è la funzionalità del concertato: non è un elenco, ci accavalliamo l’uno sull’altro. Ecco perché teniamo le poesie sul leggio, se le imparassimo a memoria non riusciremmo ad accavallarci, a jazzare; è come il jazz: il concertato non è una poesia ciascuno, è tutti i versi di Alda, in due, insieme.
S.N.: So che in passato ha portato a teatro Pavese e Pasolini; e ricordo le sue letture di poesie condivise via social durante il primo lockdown: da dove nasce la passione per la poesia? Che significato ha per lei?
Si, abbiamo portato Pavese, Pasolini, ma anche Gaber e Piero Ciampi.
La condivisione delle poesie in quarantena si è rivelata sorprendente. Ogni sera Nina, la mia compagnia, mi riprendeva, e la mattina poi postavo un video. Abbiamo iniziato con poesie che mi piacevano, poi è stato bello perché ha coinvolto la gente: mi arrivavano tantissime mail che chiedevano di leggere questa o l’altra poesia; alcune non mi piacevano e non le leggevo [ride, ndr].
Durante il lockdown è partita una cosa stranissima: noi eravamo in un condominio a Milano, dove non si muoveva una foglia, e alle cinque del pomeriggio un signore, sia che piovesse o che ci fosse il sole, usciva e suonava il violino ogni giorno per venti minuti o mezz’ora, e noi applaudivamo. Succedevano delle cose stranissime, quindi a me era venuta voglia, e all’inizio leggevo a Nina, poi abbiamo iniziato a pubblicare e ha avuto un fortissimo riscontro.
Questo perché la poesia è qualcosa, innanzitutto, di molto intimo e poi, considerando la soglia dell’attenzione che abbiamo oggi, è perfetta perché al massimo dura due minuti. Le poesie, in un concentrato, se sono belle, ti tirano fuori un senso della vita che magari tu hai, impercettibilmente, ma non l’hai racchiuso così come quel genio ha fatto. E ti ci ritrovi, in poche righe senti un pezzo di essenza di vita e ti arricchisci: questa è la vera poesia. A me piace da morire perché ho una passione per la vita, io sono drogato di vita ed è lì, gratis.
Intervista a cura di Sara Nizza, con la collaborazione di Davide Lamandini.
(In copertina Alessio Boni e Marcello Prayer, dal sito ufficiale di Alessio Boni)
L’intervista ad Alessio Boni è stata realizzata in collaborazione con l’Oratorio di San Filippo Neri e Mismaonda.